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Ricordando Carlo Onofrio Gori (1949-2017)

Vario e notevole è stato il contributo che il bibliotecario e storico locale Carlo Onofrio Gori, nato a Prato nel 1949, pistoiese d’adozione e scomparso lo scorso 24 ottobre dopo una lunga malattia, ha saputo dare alla storia pistoiese del XX secolo.

Tre sono le direttrici a cui può essere ricondotta la sua attività di storico: la prima, di catalogazione e sistemazione delle fonti, connaturata e favorita dalla sua attività di bibliotecario; la seconda, di studio della storia locale pistoiese, con particolare riguardo al biennio rosso e al ventennio fascista; la terza, di divulgazione al pubblico dei risultati raggiunti.

Fulcro della sua prima attività sono stati, rispettivamente, il censimento delle lapidi, dei cippi e delle targhe pistoiesi e la ricognizione dei periodici giunti al Centro di Documentazione di Pistoia. Il primo, avvenuto nel 1995 con la pubblicazione edita dal Comune di Pistoia Guida ai luoghi della memoria, ha costituito la prima ricognizione sistematica di tutti quei “segni della memoria” che nel corso dei tempi, ma soprattutto nel secolo scorso, le autorità cittadine hanno disseminato nel tessuto urbano.
Il secondo, snodatosi nel corso della costituzione e del radicamento del Centro di Documentazione, ha condotto alla classificazione, tra gli anni ’80 e ’90, delle oltre diecimila riviste accumulate dalla fondazione pistoiese, sorta nel 1970 per raccogliere le testimonianze e le pubblicazioni edite dai movimenti studenteschi, rivendicativi e rivoluzionari italiani e internazionali. La rilevanza della Guida si è quindi esplicata prima di tutto a livello locale e, solo in un senso più lato, a livello nazionale: con uno dei primi censimenti ragionati sulle “memorie di pietra” ereditate dal succedersi di epoche e partiti, Gori si è mosso nella preistoria di uno dei filoni più importanti dell’odierna Public History – ovvero lo studio di come la politica abbia cercato di forgiare, e poi diffondere, una sua peculiare interpretazione dei fatti storici. Più ampie sono state invece la ricezione e la fortuna del Catalogo delle riviste e dei periodici del Centro di Documentazione, diventato ben presto uno strumento di consultazione per tutti coloro che si avvicinino alla ricerca sulla società, la politica e il costume degli anni ’70.

Come storico locale, i suoi numerosi contributi – pubblicati sulle riviste “Farestoria”, “Quaderni di Farestoria” e “Microstoria” – hanno avuto il merito di soffermarsi su personaggi e figure poco conosciute della società e della politica pistoiese. Tra i primi a studiare il biennio rosso, l’instaurarsi del fascismo a Pistoia e le ripercussioni locali delle vicende belliche, Gori è stato tra i primi a dare spazio a due figure quasi dimenticate – ma il cui impatto fu tutt’altro che territorialmente limitato – come il partigiano Pierluigi Bellini delle Stelle.

Bellini delle Stelle, nato a Firenze ma cresciuto a Pistoia, dove studiò al Liceo Forteguerri – e dove si ritrovò in classe insieme a un altro partigiano, Silvano Fedi –, con il nome di battaglia di “Pedro” era il comandante partigiano di pattugliamento sul monte Berlinghera quando Mussolini, travestito da soldato tedesco della Lutwaffe, cercò di varcare il confine dopo l’insurrezione generale. Mobilitando gli abitanti della zona e fingendo di avere a disposizione più armati di quanti non ne avesse realmente, riuscì a impressionare il comandante della colonna, il generale Fairmallen, e a imporgli di poter proseguire verso la Germania solo dopo che l’autoblindo fosse stata perquisita a Dongo – e dopo che Mussolini non fu individuato e arrestato, insieme agli altri gerarchi e all’amante Claretta Petacci, da Bill, il vice di Bellini. Prigioniero del comando di Bellini per alcuni giorni, Mussolini rimase a Dongo fino a quando Walter Audisio, giunto a Dongo per conto del CLN, lo condusse il 28 aprile a Milano per eseguirlo.
A eccezione di un articolo scritto su «L’Unità» pochi giorni dopo e il volume – ormai introvabile – Dongo ultima azione, pubblicato per Mondadori nel 1952, Bellini delle Stelle dopo il conflitto si ritirò a vita privata. Si trasferì a San Donato Milanese, dove sposò Marianna Berio, sorella del musicista Luigi. Grazie all’amicizia con Enrico Mattei, che aveva avuto modo di conoscere durante la lotta partigiana, poté far carriera nell’ENI.

Tutti questi risultati hanno conosciuto poi un’attenta divulgazione che, oltre ai mezzi di diffusione tradizionali, si è rivolta alle nuove tecnologie. Nel 2012 – anno in cui in Italia la Public History godeva di assai ben scarso seguito – Carlo Onofrio Gori inaugurò e aggiornò un blog di storia per poter coinvolgere fette di pubblico fino ad allora ancora trascurate.




La protesta delle donne contro la guerra

Durante l’intero periodo bellico, in tutta l’Europa continentale si registrarono fenomeni di opposizione al conflitto; tuttavia, per intensità e frequenza le proteste in Italia evocano gli scenari della Russia che tanto scossero la classe politica nazionale del tempo. Nell’estate 1917, infatti, la vicenda russa costituì un vero e proprio spettro per le autorità italiane. Le ‘terribili’ proteste furono spesso avvertite dai prefetti del Regno come il prologo di una rivoluzione o di gravi sconquassi che di lì a poco avrebbero condotto a uno sconvolgimento del paese. Il prefetto di Pisa non fece eccezione rispetto a queste sentire diffuso. Il giorno prima dell’inizio della famosa rivolta di Torino (22 agosto 1917), aveva scritto al ministero dell’interno una relazione in cui denunciava che da mesi in provincia si verificavano praticamente ogni giorno dimostrazioni di donne contro la guerra. Pur non avendo un quadro nitido delle dinamiche nazionali, riteneva che le dimostrazioni fossero «coordinate ad un unico scopo […] d’impressionare e premere sul Governo centrale pel pronto raggiungimento di una pace qualsiasi». Tuttavia, continuava, non era da escludersi che servissero «di allenamento alle masse per la loro partecipazione ad un eventuale movimento generale rivoluzionario». In questo senso, ammoniva il ministero dell’esistenza di un piano regionale per «la proclamazione di uno sciopero generale con finalità rivoluzionarie». In realtà non solo lo sciopero generale non si verificò, ma di lì a poco la lunga stagione delle proteste del 1917 si sarebbe esaurita anche nella provincia pisana.

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Documeno che attesta la mobilitazione di 1360 operaie degli stabilimenti Pontecorvo (27 luglio 1917, Archivio Centrale dello Stato)

Il prefetto Gaspare Focaccetti non esagerava quando lamentava la reiterazione pressoché quotidiana di forme protestatarie anche se la parabola fu contrassegnata da due cicli di particolare intensità che si verificarono l’uno tra il dicembre 1916 e il marzo 1917 e l’altro in estate. In sintonia con il resto del paese, con le offerte di pace avanzate dal cancelliere tedesco al pontefice (12 dicembre 1916), nel territorio pisano si aprì una stagione densa di lotte intraprese da donne appartenenti alle classi popolari. L’epicentro delle proteste fu la bassa valle dell’Arno (Pisa, San Giuliano, Cascina e Pontedera), dove si concentrava la produzione tessile che rappresentava il più importante comparto industriale di una provincia dotata di un forte settore secondario anche per la presenza di Piombino, nei suoi confini fino al 1925. Il ciclo fu inaugurato dalle operaie tessili degli stabilimenti cotonieri Pontecorvo che, dislocati tra il capoluogo e San Giuliano, contavano 2.420 unità costituite quasi per intero da manodopera femminile. Nella stagione giolittiana, le tessitrici della Pontecorvo avevano rappresentato un soggetto chiave della mobilitazione popolare economica e politica con profondi addentellati con l’anarchismo locale; mentre nei mesi della neutralità, si erano affacciate prepotentemente sulla scena nel corso dei principali appuntamenti contro la guerra. A conferma del dato nazionale sull’elevatissima combattività del settore,  tra il 14 e il 17 dicembre 1916,  le operaie della Pontecorvo, ma non solo, paralizzarono il capoluogo. La pubblicazione sui giornali della profferta tedesca indusse le operaie appena uscite dagli stabilimenti a organizzare una dimostrazione «al grido di abbasso la guerra-vogliamo la pace» in piazza Vittorio Emanuele II, dove il 21 febbraio 1915 si era svolto l’evento cruciale del ciclo di manifestazioni neutraliste. L’intervento della forza pubblica provocò l’arresto di 4 persone, tra cui un’operaia. Il giorno dopo la situazione degenerò: «le operaie di quasi tutti gli stabilimenti più importanti […], in numero di oltre tremila, accentuarono la loro agitazione contro la guerra, e la maggioranza di esse non solo abbandonava il lavoro ma cercava di provocare uno sciopero generale». Ne seguì la militarizzazione della città con violenti scontri, la repressione di forme di radicalizzazione della solidarietà operaia verso l’arrestata,  la conseguente carcerazione per altre donne e lo sgombero di forza dei dimostranti per la pace giunti al Lungarno Mediceo. Tuttavia, al cambio di turno, lo sciopero si riaccese in quasi tutti gli stabilimenti, mentre il 17 a sostegno delle arrestate «le operaie si astennero quasi tutte dal riprendere il lavoro». Trascorsa tranquilla la domenica, il 18 restava in piedi la protesta di una fabbrica Pontecorvo dislocata nel comune di San Giuliano. Il protagonismo di queste lavoratrici risulta tanto più significativo se si tiene conto che donne e uomini della famiglia Pontecorvo erano campioni della prima ora nell’attivismo patriottico e guidavano i comitati di mobilitazione civile del capoluogo; inoltre le fabbriche Pontecorvo, nel quadro della mobilitazione industriale, rientravano nel novero delle ausiliarie dal dicembre 1915. Né la militarizzazione di questi stabilimenti, né il recentissimo decreto di ampliamento del ventaglio repressivo avevano agito da deterrente.

La vicenda cittadina rimase un unicum nel panorama industriale locale. Piombino e i suoi stabilimenti siderurgici non offrirono esempi simili anche se va detto che le sue vicende  meritano una trattazione a parte, considerato che proprio in dicembre il comune «fuori legge» amministrato dai socialisti era dato per spacciato dal sottoprefetto. L’unica altra astensione dal lavoro di opifici di importanti proporzioni si verificò a Pontedera nel febbraio 1917, ma ebbe breve durata anche per il durissimo intervento delle autorità. Il 2 febbraio una dozzina di donne della frazione La Rotta, insieme ad alcuni sovversivi, convinsero le lavoranti delle 2 maggiori fabbriche tessili e dell’impresa alimentare Crastan a lasciare il lavoro e a recarsi al municipio. Il tentativo di invaderlo al grido di «abbasso la guerra, vogliamo i nostri mariti a casa» fu all’origine di colluttazioni con carabinieri e militari. Di fronte al dilagare della violenza si ricorse alla militarizzazione e alla denuncia di 75 persone. La durezza della reazione paralizzò la città e non si verificarono altri scioperi industriali. Di questi ultimi non si ha traccia in altri comuni; in altre aree calde come il volterrano e la costa tirrenica le dimostrazioni assunsero fisionomie diverse. In gennaio, nella zona estrattiva di Volterra e nel distante borgo di Sassetta il rifiuto di riscuotere i sussidi, che rappresentava una modalità di protesta diffusa nel centro-nord, approdò in rivolte ad altissima partecipazione destinate a sfregiare i luoghi e le persone della dirigenza municipale interventista e della mobilitazione civile, che spesso in Toscana coincidevano. “Contagiate” da Volterra, il 18 gennaio circa duecento donne di Montecatini Val di Cecina riuscirono ad accreditare presso il sindaco una loro rappresentanza femminile che avanzò richieste per il ritorno degli uomini e per l’adozione di provvedimenti economici, riuscendo ad ottenere qualche miglioramento sotto il profilo distributivo. Un mese dopo, nell’area della costa retrostante Livorno, le modalità di pressione sui poteri locali assunsero tratti differenti, ma non meno significativi. Di fronte alle dimostrazioni per la pace, a Fauglia il sindaco formulò la falsa promessa di inviare un telegramma al ministero a nome delle donne per fermare il conflitto. Una parte di esse si convinse a riproporre questo esempio persuasivo a Collesalvetti. Se si eccettua  Montecatini, in tutti questi casi la repressione fu ancora una volta durissima.

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all'ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

Il varco aperto nelle mura su piazza Duomo per facilitare il trasporto dei feriti dal fronte all’ospedale Santa Chiara (Collezione privata)

La relativa calma che seguì al mese di marzo fu interrotta in luglio. Anche il ciclo di luglio è caratterizzato da una concentrazione di eventi nella bassa Valle dell’Arno lungo l’asse Pisa-Pontedera, spesso attivati dal malcontento per l’aumento del prezzo del pane. A differenza della fase antecedente, si registra una parabola temporale inversa rispetto a Pisa, che chiude il mese caldo aperto da Cascina. In quest’ultimo comune, dove forte era la presenza di fabbriche alimentari e dell’industria rurale tessile a domicilio, il 17 e il 21 luglio si registrarono le agitazioni di centinaia di donne per il pane e la pace, che seguirono la direttrice dell’attacco alla fabbrica di proiettili Cecchetti, da poco fornitrice del Ministero delle armi e delle munizioni. Almeno una parte delle stesse donne, il 20 e il 21 si concentrò su un altro opificio di proiettili nella vicina Calcinaia. Nei giorni seguenti, inoltre, la cintura di Cascina fu attraversata da un’ondata di protesta variegata con epicentro a Vicopisano. Al contempo, lungo la traiettoria tirrenica e in prossimità di Pisa si consumavano episodi simili e altrettanto partecipati. Piombino, Castellina Marittima, Castagneto Carducci furono teatro di rivolte che si andarono a sommare alla vertenza dei coloni campigliesi in atto da tempo. L’apogeo delle agitazioni si toccò però a Pisa. Il 26 e 27 luglio le tessitrici di tutti e tre gli stabilimenti Pontecorvo e quelle della Pitigliani e Cameo, la seconda fabbrica tessile cittadina per occupati, iniziarono uno sciopero per il salario sfociato in rivendicazioni di pace. L’alto numero delle partecipanti e alcune informative lasciarono temere che si trattasse di un appuntamento in vista di uno sciopero generale. In realtà la città tacque, anche in virtù delle misure preventive, mentre in agosto fu l’area delle colline pisane a infiammarsi con le agitazioni di centinaia di donne di campagna a Terricciola, Chianni, Peccioli e Buti. In quest’ultimo borgo, in due giorni consecutivi (15-16 agosto), si ripeterono dimostrazioni pro-pace con numeri incredibili rispetto al totale della popolazione.

Con la discesa in piazza delle campagne nessuna area provinciale si prospettava immune da movimenti contestativi. I tempi, la geografia, la diffusione degli avvenimenti e la ripresa delle forze politiche regionali allarmarono a tal punto le autorità locali da convincerle, come accennato, dell’esistenza di un piano rivoluzionario. Le agitazioni invece quasi si arrestarono dopo le proteste di Buti. La campagna chiuse la calda stagione del 1917 ben prima di Caporetto. All’epilogo contribuirono probabilmente il giro di vite repressivo locale e nazionale, la crescita dei poteri dei comitati regionali della mobilitazione industriale e la legislazione speciale di pubblica sicurezza. Peraltro, un certo miglioramento economico nelle industrie e lo svuotamento delle speranze in una prossima fine dovettero allo stesso tempo deprimere lo spirito generale. Il riaccendersi dell’insofferenza si sarebbe verificato in inverno, ma con modalità diverse anche in virtù delle nuove norme repressive e del clima post Caporetto.

 *Emanuela Minuto è ricercatrice di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa.




Piero Calamandrei: “la Costituzione che cammina”

Piero Calamandrei: “la Costituzione che cammina”. In questo epiteto calzante coniato nei primi anni Cinquanta del secolo scorso da alcuni suoi allievi e studenti fiorentini, si può ritrovare riassunta tutta l’autorevolezza morale, etica e politica che Calamandrei – giurista, docente universitario e politico (Firenze, 1889-1956) – seppe incarnare nei difficili e turbolenti anni di transizione dal fascismo all’Italia repubblicana. Forniva argomenti a questo popolare giudizio anzitutto il ruolo determinante avuto da Calamandrei entro l‘Assemblea Costituente nel contribuire all’elaborazione della carta costituzionale repubblicana, la quale, dell’apporto teorico del professore fiorentino, risultò poi influenzata in un gran numero di questioni, quali quelle inerenti la forma di governo, i diritti sociali, il ruolo dei partiti, i rapporti fra Stato e Chiesa, i temi della famiglia e dell’indissolubilità del matrimonio, infine l’assetto dell’ordinamento giudiziario. A ulteriore conferma del ruolo fondamentale giocato da Calamandrei nella sistemazione della carta costituzionale, c’era poi da annoverare l’indefesso impegno da lui profuso tra il 1948 e il 1956 nel difendere e diffondere con un numero impressionante di articoli, saggi, discorsi e conferenze il significato e l’importanza di quella stessa Costituzione, ancora in parte inattuata. Due momenti centrali, questi, del più vasto impegno civico e pubblico che Calamandrei portò avanti per tutto il primo decennio del dopo Liberazione nell’immaginare, sostenere e diffondere quell’idea nuova e più autentica di Italia che era scaturita dalla Resistenza e dall’esperienza costituente.

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Il numero monografico de “Il Ponte” dell’aprile-maggio 1955 dedicato alla Liberazione

Non si può non ricordare in tal senso il contributo intellettuale prestato con Il Ponte, la prestigiosa rivista da lui fondata a Firenze nell’aprile del 1945 nel tentativo di ristabilire al di sopra della voragine fascista una continuità spirituale nella storia d’Italia che, quasi riproponendo in pubblico quello che era stato un percorso privato e interiore di Piero, puntava idealmente a unire assieme il Risorgimento alla Resistenza e la Resistenza alla Costituzione. Un intreccio, questo, maturato attraverso un percorso biografico non lineare e pieno di risvolti, ma comunque coerente e meditato, che dall’originaria eredità familiare risorgimentale (quella “antagonista” mazziniana e radicale ricevuta dal padre Rodolfo e quella “patriottico-interventista” vissuta dallo stesso Piero, volontario nel ’15-’18), si era poi dipanato attraverso le delusioni del primo dopoguerra e le difficoltà dell’esperienza antifascista (un antifascismo nel suo caso «non certo eroico», perché speso lontano dalla clandestinità e dall’esilio patiti invece da compagni di lotta quali Salvemini o i fratelli Rosselli, ma comunque vissuto per sua stessa ammissione in modo «costante e senza incertezze», nonostante il giuramento prestato come professore universitario nel 1931 e la tanto discussa partecipazione nel 1939 alla riforma del codice di procedura civile) approdando infine come tappa decisiva alla Resistenza, esperienza da Piero non vissuta direttamente sul campo, ma scoperta e abbracciata idealmente nel 1944 grazie anche al contributo del figlio Franco, gappista nella Roma occupata.

Della Resistenza, d’altra parte, Calamandrei comprese presto l’alto valore morale di rigenerazione nazionale e il suo carattere di cesura in vista di un nuovo regime di libertà, legalità e giustizia, vivendola e sentendola perciò – secondo il giudizio che ne diede Ferruccio Parri – «con una passione più forte, più ansiosa che se avesse potuto parteciparvi» (Il Ponte, ottobre 1956). L’esperienza resistenziale, quindi, come momento di rottura e di riscatto dalla dittatura fascista e dall’oppressione straniera, ma anche come occasione con cui sostanziare in senso rivoluzionario la nascita di quel nuovo e atteso ordinamento costituzionale democratico e repubblicano che, spezzando ogni continuità col decaduto regime monarchico-fascista, Calamandrei vide in parte già prefigurato nella funzione di governo rivoluzionaria dei CLN e sancito per la prima volta de jure nella “costituzione provvisoria” del d.d.l. n. 151 del 25 luglio 1944, col quale il governo dell’Italia libera aveva affidato a una Costituente democraticamente eletta da convocarsi a guerra finita la definizione del futuro assetto istituzionale del paese.

Le grandi speranze nutrite da Calamandrei nella Costituente stavano appunto nell’attesa di poter tradurre in «formule giuridiche» e in un «programma legalitario di rinnovamento democratico» i valori di libertà e eguaglianza per i quali si erano impegnati tutti gli uomini liberi che avevano combattuto durante la lotta contro l’oppressione straniera e la dittatura fascista. Ciò secondo un progetto di democrazia che negli intenti di Calamandrei avrebbe dovuto essere non solo “politica” ma sempre più convintamente “sociale”. Il liberalismo di Calamandrei, grazie anche all’adesione al liberalsocialismo di Calogero e Capitini e al socialismo liberale di Rosselli, aveva infatti assunto negli anni di guerra venature sociali, di modo che in lui «liberalismo» e «socialismo», «libertà individuale» e «giustizia sociale», «diritti politici» e «diritti sociali» erano divenuti un problema solo. Se per Calamandrei gli inalienabili diritti di libertà civile e politica sanciti dalla Rivoluzione americana e francese avrebbero fornito ancora le garanzie attraverso le quali ogni persona avrebbe potuto affermare la propria dignità partecipando in regime di libertà alla lotta politica e alla formazione delle leggi, era però adesso indispensabile inserire tra questi diritti di libertà anche l’affermazione di un minimum di benessere economico, senza il quale – era convinto Calamandrei – i cittadini non avrebbero potuto effettivamente esplicare la propria individualità morale né partecipare attivamente al regime di libertà promesso loro dai tradizionali diritti di libertà politica. Oltre a questi ultimi, dovevano perciò essere garantiti anche diritti di libertà economica (quali il diritto alla casa, allo studio, al lavoro, alla salute, in una parola la libertà dalla miseria) che come conquiste del nuovo ordinamento uscito dalla guerra Calamandrei voleva iscritti nel programma della futura costituzione repubblicana «come affermazioni di diritti insopprimibili al pari di quelli scritti nelle Costituzioni sorte dalla Rivoluzione francese» (P. Calamandrei, Libertà e legalità, 1944).

La vera «prova del fuoco» della Costituente, per Calamandrei sarebbe stata perciò quella di riuscire a tradurre in realtà la proclamazione di questi diritti sociali mediante l’avvio di immediate e profonde riforme strutturali che mutassero in senso più egualitario il tradizionale assetto economico e sociale del paese, il che avrebbe fatto della Costituente «il prologo di una rivoluzione sociale» ancora da venire e della Costituzione il programma di una rivoluzione promessa (Id., Costituente e questione sociale, 1945). La passione con la quale Calamandrei, dopo esservi stato eletto nel giugno 1946 in rappresentanza del Partito d’Azione, operò in sede di Assemblea Costituente affinché le norme programmatiche in discussione, se non proprio dar subito adito a riforme strutturali economiche e sociali, quanto meno fossero in grado di indicare in modo nitido e con lungimiranza la via con la quale conseguire “di fatto” nell’immediato avvenire le agognate libertà individuali politiche e sociali, dovette però scontrarsi come noto col compromesso, «molto aderente alle contingenze politiche dell’oggi e del prossimo domani, e quindi poco lungimirante», raggiunto tra la DC e i partiti social-comunisti attorno alla necessità di rimandare il varo delle riforme strutturali e l’attuazione delle norme programmatiche a uno scenario non prossimo, passibile di divenire sine die. Questo compromesso, che tradiva le aspettative di sostanziale eguaglianza sociale scaturite dalla Resistenza, finiva per dare a molti istituti previsti dalla Costituzione un certo carattere di approssimazione e genericità, soprattutto laddove la proclamazione con formule linguistiche assertive dei diritti individuali politici, civili e sociali contenuti nella prima parte del progetto di Costituzione più che a vere norme giuridiche azionabili e sanzionabili veniva affidata a precetti morali, programmi e propositi «camuffati da norme giuridiche», ma che tali non erano. Intervenendo nella discussione sul Progetto di Costituzione presentato all’Assemblea il 4 marzo 1947, a riguardo di quegli articoli che asserivano di garantire a tutti i cittadini il diritto al lavoro, alla salute, alla pari dignità sociale, all’istruzione, si domandava preoccupato Calamandrei con uno sguardo all’Italia di allora:

Quando io leggo questi articoli e penso che in Italia in questo momento, e chi sa per quanti anni ancora, negli ospedali – parlo degli ospedali di Firenze – gli ammalati nelle cliniche operatorie muoiono perché mancano i mezzi per riscaldare le sale, e gli operati, guariti dal chirurgo, muoiono di polmonite; quando io penso che in Italia oggi, e chi sa per quanti anni ancora, le Università sono sull’orlo della chiusura per mancanza dei mezzi necessari per pagare gli insegnanti, quando io penso a tutto questo e penso insieme che fra due o tre mesi entrerà in vigore questa Costituzione in cui l’uomo del popolo leggerà che la Repubblica garantisce la felicità alle famiglie, che la Repubblica garantisce salute ed istruzione gratuita a tutti, e questo non è vero, e noi sappiamo che questo non potrà essere vero per molte decine di anni, allora io penso che scrivere articoli con questa forma grammaticale possa costituire, senza che noi lo vogliamo, senza che noi ce ne accorgiamo, una forma di sabotaggio della nostra Costituzione! (Id., Chiarezza nella Costituzione, 4 marzo 1947).

La mancata chiarezza di alcune parti del progetto di Costituzione rischiava per Calamandrei di portare al «discredito delle leggi» e all’«incertezza del diritto» che erano stati i tratti distintivi della «falsificazione della legalità» operata dal fascismo. Tuttavia, la disincantata mestizia con la quale Calamandrei constatava la rinuncia della Costituente a introdurre subito le agognate riforme strutturali in forza di una più lenta trasformazione socio-economica da affidarsi ai meccanismi della democrazia parlamentare, non gli faceva però dimenticare che la Costituzione (approvata nella sua forma definitiva nel dicembre 1947 e da Calamandrei totalmente apprezzata per la sua alta qualità etico-politica) tracciava la via con la quale i governi nazionali negli anni a seguire avrebbero potuto attuare con l’attività legislativa ordinaria quei punti programmatici in fatto di riforme socio-economiche delineati nella carta. Riassumeva questo punto il passo di un discorso (non datato, ma antecedente al 1955) intitolato Significato sociale della Costituzione che in quegli anni Calamandrei aveva tenuto agli operai delle Officine Galileo di Firenze:

Occorre procedere a quella trasformazione economica della società che renda possibile la soddisfazione dei diritti sociali. Questo si può fare a caldo, con una rivoluzione violenta, come avvenne in Russia. Ma questo si può fare [anche] a freddo, con una lenta trasformazione democratica. La nostra costituzione ha scelto la seconda via (democrazia parlamentare, pluralità dei partiti, alternanza al potere). Ma scegliere la seconda via, che vuol dire andar piano, ma andare, non vuol dire star fermi. Vuol dire che bisogna fare leggi (che non poté fare la Costituente) ispirate a questo programma di rinnovamento sociale contenuto nella Costituzione. [Una] Costituzione rivoluzionaria nel fine, ma democratica nei metodi […] (ISRT, Archivio P. Calamandrei, 11.3.3).

Ma alla data in cui scriveva queste parole, il programma di rinnovamento sociale racchiuso nella Costituzione era ancora incompiuto. Con l’avvio dell’esperienza centrista e il successo elettorale riportato alle politiche del 1948, la maggioranza a guida DC, infatti, anziché procedere sulla strada dell’adempimento costituzionale aveva deliberatamente deciso di lasciare incompiuti molti aspetti della Carta. Non solo – lamentava Calamandrei – il governo non si era posto sulla strada delle riforme strutturali che avrebbero tradotto “di fatto” le norme programmatiche indicate nella prima parte della Costituzione, ma peggio esso si era deliberatamente astenuto dal portare a compimento anche il varo di quegli strumenti costituzionali di garanzia indicati nella parte organizzativa della Carta (la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, il referendum, l’ordinamento regionale …) che la Costituente aveva potuto solo delineare affidandone l’esecuzione alla prima legislatura repubblicana: «il governo», lamentava nel 1951 Calamandrei su Il Ponte, «non vuole che la Costituzione sia compiuta; non vuole che entrino in funzione gli strumenti per farla rispettare, perché sa che lo costringerebbero a rispettarla» (P. Calamandrei, La Festa dell’Incompiuta, 1951).

L’«incoscienza costituzionale» della classe di governo, che avrebbe fatto della prima legislatura repubblicana (1948-1953) il «quinquennio dell’inadempimento costituzionale», per Calamandrei era il segno del palese tradimento dello spirito di cooperazione democratica lasciato in eredità dalla Resistenza a vantaggio di un progetto di governo a guida DC che il Nostro vedeva assoggettato a una volontà di mera dominazione, come ben esemplificavano il fenomeno dell’ostruzionismo parlamentare di maggioranza e il varo della legge elettorale del 1953, o “legge truffa”, che modificava sostanzialmente il principio di rappresentanza proporzionale sancito nella Costituzione. Se il cospicuo premio di maggioranza previsto dalla nuova legge elettorale, prova per Calamandrei di scorrettezza costituzionale, alle elezioni del 7 giugno di quell’anno non scattò, fu anche grazie all’apporto in fase di campagna elettorale assicurato dall’esiguo ma battagliero gruppo di Unità Popolare, di cui il professore fiorentino era stato uno dei fondatori. Contro la strumentale polarizzazione politica di quelle consultazioni giocate tra comunismo e anticomunismo e il ricatto elettorale incentrato dalla DC sulla minaccia del «doppio terrore» “rosso” e “nero” (ma in realtà superato nella pratica dalle preoccupanti aperture di credito elettorale concesse in chiave anticomunista dalla DC alla Destra e persino a figure del vecchio fascismo) Calamandrei vide nel fallimento di quell’esperimento di ingegneria elettorale un segno di speranza per la ripresa dell’originario slancio riformatore dei partiti antifascisti, nello spirito che era stato proprio della Resistenza (Id., La Resistenza ha resistito, 1953). Rinasce così in Calamandrei la fiducia che la Costituzione riprenda il suo cammino interrotto e si intensifica perciò il suo impegno personale contro il «disfattismo costituzionale» della maggioranza, contro il tradimento politico della Resistenza, contro lo spirito di «desistenza» che incarna la sfiducia nella libertà e il ritorno del passato autoritario, e infine per l’affermazione della giustizia sociale: tutti aspetti di una sola battaglia in difesa del dettato costituzionale.

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Il resoconto della manifestazione organizzata al teatro Brancaccio apparso su “L’Unità” del 24 dicembre 1954 con al centro la foto di Calamandrei

Contro il progetto di “democrazia protetta” tentato nei primi anni Cinquanta dai governi centristi per “blindare” la Repubblica e restringere con norme ad hoc improntate a una sorta di “maccartismo italiano” la legittimità delle forze comuniste (come nel caso delle misure varate nel dicembre del 1954 dal DC Mario Scelba), Calamandrei insorge, condannando la limitazione dei diritti civili e politici per categorie di cittadini disposte discrezionalmente sulla base dei loro orientamenti politici e contrarie perciò ai principi di eguaglianza sanciti dalla Costituzione. Il 19 dicembre del 1954, Calamandrei interviene così a una manifestazione organizzata da Unità Popolare a Roma al teatro Brancaccio stigmatizzando le norme “anticomuniste” scelbiane e paventando il timore che esse potessero degenerare in vere e proprie liste di proscrizione su base politica.

Analogo impegno Calamandrei ripose negli stessi anni nel contrastare l’impiego frequente da parte dei governi centristi di dispositivi normativi appartenuti al regime fascista e colpevolmente rimessi in condizioni di operare. In particolare, contro il frequente utilizzo dell’art. 113 della legge di polizia del 1931 da parte del Ministro dell’Interno Scelba (dispositivo impiegato peraltro contro quei lavoratori che manifestavano per rivendicare i diritti al lavoro garantiti dalla carta costituzionale) Calamandrei invocava la necessità di «mantener fede alla Costituzione», la quale all’articolo 16 delle disposizioni transitorie (articolo proposto alla Costituente proprio da Calamandrei) aveva disposto entro un anno dall’entrata in vigore della carta la revisione delle «precedenti leggi costituzionali che non siano state finora esplicitamente o implicitamente abrogate» (Mantener fede alla Costituzione, 1950). Al Ministro DC della Pubblica Istruzione Giuseppe Ermini, Calamandrei contestò invece nel 1955 l’imposizione, sulla base di un decreto del 1935, di una preventiva autorizzazione ministeriale per lo svolgimento di congressi scientifici o internazionali da tenersi in Italia, un disposto, argomentava Calamandrei, contrario agli articoli 17 e 33 della Costituzione che sancivano la libertà di riunione e la libertà della scienza e che riportava perciò in auge lo spirito autoritario del defunto regime, quando «la cultura era non una libertà, ma una concessione» (La libertà della cultura nel decennale della Liberazione, 1955).

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L’articolo di Calamandrei “La disgrazia di essere innocenti” con cui propone un’assicurazione obbligatoria per la riparazione degli errori giudiziari (“Il Mondo” 29 settembre 1953)

Anche l’azione portata avanti da Calamandrei nella pratica forense, oltre che a difendere l’eredità dell’antifascismo e della Resistenza dagli attacchi giudiziari condotti contro alcuni suoi esponenti (Calamandrei fu tra l’altro patrono di parte civile nel processo per l’uccisione dei fratelli Rosselli e difensore di Ferruccio Parri al processo di appello da questo intentato contro le calunnie ricevute nel 1948 dal periodico «Il Merlo giallo»), era volta a contrastare le carenze normative costituzionali di alcuni procedimenti giudiziari spesso lesivi dei diritti civili degli imputati (come nel caso, ad esempio, del noto procedimento del 1953 contro i giornalisti Guido Aristarco e Renzo Renzi arrestati e processati per vilipendio alle forze armate o come in quello del 1956 svoltosi a Palermo contro l’intellettuale pacifista Danilo Dolci reo d’aver organizzato uno sciopero alla rovescia; tutti difesi da Calamandrei). Contro le conseguenze di procedimenti giudiziari viziati dal permanere di dispositivi normativi carenti sul piano costituzionale, Calamandrei propose l’idea di istituire una assicurazione obbligatoria contro gli errori giudiziari, anche qui in ottemperanza all’articolo 24 della Costituzione che aveva demandato al legislatore il compito di stabilire modi e mezzi con i quali procedere alla riparazione.

Decisivi nella campagna per l’attuazione costituzionale condotta da Calamandrei furono poi i suoi reiterati appelli alla nomina della Corte Costituzionale, il principale «strumento di progresso e trasformazione sociale secondo il programma della Costituzione» che la Carta aveva previsto ma che non era stato ancora attuato. Dopo l’insediamento dell’organo nel 1955, nel marzo 1956, col suo articolo Bonifica costituzionale, Calamandrei indicava la strada che la Corte, in vista del suo primo atto, avrebbe dovuto imboccare, a cominciare dall‘abrogazione di quei residui della legislazione fascista che, come la legge di polizia, minacciavano il pieno godimento dei diritti fondamentali garantiti dalla Repubblica. Tre mesi dopo, esultando per la prima sentenza della Corte con cui veniva cancellato il famigerato art. 113 del testo di polizia fascista, Calamandrei, dopo anni di immobilismo costituzionale, per la prima volta poté ammettere: «la Costituzione si è mossa» (Id. La Costituzione si è mossa, 1956).

A corollario di questo impegno nella difesa e nella attuazione della Costituzione sta altresì la partecipazione di Calamandrei per tutti i primi anni Cinquanta a un numero altissimo di incontri, conferenze, seminari indetti in diverse città e comuni della penisola da associazioni, istituti scolastici e università e volti alla promozione dei valori e del significato del testo costituzionale. Il dinamismo e la passione con i quali Calamandrei intervenne a ciascuna di queste iniziative per parlare a folle di studenti, operai e cittadini fecero di lui senza dubbio l’intellettuale al tempo più impegnato sul fronte costituzionale. Tra i molti appuntamenti, vale la pena ricordare il ciclo di conferenze dedicate alla Costituzione per i “Sabati dello Studente” dell’Università degli Studi di Firenze, da Calamandrei stesso inaugurato nel 1955. Come pure, la serie di sette conferenze sulla Costituzione organizzate da Unità Popolare alla Società Umanitaria di Milano, la cui lezione inaugurale fu tenuta da Calamandrei il 26 gennaio 1955 in una sala gremita di circa 400 studenti. Il Discorso sulla Costituzione da lui pronunciato (destinato poi ad avere larga circolazione, anche grazie alla successiva distribuzione nel 1960 come 33 giri per la Collana Letteraria della Cetra) si rivolgeva fiducioso ai giovani perché contribuissero a tener viva anche per le generazioni future quella carta costituzionale che – avvisava Calamandrei – come una macchina «perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità». Se per Calamandrei la democrazia era anzitutto «conquista di chiarezza», «sforzo di intelligenza e di coscienza morale» (Id., Il palio dei furbi, 1953), allora, contro l‘indifferenza politica e il conformismo del tempo, la coscienza dei giovani – da lui definita in passato la «fucina sempre accesa dell’eresia e dell’anticonformismo» (Id., Tre generazioni di studenti, 1955/1956) – gli appariva speranza sufficiente per continuare a conseguire e mantenere in futuro una democrazia autentica e sempre operante.




Gli altri e Ilio Barontini

“Gli altri e Ilio Barontini”: è il titolo della ricerca di Mario Tredici (Ets, 2017) sui comunisti livornesi che, a vario titolo, furono inviati dal loro partito in Urss tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, e in cui si riassume sinteticamente il senso di questo lavoro.  Infatti se Ilio Barontini è stato un uomo politico assai noto e celebrato , “gli altri” sono rimasti finora pressoché sconosciuti: su di loro è caduta una spessa coltre di oblio. Ma allora, negli anni segnati dalla dittatura fascista, ebbero un ruolo significativo per mantenere in vita l’organizzazione illegale comunista in Italia, alimentare l’emigrazione in Francia e poi essere inviati dal Pci in Urss, un tratto distintivo perché emblematico di un valore politico. Quattro di loro combatterono in Spagna nelle Brigate Internazionali, e uno Menotti Gasparri cadde nel novembre 1936 in difesa di Madrid.

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Ilio Barontini (al centro in piedi, con la cravata e le mani in tasca) in una foto di gruppo con Togliatti e Nilde Iotti (Archivio Istoreco, Livorno)

Ilio Barontini, è stato finora l’unico cui siano state dedicate ben tre biografie: la prima, la tesi di laurea di Giovanni Degl’Innocenti, scritta nel 1981-82. Poi a seguire quella scritta a due mani da Era Barontini e Vittorio Marchi nel 1987, e infine quella di Fabio Baldassarri edita nel 2013. I documenti base su cui si è sviluppata questa ricerca sono ovviamente i fascicoli del casellario politico centrale all’Archivio centrale dello stato. Una raccolta di dati di natura poliziesca, comunque fondamentali, senza i quali per quasi tutti loro si sarebbe del tutto persa ogni memoria. La persecuzione come strumento di conoscenza, insomma. Documentazione certo parziale e tendenziosa, arricchita però, in vari casi, dalle lettere inviate dagli emigrati alle famiglie e dunque in grado di restituirci il tratto umano e momenti del pensiero politico. Di assoluta importanza è stato anche l’archivio del partito comunista, depositato alla Fondazione Gramsci, poiché su quasi tutti era stata stilata almeno una scheda biografica dall’ufficio quadri del Pci a Mosca. Per i militanti che furono in Spagna è stato di grande utilità anche l’archivio delle Brigate Internazionali, sempre alla Fondazione Gramsci.

Per Barontini, che certamente è la personalità di maggior rilievo politico, l’autore ha scelto di concentrare la ricerca, anche e soprattutto per la dimensione internazionale della sua attività (Francia, Unione Sovietica, Spagna, Etiopia, ancora Francia nel maquis e poi la Resistenza in Emilia-Romagna), su alcuni problemi ancora aperti: quale fu il suo impegno in Francia subito dopo la fuga da Livorno nel maggio 1931; come e perché fu inviato in Unione Sovietica, con note negative come sostenne Paolo Robotti; come si configurò il suo ruolo nel paese del socialismo al tempo di Stalin.  Emerge in sostanza un profilo di Barontini come stalinista a tutto tondo. Fu permeato da quella temperie politica come quasi tutti quelli che ebbero un ruolo dirigente nel Pci in quel tempo, tanto più se si trovarono a vivere e operare nell’Urss.

Il mito, di cui è stato da sempre circonfuso, si è nutrito di una perniciosa rinuncia a un serio approccio critico. Come invece merita, dato che è stato uomo del suo tempo, non ha partecipato a deliziosi balli di gala ma ha attraversato le fasi della storia del XX secolo più dure e drammatiche. Poteva essere solo cavaliere dell’ideale? In sostanza è emersa una figura con forti chiaro-scuri, che nel periodo qui analizzato (in sostanza dal 1927 al 1936) ha avuto un ruolo di primo piano.

La ricerca d’archivio ha consentito di accertare in via definitiva il fatto che Ilio Barontini fu inviato in Unione Sovietica per punizione. Era tra i dirigenti operativi del Centro estero del Pci, responsabile dell’invio di corrieri in Italia e fu travolto dal clima di sospetti nella “grande inchiesta” interna al Pci condotta nel 1932 da Giuseppe Dozza. E di cui si trovano accenni negli scritti di Giorgio Amendola, Mario Montagnana e Aldo Agosti. Fu accusato di “disordine, settarismo, non buona politica dei quadri” come ebbe a rilevare Togliatti. Fu ritenuto responsabile in sostanza di scarsa vigilanza cospirativa e rimosso dal delicato incarico. E gli andò bene, perché Dozza chiese addirittura di sospenderlo per sei mesi dal partito, sanzione che l’Ufficio politico rifiutò di infliggergli. Il libro ricostruisce nel dettaglio la complessa vicenda, finora trascurata dalla ricerca storica.

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Ettore Borghi (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Poteva essere una caduta definitiva, invece in Unione Sovietica riuscì ben presto a riabilitarsi e a entrare nel nucleo dirigente dell’emigrazione. Barontini aveva personalità, carattere e “nervi saldi” come si riconosceva. Risalì la corrente, pur patendo un altro infortunio con il rifiuto opposto ai dirigenti sovietici ad andare a Odessa. Pur di restare a Mosca (si era ben inserito nel Club degli emigrati italiani e si era anche innamorato) accettò le conseguenze del suo rifiuto: venne rimosso dall’incarico di funzionario del Profintern e dovette andare a lavorare in fabbrica. Sempre nel 1933 fu implicato, politicamente, nella tragica vicenda che portò all’omicidio di Alberto Bonciani, alias Grandi. Che venne soppresso in un albergo nel centro di Mosca. Finora la vicenda, per il contesto in cui si svolse, aveva sollevato gravi dubbi sul coinvolgimento della dirigenza del Club. La ricerca ha potuto utilizzare una vasta documentazione (anche risalente all’Nkvd) da cui esce una piena conferma della fondatezza di quei sospetti. Anche Barontini fu tra gli estensori di ripetute accuse e avvertimenti sul caso Bonciani.

Grazie alle lettere alla famiglia e alla documentazione d’archivio la ricerca ha teso a delineare quali fossero la mentalità e formazione politica di Barontini quando lasciò la Francia per Mosca. L’esperienza sovietica ne accentuò i tratti, segnò e plasmò la personalità politica di Barontini in senso stalinista. Esito che lui stesso ebbe a segnalare nell’autobiografia: “Non sono mai stato in dissenso con il partito”; “mi sono sforzato di assorbire quanto più ho potuto di ideologia marxista leninista stalinista”. E, in effetti, a Mosca, nel Club Internazionale di cui fu uno dei leader, fu sempre schierato a fianco di Paolo Robotti “stalinista al 100 per 100” come lo definì Dante Corneli. Lui “soldato disciplinato” fu allineato convintamente con il partito fino alle estreme conseguenze anche nella lotta senza quartiere contro i compagni accusati di bordighismo o di trotzkismo. Una lotta politica che nell’Urss di Stalin si trasformò ben presto in tragedia con oltre cento comunisti italiani soppressi e molti altri spediti nei gulag. Una tragedia che il Pci tenne celata fino al novembre 1961, quando proprio Robotti fu autorizzato a parlarne in comitato centrale. Quando Barontini arrivò a Mosca nel settembre 1932, era un dirigente in disgrazia, quando ne uscì, quattro anni dopo, nell’estate 1936 aveva uno status di tutto rilievo, tanto che fu tra i 62 che firmarono il famoso appello ai “fratelli in camicia nera”

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Armando Gigli (Casellario Politico Centrale, Archivio Centrale dello Stato)

Ma torniamo agli “altri”. Alle biografie degli altri otto militanti: vite parallele con tratti ed esiti assi diversi.  Astarotte Cantini e Menotti Gasparri ebbero un destino tragico: il primo fu represso nelle purghe staliniane, l’altro cadde combattendo a Madrid. Cantini era di origini assai modeste, militante anarchico poi diventato comunista, emigrò in Francia e quindi in Russia dove fu soppresso nel 1938. Il secondo, operaio vetraio, fu condannato giovanissimo dal Tribunale speciale, riuscì a fuggire in Francia dove peregrinò molto stentatamente nell’emigrazione (faceva letteralmente la fame), con compiti modesti nei ranghi dei Comitati proletari antifascisti (Cpa) finché venne inviato in sanatorio in Russia fino alla tragica morte a Madrid. Tamberi è una figura atipica: piccolo commerciante in fallimento fuggì  in barca da Livorno con Ilio Barontini e Armando Gigli; visse e lavorò a Mosca per oltre cinque anni e riuscì a tornare in Italia con un passaporto ottenuto dall’ambasciata italiana nell’autunno del 1936, mentre già dilagavano le repressioni staliniane. Riuscì, singolarmente, a passare indenne tra le insidie di Scilla e Cariddi.

Urbano Lorenzini emerge come la figura più compromessa con lo stalinismo: ebbe – come rivendicò – rapporti sistematici con l’Nkvd per denunciare alcuni dei propri compagni di Odessa. Ettore Borghi, di origini contadine, ebbe un ruolo fondamentale nella ricostruzione dell’organizzazione giovanile comunista a Milano: arrestato nel settembre 1934, fu condannato a 18 anni di galera. Nel dopoguerra di affermò come dirigente della Federmezzadri di cui fu segretario generale. Anche Armando Gigli, processato e assolto per insufficienza di prove nel 1927-28 dal Tribunale speciale, fu inviato più volte come corriere in Italia. Arrestato nel 1935 fu condannato a 12 anni. Assai controversa invece la figura di Angiolo Giacomelli, tra i fondatori del Pci a Livorno. Transfuga nel 1927, dal 1929 al 1932 a Mosca, inviato come corriere in Italia fu arrestato. Rimesso in libertà grazie all’amnistia del decennale svolse un ruolo occulto ma molto importante tra il 1933 e il 1935 quando venne nuovamente arrestato nel febbraio nella grande retata frutto di una delazione di un vecchio comunista, Tullio Baronti. Giacomelli fece il compromesso con l’Ovra con l’obiettivo di scoprire la spia o le spie che avevano provocato la caduta dell’intero gruppo dirigente comunista. La cosa si riseppe: da qui l’ostracismo, con l’espulsione per tradimento dal partito, fino alla sua riabilitazione completa nel 1969. Infine di grande rilievo la figura di Silvano Scotto, un portuale che fu l’anima della riorganizzazione del Pci dopo le ripetute retate dei primi anni ’30. La ricerca, proprio nell’ambito della sua biografia, ricostruisce anche il quadro politico degli anni della svolta a Livorno mettendo in luce una coriacea e persistente  volontà combattiva del piccolo nucleo comunista esistente in città. Che non cedette mai le armi.

Quella che esce da questa ricerca è una galleria di figure politiche, con l’obiettivo di ricostruire, attraverso loro, un periodo di lotte e di travagli umani e politici, segnato da una durezza di vita e di sacrifici, di dolori non solo dei militanti ma anche e soprattutto delle loro famiglie (molto importanti le lettere inviate a madri, mogli e figli). Anni ed esperienze connotati certo da asprezze, settarismi, opacità e talora gesti politici condannabili, ma anche anni ricchi di occasioni di crescita e riscatto, di coraggio e di dignità. Di lotte contro il fascismo. Questi tenaci combattenti fuggirono dall’Italia sotto il segno di un’amara sconfitta, ma sicuri che presto o tardi le cose sarebbero cambiate (è il leitmotiv di quasi tutte le lettere alle famiglie) e con una fiducia totale nel ruolo dell’Unione Sovietica. Un’ancora di salvezza, in un mare in tempesta.

 * Mario Tredici, giornalista professionista, è stato capocronista delle redazioni di Pontedera e di Livorno per il quotidiano “Il Tirreno” e vice capo redattore responsabile delle pagine nazionali. Membro del consiglio nazionale della Fnsi, del consiglio regionale toscano e del consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, è stato assessore alle culture del Comune di Livorno dal 2009 al 2014.




Idalberto Targioni

Nato nel 1868 e morto nel 1930, Targioni fu contadino, poeta autodidatta, attivista sindacale, militante politico, sindaco, scrittore e studioso, uomo controverso e discusso, spesso al centro di polemiche, sempre in contatto e talvolta in contrasto con altri protagonisti del suo tempo, come il gran maestro del Grande Oriente d’Italia Domizio Torrigiani o come, per vie indirette, Benito Mussolini. Targioni svolse un ruolo rilevante non solo a Lamporecchio, il suo luogo di adozione, nei pressi di Pistoia, ma in tutta l’area del Montalbano e in parte della Toscana e anche altrove, animando la società  e i movimenti contadini prima come socialista e, all’indomani della Grande guerra, come fascista.

Targioni era nato a Firenze il 19 ottobre 1868 (forse «dall’unione clandestina di un principe con una governante della Casa Reale», avrebbe scritto nel 1912) e fu lasciato da ignoti all’Ospedale degli Innocenti di Piazza Santissima Annunziata. Aveva quattro anni quando venne adottato dai coniugi Domenico e Giuditta Capecchi, contadini senza figli residenti nella frazione rurale di San Baronto, a Lamporecchio. Qui, pur costretto alle fatiche dei campi, riuscì ad imparare a leggere grazie alle lezioni offertegli da un prete del luogo. Da autodidatta imparò anche a scrivere e tra gli otto e i dieci anni cominciò persino a improvvisare e abbozzare i primi versi. Coltivò la vena poetica tanto da divenire uno dei più apprezzati e abili stornellatori estemporanei del Pistoiese. Fu operaio ferroviere, poi militare per tre anni prima di tornare al lavoro contadino quando, nel 1895, aderì al partito socialista e avviò un’intensa attività  militante tra i territori di Pistoia, Empoli e la Valdelsa, mostrando una spiccata sensibilità  per le cause di mezzadri e pigionali. I suoi testi poetici intriganti, spesso anticlericali e piccanti lo fecero soprannominare «Diavolo rosso». A seguito dei disordini del 1898, conobbe anche il carcere.

Rimatore in ottava, fu consigliere socialista a Lamporecchio dal 1901 dove operò fianco a fianco col massone democratico Domizio Torrigiani (che nel 1919 avrebbe assunto la carica di Gran maestro del GOI). Eletto segretario della Camera del Lavoro di Pistoia nel 1903, proseguì l’attività poetica (nel 1912 aveva già pubblicato una ventina di opere), iniziò a dedicarsi al giornalismo politico (scrisse per «La Martinella» di Colle Valdelsa, «L’Avvenire» di Pistoia, «Via Nuova» di Empoli e nel 1908 fondò «Il Risveglio del Montalbano») e tenne numerose conferenze e accademie in versi in Toscana, in altre regioni e persino in Svizzera e Francia. Nel 1914 fu eletto sindaco di Lamporecchio, unica amministrazione socialista del circondario di Pistoia.

Lo scoppio della Grande Guerra travolse la vita di Targioni, come quella di milioni di altri uomini, e spezzò in due tronconi la sua vita. Dopo una iniziale fase di opposizione all’intervento nel conflitto, che nel maggio 1915 lo portò all’arresto per l’accusa di aver incitato le manifestazioni antibelliciste  nell’Empolese, dopo l’intervento italiano in guerra di spostò su posizioni interventiste, seguendo la strada percorsa dal suo amico Torrigiani e di molti quadri e dirigenti socialisti come il più celebre Mussolini, fino a giungere a un sostegno esplicito per la guerra, in contrapposizione col neutralismo mantenuto dai socialisti italiani e in stringente contrasto con i suoi scritti e la sua attività  prebellica: una contraddizione che fu segnata anche da interessanti elementi di continuità, mai risolti pienamente come testimoniano i suoi ricchi e generosi scritti pubblici e privati.

Dopo la dopoguerra aderì al fascismo, che in Toscana era particolarmente dinamico e irriducibilmente violento; nel 1921 fondò e divenne segretario del Fascio di Lamporecchio. Trasferì le sue competenze e capacità sulla stampa fascista (scrisse per «Giovinezza», «La Riscossa», «L’Azione fascista», «Battaglia fascista»; fondò «L’Alleanza» e «L’Ordine»); nel 1923 fu nominato segretario dei sindacati fascisti dell’agricoltura della Provincia di Firenze e nel 1924 fu eletto consigliere provinciale fascista. Abbandonata ormai del tutto l’attività  poetica e ritiratosi quasi completamente a vita privata, Targioni morì a Lamporecchio il 25 maggio 1930, lasciando un vuoto che da allora non è mai stato colmato da nessun biografo e depositando una eredità  intellettuale e umana che è in attesa di essere compresa, interrogata, valorizzata.




Giovanni Fattori, lettere di un montalese dal lager nazista

Giovanni Fattori, classe 1924, proveniente da una famiglia contadina di Montale, figura tra gli Internati Militari Italiani (IMI) rinchiusi nei campi di concentramento nazisti. La sua storia si interseca con il clima bellico sorto dopo l’entrata in guerra dell’Italia fascista. Nel 1942, con il richiamo alla leva, fece domanda per entrare nel corpo dei carabinieri: nel giro di pochi mesi fu accettato e iniziò l’addestramento insieme ai colleghi. Il 19 luglio 1943, dopo il bombardamento di Roma, venne inviato nella capitale, dove prestò servizio nella zona più colpita, ovvero il quartiere di San Lorenzo. Pochi giorni dopo, con la caduta e l’arresto di Benito Mussolini, cambiò completamente lo scenario italiano. Furono proprio i carabinieri ad arrestare il duce che fu tenuto prigioniero in un primo momento presso la caserma della scuola allievi carabinieri di Roma, dove era alloggiato Fattori.

A settembre, dopo l’Armistizio, le lettere inviate da Giovanni alla famiglia mostravano la situazione in cui versava la nazione, con la nascita della RSI e l’occupazione militare e amministrativa tedesca. Nonostante la profonda censura, Giovanni raccontava che i nazisti avevano occupato le caserme romane ma lui, insieme ai suoi superiori, rimaneva al proprio posto in una situazione apparentemente non drammatica. Invece il 7 ottobre su ordine firmato direttamente dal ministro della difesa della RSI, il maresciallo Rodolfo Graziani, furono arrestati tutti i carabinieri presenti a Roma: il loro numero oscillava fra 1500 e 2500. Erano malvisti dai fascisti e dai nazisti ed erano considerati un ostacolo troppo grande a causa della loro duplice natura di corpo combattente e corpo di polizia, per cui l’Arma sarebbe dovuta rimanere a tutela dell’ordine e a difesa dei cittadini. Infatti, dieci giorni dopo, i nazifascisti compirono la più rilevante retata in Italia contro gli ebrei con l’arresto e la deportazione di 1023 persone catturate nel ghetto di Roma: i carabinieri rappresentavano l’unico corpo che si sarebbe potuto opporre.

Dopo quattro giorni di viaggio, stipato in un vagone con un buco nel pavimento di legno come gabinetto, giunse alla stazione di Tarvisio e proseguì per Kapfenberg. Fu definito IMI insieme ad altri 650.000 militari rinchiusi nei lager nazisti. Viveva con altri sedici uomini in una baracca senza finestre nel campo di lavoro di Bruck an der Mur, appartenente all’immenso lager di Wolfsberg. Venne inquadrato nel reparto ferroviario dove riempiva i carrelli di carbone per le locomotive, ricevendo due pasti al giorno:

“Un pane in otto, veniva spezzato da un appuntato che comandava la baracca. Un pane e la brodaglia. E c’era cavolo, di molto. Rape di quelle italiane, ne mandavano a vagonate. E poi ci buttavano qualche pezzetto di margarina, per condimento”.

Gli scambi epistolari con la famiglia e con i conoscenti sono frequenti anche se sottoposti a censura. Il tempo di ricezione variava da uno a tre mesi e dalle lettere emergeva la profonda solitudine del campo di concertamento, la mancanza di affetti familiari e l’annichilimento portato dalla guerra.

Più volte gli emissari di Mussolini si presentarono al campo di lavoro, tentando di convincere i militari ad arruolarsi nell’RSI con i più svariati motivi: minacciandoli, promettendo condizioni migliori, assicurando la libertà, facendo leva su argomenti morali e ideali, ricordando la famiglia in Italia. Si calcola che circa il 90% degli internati abbia manifestato un secco rifiuto. La baracca di Giovanni confermò l’andamento: su 16 uomini solamente una persona di circa 30 anni accettò, dichiarando che intanto sarebbe tornato in Italia e poi avrebbe tentato di aggregarsi alle formazioni partigiane. Possiamo dunque affermare che la scelta fu sinonimo di rifiuto e di resistenza: nonostante la sofferenza patita, subendo ogni tipo di vessazione e sopruso, i militari accettarono di restare all’interno dei lager nazisti piuttosto che tornare a combattere insieme ai repubblichini. Una resistenza passiva, rimasta a lungo nell’ombra, con la quale gli italiani non si piegarono alle lusinghe, ma resistettero in massa alle violenze e ai ricatti. I motivi erano di varia natura ma, principalmente, i soldati intendevano difendere la propria dignità e quella delle istituzioni nazionali, fra cui quella del re, alle quali avevano giurato fedeltà.

Durante la fase finale della guerra, a inizio 1945, le condizioni di vita e di lavoro degli internati peggiorarono progressivamente, aggravandosi anche a causa del rigido inverno e delle prepotenze delle guardie. Il cibo iniziò a scarseggiare e i sintomi dell’imminente crollo nazista riecheggiavano nell’aria. A marzo 1945 Giovanni rischiò di non vedere la liberazione quando alcuni aerei alleati bombardarono la zona:

“Io mi sono riparato nella fogna che andava restringendosi. L’entrata era chiusa dalla terra e dai detriti e non potevo uscire: ci sono rimasto un giorno. La mattina dopo sono venuti gli amici Vanchetti e Giannella, hanno scavato e mi hanno tirato fuori. Mi sono ricoperto di sfoghi su tutto il corpo, avevo la febbre alta e le guardie mi hanno portato a piedi all’infermeria di Bruck. Quando sono arrivato ho perso i sensi e mi sono ritrovato in una camerata di 30 letti. È suonato l’allarme molte volte, tutti sono scappati, io sono rimasto solo. Si vede che quando uno non deve morire, non muore”.

Fra fine aprile e inizio maggio le guardie sparirono dal campo e Giovanni, una volta guarito, si mosse in un’ Europa rimasta senza collegamenti, distrutta dalla guerra e dai bombardamenti, non in grado di garantire un tessuto civile su cui fare riferimento. Rientrò a casa in poco tempo, verso la metà di maggio, grazie all’aiuto di alcuni ferrovieri tedeschi e di altri civili italiani. Il suo nonno lo aspettava nell’angolo della cucina a fianco del camino. Gli disse: “Meno male che avanti di morire ti ho rivisto”.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. E’ direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia dal luglio 2016. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. 




“Volevamo chiamarti Angelita”

“Volevamo chiamarti Angelita” è una vecchia canzone dimenticata degli anni Sessanta. Parla di una bambina dai capelli biondi adottata dai soldati brasiliani sbarcati ad Anzio. Li accompagna nell’esplorazione della città  laziale tenendo in mano delle conchiglie piene di sabbia per poi morire cadendo vittima della reazione tedesca. Ad Anzio la storia di Angelita, che tutti ritengono vera, è ricordata da un monumento rappresentante una bambina che alza le mani in un volo di gabbiani.

Monumento ad Angelita ad Anzio

Monumento ad Angelita ad Anzio

Anche la montagna pistoiese ha un monumento che ricorda una ragazza, Graziella, uccisa dai tedeschi in ritirata davanti agli Alleati, quando ormai erano già  passate alcune settimane dalla liberazione di Pistoia, avvenuta l’8 settembre 1944.

Graziella Fanti oggi è una lapide nel piccolo giardino pubblico delle Piastre, una località  celebre per il campionato della Bugia, posta sulla strada granducale che conduce alle piste dell’Abetone e nei pressi della quale nel 1944 scorreva la linea Gotica, zona di combattimenti che, come afferma il Sac. Vasco Lorenzini causarono la morte di quattro persone della parrocchia e di tre sfollate.

Graziella Fanti era nata il 21 dicembre del 1927 e quindi il 21 settembre 1944 era una ragazza di 17 anni dalle trecce bionde e dallo sguardo un po’ malinconico. Era una “bastarda”, una figlia della colpa, perché Bruna, sua madre, donna di servizio presso alcuni nobili che villeggiavano alle Piastre, era rimasta incinta ventenne e senza essere sposata. Qualcuno diceva che il padre di Graziella fosse il padrone di casa, altri che fosse un uomo di Roma, altri ancora, come la testimone Miranda Pisaneschi, sostengono che questi fosse emigrato in Francia e che tornò in Italia solo a guerra finita.

La madre e la figlia vivevano presso le Piastre in località  detta il “Brocco” con un uomo, separato dalla moglie, che si prendeva cura di loro. Bruna e il patrigno erano comunisti e non frequentavano la parrocchia. Per la mentalità  dell’epoca essere comunisti e conviventi portava ad essere malvisti ed esclusi dalla piccola e tradizionale comunità locale. Pare che fosse negata loro anche la benedizione pasquale.

Erano sfollati lontano dalle Piastre presso il paesino di Le Forri e abitavano in una capanna di fango e paglia vicino al ruscello. La ragazza aveva alcune amiche in località  “Il Casone di sotto”, sempre nei pressi delle Piastre.

Il 21 settembre 1944 Graziella si recò al ruscello nel folto del bosco, come faceva ogni giorno probabilmente, al fosso dei Gambioni nei pressi delle Forri, a lavare i panni. Si credeva al sicuro, lontana dalla soldataglia tedesca che aveva il suo quartier generale a Cassarese, sulla strada che dalle Piastre conduce a Casamarconi.

Non portava conchiglie in mano come Angelita, ma del sapone e un cesto di vimini. Cantava, Graziella, per dimenticare la cattiveria della gente e la guerra. La sua voce, probabilmente, fu udita da alcuni soldati tedeschi, pare tre, innervositi dalle cattive notizie sull’andamento della guerra. Si era chinata sul ruscello, i panni stesi intorno. Forse aveva accanto a se gli abiti del patrigno. Probabilmente più che la bellezza della ragazza furono questi ad attirare i sospetti dei nazisti. Forse questi ipotizzarono che la ragazza collaborasse con i partigiani lavando loro i panni.

Graziella fece in tempo a vedere i soldati avvicinarsi e impaurita tentò di fuggire, ma i colpi sparati vigliaccamente da questi la raggiungero alle spalle mentre chiamava la madre. Si dice che i tedeschi allontanandosi imitassero stupidamente le sue parole “Mama, mama”. Sulla fine di Graziella esistono diverse versioni: alcuni testimoni affermano che morì sul colpo, altri che mani pietose la portarono morente in un fienile nei pressi delle Forri dove spirò.

Graziella, sola in vita, rimase, purtroppo, sola anche da morta. Nessuno nel paese reclamò il corpo, nè la chiesa, nè i partigiani. Solo dieci giorni dopo un uomo di nome Lido prese il corpo coperto di sangue per darle una sepoltura.

foto 3Finita la guerra la madre fece porre sulla tomba nel cimitero delle Piastre una lapide bianca con su scritto “uccisa dalla barbarie nazista”. Sulla lapide la foto della ragazza, le trecce bionde, lo sguardo malinconico.

Passarono gli anni e il mondo si dimenticò di Graziella.

Nel 1974 a Treviso è in corso uno dei primi convegni di agricoltura biodinamica. Un uomo, un archelogo, si presenta a Ivo Beni presidente allora dell’Associazione Biodinamica Italiana con un sacchetto di chicchi di grani trovati in una tomba egizia. Gli consegna i chicchi con la promessa che se questi avessero prodotto del grano si sarebbe dovuto chiamare con il nome della figlia morta in guerra tanti anni prima: Graziella. Consegnati i chicchi l’uomo se ne va senza rivelare il proprio nome.

I chicchi vengono seminati e in capo a qualche anno il miracolo si compie. Da quei pochi chicchi oggi si produce un grano che porta il nome di una ragazza uccisa dalla barbarie nazista settanta anni fa. Non sapendo qual era il cognome del padre della ragazza si è provveduto ad attribuire una ulteriore denominazione facendo riferimento al nome del Sole, Ra, nella religione egizia.

Quel grano, frutto di un pugno di antichi chicchi e un piccolo monumento nel parco di un paesino di montagna, ricordano oggi una ragazza per troppo tempo dimenticata perché come dice Chita Banerjee Divakaruni “Finché esisterà  del pane fresco, le cose non potranno guastarsi in maniera irreparabile”.




Il “trenino dei marmi” versiliese: ascesa, gloria e caduta di un “servizio utile”

Lavorò per più di 35 anni e, oltreché una mirabile opera d’ingegneria, rappresentò per l’intera Versilia storica un formidabile strumento di sviluppo nei decenni chiave d’inizio Novecento che ne decisero la vocazione economica: fu la “Tranvia della Versilia”, ricordata ancora oggi dagli anziani della zona come “marmifera”, o semplicemente “trenino dei marmi”.
Le prime iniziative volte a promuovere la costruzione di moderne infrastrutture per mettere in collegamento le cave dell’entroterra con il litorale, naturale sbocco commerciale per il prezioso marmo bianco delle Apuane, risalgono in realtà alla seconda metà dell’Ottocento: del resto, all’epoca, non molto lontano, il bacino estrattivo di Carrara si era dotato di una rete ferroviaria propria già nel 1876, via via accresciuta e di notevole utilità per la movimentazione dei blocchi verso il porto di Marina di Carrara e la linea ferrata Genova-Pisa.
Fu soltanto nel 1903, che un comitato locale versiliese decise di dar vita ad una società di diritto britannico denominata “The Carrara Versilia Electric Railway and Power Limited”, che, presentato alla Provincia di Lucca il progetto per una ferrovia a scartamento ridotto che soddisfacesse le richieste logistiche dell’area, otto anni dopo ottenne l’autorizzazione alla posa in opera della rete, denominata “Tranvie Elettriche Versiliesi” (TEV). A causa del trasferimento delle competenze in merito dagli enti locali al governo centrale, però, i lavori di costruzione dovettero attendere ancora un poco, e presero il via soltanto nell’agosto 1913.

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

1919: il caratteristico scavalco di Querceta, che permetteva al “trenino dei marmi” di superare la via Aurelia e la linea ferroviaria Genova-Pisa, situata appena più a monte. Sulla sinistra, è visibile la chiesa di Santa Maria Lauretana. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 203]

Le prime sezioni ad essere inaugurate, il 15 gennaio 1916, nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale, furono quelle comprese fra Querceta, Seravezza e Pietrasanta, per una lunghezza complessiva di quasi 11 km: pensato eminentemente per il trasporto merci, il tracciato offrì fin da subito anche un apprezzato servizio passeggeri. Di particolare rilevanza, oltre al deposito-officina per il materiale rotabile edificato presso la frazione di Ripa di Seravezza appena a monte del ponte Foggi, su cui passava la diramazione che conduceva a Pietrasanta, era la grande opera di scavalco della ferrovia tirrenica eretta a Querceta: lunga quasi 180 metri, realizzata in metallo e cemento armato, costituiva di fatto una fermata sospesa in pieno stile americano, con tanto di scale da cui era possibile scendere al paese. Sempre a Querceta, la TEV disponeva poi di uno speciale binario di collegamento con il grande piazzale della società marmifera Henraux, sfruttato per il caricamento dei blocchi sui pianali della ferrovia Genova-Pisa.

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Manovre di composizione di un convoglio presso il capolinea della marmifera di piazza Garibaldi, a Forte dei Marmi. Rara cartolina del 1932. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 124]

Pochi anni dopo, la rete raggiunse Forte dei Marmi, e, solo per le merci, la località di Trambiserra, presso Malbacco di Seravezza, centro di raccolta dei marmi della valle del Serra e del monte Altissimo: con l’allungamento dei binari fino alla costa, si completò così il primo collegamento ferrato fra i bacini estrattivi dell’entroterra ed il punto d’imbarco del materiale, lo storico ponte caricatore del Forte, posto a breve distanza dal capolinea TEV di piazza Garibaldi, proprio affianco al Fortino.

Di fronte alle crescenti richieste del mercato, poi, l’infrastruttura si espanse verso il cuore delle Apuane, risalendo l’angusta valle del torrente Vezza: l‘inaugurazione della tratta Seravezza-Pontestazzemese si tenne il 31 maggio 1922, e, oltre ad un pregevole risultato ingegneristico, per la natura geografica delle aree attraversate, costituì pure un notevole passo avanti sulla via della modernizzazione dell’arcaica montagna versiliese.
Perché la nuova rete potesse davvero dirsi capillare, tuttavia, mancava ancora un tassello: un collegamento con le frazioni più remote della montagna stazzemese e con i ricchi bacini marmiferi dell’area di Arni. Un’opera complessa e assai dispendiosa, in termini di uomini, mezzi e risorse finanziarie necessarie, che, dopo l’apertura di una prima tratta fra le località di Iacco e Pollaccia nel 1923, vide finalmente la luce nel 1926, quando la strada ferrata, che in questa sezione di quasi 16 km aveva tutte le caratteristiche di una vera e propria linea di montagna, con tanto di rifornitori d’acqua e binari di salvamento per eventuali convogli fuori controllo in discesa, raggiunse Tre Fiumi, vasta spianata compresa fra le vette del Freddone, del Sumbra, del Sella e dell’Altissimo. Per superare il colle del Cipollaio, fra l’altro, che separava la conca di Arni dal resto della Versilia, si rese necessaria la realizzazione dell’opera d’arte più impegnativa dell’intera ferrovia dei marmi: l’escavazione di un lungo tunnel nel ventre della montagna, che, lungo 1.135 metri, mise in comunicazione due versanti fino a quel momento completamente isolati, e, sfruttata ancora oggi dalla Strada Provinciale 13, che ripercorre esattamente l’antico tracciato della marmifera, prese il appunto nome di galleria del Cipollaio. Nel 1927, anche quest’ultima sezione della linea venne aperta ai passeggeri, mentre fu definitivamente abbandonata l’intenzione iniziale di prolungare il tracciato fino a Castelnuovo di Garfagnana.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per 37 km.

Veduta d’insieme della rete TEV negli anni della sua massima espansione: nel complesso, l’infrastruttura si estendeva per ben 37 km.

A quel punto, l’avveniristica infrastruttura della TEV, nata come una visione e completata in 14 anni di lavori, raggiunse il suo aspetto finale: una rete efficiente, che quotidianamente movimentava uomini e materiali attraverso le gole ed i pendii di un territorio aspro e meraviglioso, slanciandosi attraverso borghi, strade, torrenti, valli, strettoie e crepacci, coprendo, dal mare alla montagna, un impressionante dislivello di 850 metri di altitudine, con punte di pendenza del 60‰ nei pressi del valico del Cipollaio.
Assai gradito da imprese e residenti, nel giro di pochi anni il nuovo trenino cambiò per sempre il volto della Versilia storica, conferendole l’aspetto di un territorio moderno e al passo coi tempi, connesso alle principali arterie di comunicazione del Paese. A farsi carico del grosso volume di merci e passeggeri, oltre a diverse decine di vagoni, erano sei piccole locomotive a vapore, che ogni giorno sbuffavano vistosamente i propri fumi sferragliando fra gli olivi della piana o su per le rocce delle Apuane (l’idea originaria, ricordata anche nel nome della rete, di elettrificare l’intera struttura, era stata infatti accantonata nel 1921): tre a due assi, di fabbricazione britannica, chiamate Z1, Z2 e Z3, meno potenti e pertanto riservate alle tratte più dolci, e tre a tre assi, tedesche, più capaci e quindi destinate al servizio lungo l’impegnativa “linea di Arni”. Oltre ad una sigla, quest’ultime ricevettero pure un soprannome, che riprendeva la denominazione di alcuni toponimi della montagna versiliese: Z4 Arni, Z5 Sumbra e Z6 Corchia.

Pietrasanta, 1924: coincidenza tra un convoglio a vapore della marmifera, riconoscibile sulla sinistra, ed una vettura elettrica del tram SELT per la marina, visibile sulla destra. Siamo in piazza Carducci, proprio di fronte a Porta a Pisa e alla Rocchetta Arrighina. [Enrico Botti, Saluti dalla Versilia, p. 48]

Nel corso degli anni Venti, la TEV visse il proprio momento di splendore: frequentata da un gran numero di turisti, che presso i capolinea di Forte dei Marmi e Pietrasanta potevano trovare anche le fermate del tram elettrico della SELT (Società Elettrica Litoranea Tramviaria) che portava lungo la costa fino a Viareggio, la nuova ferrovia entrò pian piano nell’immaginario collettivo ed iniziò a comparire su un gran numero di fotografie e cartoline (alcune delle quali sono visibili nel corpo del presente articolo, mentre altre sono consultabili in allegato fra i Documenti dalle fonti).

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

Ripa di Seravezza, anni ’10: veduta del ponte Foggi, sul quale passava la diramazione della ferrovia marmifera per Pietrasanta. Sullo sfondo, è visibile il grande deposito-officina della TEV, gravemente danneggiato dalla guerra nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 221]

I contraccolpi della crisi del 1929, tuttavia, combinati alcuni anni dopo con gli effetti nefasti della politica estera aggressiva del fascismo sugli scambi commerciali internazionali, influirono negativamente sulle attività estrattive della Versilia, riducendo la domanda e generando un sensibile aumento della disoccupazione. Parallelamente, rimanendo elevati i costi di manutenzione, i margini di profitto della ferrovia iniziarono a diminuire.
Con gli anni Trenta, poi, il trenino dovette cominciare a fare i conti con una nuova, inattesa minaccia al proprio ruolo egemone nella movimentazione locale dei passeggeri: quella del trasporto su gomma, quella dei torpedoni della società Fratelli Lazzi, che, a fronte di un’elevata flessibilità di utilizzo e di costi d’esercizio davvero ridotti, offrivano spostamenti a prezzi concorrenziali, raggiungendo anche le più remote località della montagna apuana. Come risultato, il 20 gennaio 1936 il servizio viaggiatori della tranvia venne soppresso.
A sancire il definitivo tramonto della marmifera dal panorama versiliese, tuttavia, fu la Seconda Guerra Mondiale: le distruzioni operate dai nazisti in vista della ritirata sulla Linea Gotica, infatti, non risparmiarono neppure le strutture della TEV, infliggendo loro un colpo mortale. Nel 1944, assieme all’adiacente chiesa di Santa Maria Lauretana, il ponte di scavalco di Querceta fu minato e fatto saltare in aria, crollando sulla via Aurelia e sulla ferrovia tirrenica: contestualmente, per impedire un pratico passaggio agli Alleati, la linea d’Arni fu danneggiata in più punti e l’accesso lato mare della galleria del Cipollaio distrutto con l’esplosivo. Nel corso dei bombardamenti americani sulle posizioni tedesche, poi, andò quasi completamente in macerie anche il deposito-officina di Ripa.

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Levigliani di Stazzema, 1930: una suggestiva visione del “trenino dei marmi” al lavoro sull’impervia “linea d’Arni”, completata nel 1926 ed aperta al traffico passeggeri l’anno successivo. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 249]

Quando i fumi della guerra si diradarono, la Versilia giaceva in ginocchio, devastata da sette mesi di feroci battaglie combattute nel cuore delle sue contrade. Con grande sforzo, nonostante la povertà diffusa e la penuria di materiali, la ferrovia dei marmi poté essere riattivata il 2 luglio 1946, eccettuata la tratta Querceta-Forte dei Marmi, per l’impossibilità di ricostruire il costoso scavalco della Genova-Pisa. Del resto, in quel terribile 1944, era saltato in aria anche il ponte caricatore del Forte: l’epoca dei blocchi calati a valle dalle locomotive e caricati sui bastimenti dai buoi e dalla “Mancina” era ormai finita.

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, che sarebbe stato fatto saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Querceta, 1929: il grande piazzale della società marmifera Henraux, con i colli di Strettoia ed il monte Folgorito sullo sfondo. In primo piano, il ponte di scavalco della ferrovia marmifera, fatto poi saltare in aria dai genieri nazisti nel 1944. [Enrico Botti (a cura di), Saluti dalla Versilia, p. 208]

Di fronte a guadagni sempre più declinanti e ad una sempre più agguerrita concorrenza del trasporto su gomma, che permetteva di raggiungere direttamente i piazzali delle cave in quota, nella prima metà del 1950 il braccio Iacco-Pontestazzemese fu chiuso. Il 30 giugno dell’anno successivo, il trenino dei marmi fece il suo ultimo viaggio e l’intera rete della TEV chiuse i battenti: senza dare troppo nell’occhio, usciva così di scena un generoso protagonista della vita quotidiana versiliese del primo Novecento, che, oltre ad aver reso possibile il grande sviluppo economico del territorio, ne aveva contribuito a radicare il senso di appartenenza comunitaria, riducendo sensibilmente le distanze fra pianura e montagna.
Ancora oggi, la memoria degli anziani locali riserva un posto speciale al vecchio “trenino dei marmi”, uno spazio affettuoso, intriso di sincera nostalgia per un mondo ormai percepito come irrimediabilmente perduto. A tal proposito, in chiusura, valga su tutte la testimonianza di Concettina Bertonelli. Classe 1935, nativa di Arni, ricorda:

Me lo ricordo sempre il trenino, il trenino che dico io: era chiamato anche la tramvìa. Partiva dal Forte, da piazza Garibaldi, e pò andava sù sù sù, Seravezza… Portava i marmi, quelle robe lì, ma anche i passeggeri: era un servizio utile. A Querceta c’era un doppio ponte, perché c’era la ferrovia e poi questo trenino. Poi andava in su, sulla via d’Arni. Fino a Tre Fiumi, però, è! Da Tre Fiumi in poi, niente: a piédi! Sicché quel poco di roba che si portava su, c’era da caricassela sulle spalle e via. Dopo, allora, son venuti i pullman.