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“Caterina la Santa”. Il film “fascista” che non vide mai la luce

Nelle ultime settimane del 1934, poco tempo dopo il suo approdo alla Direzione generale della cinematografia fascista, Luigi  Freddi, scrisse a Galeazzo Ciano, allora sottosegretario di Stato per la stampa e la propaganda, prospettandogli la realizzazione di un nuovo film. «Il tema per un film su Caterina la Santa, – spiegava Freddi – […] è enormemente suggestivo. Si è in piena atmosfera di italianità, di poesia, di sacrificio, di passione, di fede. Un soggetto cinematografico di tal natura porterebbe sullo schermo un magnifico materiale, universalmente ammirato (Siena e tutta la pittura religiosa dei primitivi italiani) ed esprimerebbe sentimenti di alta portata spirituale, oltre a mettere in particolare rilievo la coscienza di italianità professata dalla Santa e ad elevare il sentimento della massa in un’atmosfera di bontà e di volontà». Freddi completava il quadro, aggiungendo dettagli tesi a esaltare col film il patrimonio artistico italiano e il ruolo di Siena come custode d’arte. «Alle opere d’arte figurative dei primitivi (di cui la Pinacoteca di Siena può fornire gli spunti più impensati e commoventi) – scriveva il “gerarca di celluloide” – dovrebbe essere unito, quale commento fonico, il patrimonio dell’arte musicale della nostra Rinascenza, tipica creazione della nostra razza che dal canto gregoriano si umanizza attraverso il Palestrina per giungere poi alle melodie inarrivabili del Carissimi, fornendo quindi tutti gli elementi intimi e poetici necessari ad un commento musicale adeguato».

patrona giovani

Immaginetta devozionale di Santa Caterina, patrona delle Giovani italiane (foto tratta da www.biagiogamba.it)

Tra i molti risvolti della Conciliazione del 1929 tra l’Italia fascista e la Santa Sede, tra i meno conosciuti c’è probabilmente il processo che portò all’affermarsi di una santità nazionale al servizio della ritualità di regime. Un processo composito, articolato in momenti di osmosi, ma anche di competizioni e concorrenze tra le forme di costruzione degli apparati simbolici e rituali di cattolici e fascisti. L’idea di una santità italiana, già comparsa nel cattolicesimo liberale di metà Ottocento, aveva trovato nel periodo fascista l’humus più adatto per proliferare, sull’onda lunga del suo rilancio col nazionalismo di inizio Novecento. Forte di potenti gruppi di pressione Caterina da Siena occupò il posto più alto nella gerarchia della santità nazionale nell’Italia fascista, insieme a Francesco d’Assisi e Giovanni Bosco. Non a caso per Francesco e Caterina, la parabola di santi nazionali per eccellenza doveva suggellarsi con la proclamazione a patroni d’Italia nel giugno 1939. In questo quadro non stupisce che proprio su queste tre figure si fossero concentrati fino a quel momento i più reiterati progetti di narrazione agiografica a mezzo cinema. Ma se per il santo assisiate, col film Frate Francesco di Giulio Antamoro uscito nel 1927, e per il santo di Valdocco, portato sugli schermi da Goffredo Alessandrini col Don Bosco del 1935, i progetti cinematografici trovarono uno sbocco, per la santa senese le idee di trasposizione sul grande schermo si fermarono alle battute iniziali.

Eppure Luigi Freddi, che più di tutti lavorò ad una fascistizzazione del cinema, aveva puntato molto sull’operazione agiografica legata alla santa di Fontebranda. Nelle sue intenzioni il progetto si prestava a convalidare esplicitamente l’abbraccio della cinematografia fascista con il mondo cattolico avviatosi col suo arrivo alla testa della Direzione generale per il cinema. Freddi del resto non aveva nascosto agli emissari pontifici la volontà di inserire i cattolici nel suo piano di “rivoluzione” della cinematografia di regime, incardinato su un nuovo slancio per una produzione che fosse «prettamente italiana e profondamente morale». Ai suoi occhi, santa Caterina – come rivela nelle sue memorie postbelliche – rappresentava il modello perfetto per inaugurare il nuovo corso. La svolta del Concordato aveva d’altra parte fornito anche al culto di santa Caterina – fino ad allora legato a doppio filo al papato – l’occasione per diventare un culto nazionale, di cui il fascismo fosse non solo spettatore, ma promotore attivo.

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

Luigi Freddi (foto tratta da: www.wolfsoniana.it)

L’iniziativa di Freddi si inseriva in un solco già ben avviato: nel febbraio 1930 l’anniversario della Conciliazione era stata occasione per l’Ordine domenicano e per la Corporazione dei caterinati di rinvigorire la campagna per la proclamazione di Caterina patrona d’Italia, processo che avrebbe avuto un nuovo impulso in occasione dell’Anno Santo straordinario del 1933 quando a questo scopo la Società di Studi Cateriniani si fece promotrice di un voto della città di Siena. Freddi provò a dare ali al suo progetto coinvolgendo Piero Misciattelli che nella città del Palio era stato tra i promotori più ferventi di una cattedra di Studi cateriniani all’Università locale e tra i primi a intravedere le potenzialità nazionaliste del misticismo cateriniano.

Ma il vero salto di qualità culturale dell’operazione doveva essere il coinvolgimento del poliedrico intellettuale fiorentino Giovanni Papini, che, dopo la Grande Guerra, con la sua fertile penna era divenuto uno degli alfieri più intransigenti del progetto ierocratico di restaurazione della societas christiana. Come molti della sua generazione, il dirigente fascista era rimasto impressionato dalla “giravolta” di Papini consumatasi nell’arco di un decennio. L’autore blasfemo delle Memorie d’Iddio (1911), divenuto il convertito di grande successo editoriale della Storia di Cristo (1921), agli occhi di Freddi aveva il giusto profilo per partorire la sceneggiatura perfetta che ponesse il sigillo all’«italianità» della santa di Fontebranda e che, nel contempo, potesse divenire simbolica rappresentazione dell’abbraccio cattolico-fascista. Pur se Papini non rimase estraneo al fascino dell’“ideologia italiana” adottata e promossa dal fascismo, è difficile credere che si prestasse a sposare in pieno un progetto con connotati così smaccatamente ideologici. Motivi politici che influirono probabilmente anche sul fallimento definitivo dell’operazione del film su Santa Caterina nella sua fase di decollo: il primo interlocutorio contatto preso da Freddi nel novembre 1934 con Ruffo della Scaletta e Corazzin, i rappresentanti meno filofascisti dell’Ecer e della Lux Christiana —  i due enti cinematografici cattolici al centro allora di una complessa operazione di restyling  — non avrebbe avuto alcun seguito.

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

Giovanni Papini (foto tratta da Wikipedia)

È certo però che l’idea della pellicola sulla Senese, tramite la «Minerva Film», nei mesi successivi passò nelle mani del grande regista del realismo francese Julien Duvivier, perdendo sempre più i contenuti ideologici con cui era stata battezzata, ma senza mai trovare uno sbocco produttivo. Papini continuò a rivedere il soggetto almeno fino al 1937, avendo modo di parlarne in diverse occasioni attraverso interviste concesse a giornali e riviste. In esse l’intellettuale toccava i temi al centro del delicato dibattito sulla rappresentabilità dei soggetti religiosi, tutti interni alla cultura cattolica. «Un film che abbia a protagonista santa Caterina da Siena – dichiarò Papini, nel febbraio 1937, all’intervistatore de “L’Osservatore Romano della Domenica” – non può essere concepito come uno dei moderni film di fantasia e d’avventura. La ragione d’essere della Vergine senese è la santità, e per conseguenza, ogni spettacolo che intenda rappresentare la sua vita, deve in qualche modo ricordare e arieggiare una sacra rappresentazione».

Solo nel dopoguerra l’idea di trasporre la vita della santa senese poté trovare una concretizzazione. Niente a che vedere però con le raffinate elaborazioni culturali e artistiche che avevano accompagnato i progetti Duvivier-Papini. A raccogliere il testimone fu infatti il regista Oreste Palella che in ben due film prodotti a distanza di circa dieci anni, non riuscì ad incontrare i favori di critica e pubblico. Se Caterina da Siena del 1947 fu apertamente mal giudicato dalla rivista «Intermezzo» («A certi argomenti – così la recensione – e a certi personaggi bisognerebbe accostarsi con maggiore preparazione, con mezzi meno limitati ed anche con una buona dose di rispetto. […] a vedere il film si ha l’impressione che ad un certo momento sia sorta la necessità di condurlo rapidamente a termine, bene o male»), non miglior sorte toccò a Io Caterina del 1956 stroncato senza mezzi termini dalle Segnalazioni Cinematografiche, elaborate dal Centro cattolico cinematografico che era una diretta emanazione dell’Azione cattolica italiana: «E’ un film di modesta fattura, semplicistico nel suo svolgimento, interpretato con scarsa convinzione. Ambientazione di maniera».

*Gianluca della Maggiore è dottore di ricerca in Storia. Collabora con l’Università degli studi di Milano nell’ambito del PRIN “I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70”. E’ membro del coordinamento di redazione di ToscanaNovecento e collabora con l’Istoreco di Livorno. Autore di studi sul mondo cattolico, si occupa di cinema, Resistenza e movimenti politici. Tra i suoi ultimi saggi Il Don Bosco di Alessandrini tra fascismo e universalismo cristiano, in “Immagine. Note di storia del cinema”, 10, luglio-dicembre 2014.




Contro ebrei, barbari, traditori e rinnegati!

All’indomani della proclamazione dell’armistizio, l’8 settembre 1943, in un Paese già duramente provato dal conflitto ed adesso diviso fra contrapposti eserciti stranieri e in gran parte occupato dalle truppe nazisti, i fascisti, facendosi forti proprio della presenza di questi ultimi, tornano ad assumere il governo dei territori e intendono riaffermare il proprio dominio e controllo sugli italiani sotto la guida del proprio Duce. Ex squadristi emarginati nel Ventennio ed in cerca di riscatto, giovani forgiati dalla retorica del regime, funzionari dello Stato, militari e civili, uomini spinti da interessi, condizionati da paure, mossi da passioni e ideali formano le leve del partito fascista repubblicano e del nuovo stato: la Repubblica sociale italiana (RSI).
Uno degli obiettivi immediati diviene la conquista del consenso degli italiani e la stampa e gli altri strumenti di propaganda affidati al Ministero della Cultura popolare ne sono lo strumento principali, dimostrando che la RSI rappresenta l’unica possibilità di salvezza per l’Italia, di riscatto dell’onore perduto con il “tradimento” dell’armistizio, di vittoria della guerra a fianco dei nazisti. Si tratta di una propaganda di guerra tesa a contrastare quella degli Alleati e degli antifascisti, che si esprime in una vera e propria guerra di parole dai toni sempre più duri e truci. Una sfida difficile per gli eredi del regime che aveva portato il Paese alla sconfitta, resa di fatto impossibile, con il passare dei mesi, dall’andamento della guerra. Anche in Toscana, già culla del fascismo delle origini, così come in tutto il territorio della repubblica, si assiste ad una fioritura di testate: quotidiani, periodici, numeri unici che danno voce a tutte le anime della RSI, da quelle nazionaliste a quelle più radicali, espresse dai “fogli” delle federazioni del partito (come “Repubblica” di Firenze, “L’Artiglio” di Lucca, “Il Ferruccio” di Pistoia, “Giovinezza repubblicana”), tutte comunque circoscritte nell’identità del fascismo repubblicano e nell’alleanza con il nazismo.

Per cercare di acquisire i consensi degli italiani, uno dei temi essenziali trattai e usati dalla propaganda repubblichina è la rappresentazione dei nemici. Per i fascisti la descrizione degli avversari è funzionale, per contrasto, a delineare e chiarire la propria identità di “puri” ed eroici combattenti e per mobilitare attorno alla repubblica tutti coloro che intendano difendere la Patria. La propaganda deve quindi recuperare stereotipi e slogan del regime, suscitare dubbi e paure, motivare rabbia e risentimento, toccare interessi ed emozioni.

WP_20160705_09_45_27_ProL’idea centrale è che i fascisti, unici veri italiani, siano contrastai da una vera e propria congiura che unendo nemici diversi sotto la regia degli ebrei, quali nemico n. 1, come scrive “Repubblica” il 18 novembre ’43, da contrastare con ogni mezzo, definiti “razza nemica” nel Manifesto di Verona del Partito, carta di identità del fascismo repubblicano. Per “La Nazione” le potenze straniere troverebbero il loro comun denominatore proprio “nel giudaismo unico e vero despota delle cosidette democrazie liberali e di quel regime barbaro e mostruoso che si chiama Unione delle Repubbliche sovietiche” [Inghilterra, bolscevismo e imperialismo americano, “la Nazione”, 3 novembre 1943]; Inghilterra, USA e URSS sarebbero così al servizio dell’oro giudaico. Questa denuncia serve da un lato a sottolineare l’esistenza di una “razza italiana” minacciata da quella ebraica, che tutti devono mobilitarsi per difendere, dall’altra a promuovere e giustificare qualsiasi forma di violenza contro un nemico tanto pericoloso che viene definito “malattia ereditaria dell’umanità” su “la Nazione” del 20-21 febbraio, microbo maligno sul periodico fiorentino “italia e civiltà” e “tumore maligno” da eliminare su “Repubblica”.

Ma il nemico reale con cui fare i conti sono certamente gli eserciti Alleati. Consapevoli della loro forza e dell’appeal che hanno fra la popolazione italiana, la propaganda di Salò cerca di rovesciarne l’immagine da quella di “liberatori” a quella di “oppressori”. Così li descrive il periodico fiorentino “Rinascita”: i “liberatori sarebbero quei barbari volanti che distruggono le nostre città e i nostri villaggi, quei mercenari che depredano le nostre popolazioni dell’Italia meridionale, quei negri che violentano le nostre donne” [27 novembre 1943], recuperando tutti gli stereotipi propri del razzismo coloniale. Tanto che per “Repubblica” i “negri non sono esseri civili” [22 gennaio 1944]. Allo stesso tempo si denuncia che gli angloamericani avrebbero consegnato l’Italia a Stalin in caso di vittoria e per rafforzare questa ipotesi viene diffusa la falsa notizia della partenza dai porti del Mezzogiorno di navi cariche di bambini strappati alle proprie famiglie per essere condotti in Russia e trasformati in perfetti comunisti, automi nelle mani del dittatore bolscevico che li avrebbe poi rimandati in Italia controllare il Paese. Si usa lo spettro del comunismo per mobilitare attorno alla RSI tutti coloro si riconoscono nei valori tradizionali della patria, della religione e della famiglia. Abile nello sfruttare fatti reali (dai bombardamenti alle violenze sulle donne delle truppe coloniali, alle difficili condizioni di vita nell’Italia meridionale “occupata” dagli angloamericani) e nell’alimentare paure ataviche e diffuse, questa propaganda si scontra tuttavia da un lato con il reale andamento del conflitto, dall’altro con la presenza opprimente dei nazisti. L’aspirazione per la fine del conflitto e l’ostilità nei confronti del nazismo pare prevalere su ogni altra considerazione fra la popolazione.

Tuttavia sono i “traditori” i nemici contro cui la propaganda fascista si scaglia con maggiore ferocia. In primo luogo i fascisti che non hanno seguito il nuovo corso, simboleggiati da Galeazzo Ciano e dagli altri gerarchi che avevano votato contro Mussolini nella riunione del Gran Consiglio del 25 luglio. Quindi il re Vittorio Emanuele III e il generale Badoglio che avrebbero venduto l’Italia al nemico con l’armistizio. Infine i partigiani: i “rinnegati” che combattono contro la propria Patria. Figure private di qualsiasi dignità e qualificate infatti come criminali, assassini, vigliacchi, sicari. Ma incredibilmente agli occhi dei repubblichini ottengono consenso e sostegno da parte della popolazione.
E così la categoria dei traditori tende ad estendersi coinvolgendo categorie diverse di persone, considerati prima come sostenitori “naturali” o potenziali, ma poi guardate con sempre maggiore diffidenza e quindi con rabbia, per esser infine identificati come “nemici” particolarmente odiosi proprio perché inattesi. Infatti, come scrive “Repubblica” il 26 febbraio 1944: “oltre i sabotatori, i sobillatori, i sicari prezzolati del nemico attenta alla vita della nazione, anche chi in questo momento, non assolve in modo preciso e concreto il compito assegnatoli”, come i giovani che non rispondono alla chiamata di leva, e i loro genitori e parenti che li nascondono, come i disertori e coloro che proteggono gli ebrei, i soldati “alleati”, i partigiani. Particolarmente dure sono le condanne degli intellettuali che si sono ritirati nel silenzio e non sostengono la Rsi, del clero che non segue le direttive della repubblica ed anzi svolge “attività antinazionali”, delle donne che sono invitate ad andare “al di là del Volturno a sollazzare le ore meditative del filosofo Croce o le fatiche guerresche delle truppe angloamericane” [Repubblica, 18 dicembre 1943].

Ma proprio la denuncia di questa crescita esponenziale del numero e della varietà dei nemici rivela emblematicamente l’isolamento dei fascisti di Salò e il fallimento della loro stessa propaganda sconfitta inesorabilmente dalla realtà nella sua disperata guerra di parole condotta con tenacia dalle testate toscane fino al giugno-luglio del ’44 nell’imminenza dell’avanzata nemica e nel dilagare delle azioni partigiane in una regione provata dalla durezza dell’occupazione, della guerra ai civili e del passaggio del fronte, che attende con impazienza i giorni della Liberazione.

Matteo Mazzoni, dal settembre 2014 direttore dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, è dottore di ricerca in Studi storici dell’età moderna e contemporanea. Ideatore e coordinatore di progetti didattici e culturali per la divulgazione scientifica della storia. Consigliere dell’Istituto Gramsci Toscano. Membro della Redazione del Portale di Storia di Firenze, oltre che Responsabile di redazione di ToscanaNovecento. Autore di pubblicazioni e volumi fra cui si ricordano: Livorno all’ombra del fascio, Olschki 2009, vincitore del Premio ANCI-Sissco 2010 e Il passaggio del fronte tra Val di Pesa e Val d’Elsa, Polistampa 2014.




“Sognavo una vita romantica e felice”

Quale effetto un conflitto esercita sulla psiche infantile? Quali le conseguenze, i traumi, le ricadute successive?
Queste domande, così frequenti nei reportage che di recente si sono soffermati sulle “infanzie rubate” dalle guerre, sono poco presenti nei saggi di storia sociale sulla seconda guerra mondiale. Ma uno studio sull’argomento, oltre ad aiutare a comprendere le sofferenze dell’oggi, servirebbe anche a cogliere i nessi tra quel vissuto e i successivi eventi della Prima Repubblica. Lungi dal colmare questa lacuna, questo contributo vuole gettare una luce su un argomento – la memoria infantile della Resistenza – tanto più importante quanto necessario da ricordare in una regione – la Toscana – dove il numero di vittime è stato inferiore alla sola Emilia.

Innanzitutto: quali fonti usare? La più parte delle testimonianze è stata raccolta anni dopo la guerra, quando non solo il tempo trascorso aveva affievolito il ricordo, ma quando i bambini di allora si erano ormai trasformati in adulti con il proprio vissuto e con altre esperienze alle spalle. Mediata già in tempo di pace dagli adulti, la voce infantile diventa perciò più flebile nei tempi convulsi di guerra. Gli appunti che il quattordicenne aretino Almo Fanciullini raccoglie sistematicamente tra l’8 settembre e la liberazione di Arezzo appaiono quindi come una particolare eccezione.

Tracciare alcune linee comuni nelle esperienze belliche di bambini e adolescenti toscani è però possibile. La prima è l’avvento della precarietà, di luoghi e di persone. Il conflitto, prima colto vagamente dalle conversazioni degli adulti, irrompe con il primo bombardamento o la carestia. «Anche se si sentiva parlare di guerra» ricorda Feralda Giovannetti di San Martino ad Empoli, dove nel ’43 frequentava la seconda elementare «per la giovane età, non ci rendevamo conto di quello che poteva essere. Cominciammo ad accorgercene quando iniziò la carestia dei viveri». «Sognavo una vita romantica e felice: gli orrori della guerra mondiale mi distolsero da questi sogni» scrive ad esempio Anna Taiuti, che dopo il bombardamento di Milano sfollò dai nonni in Toscana.
Alla devastazione dei luoghi familiari succede spesso lo sfollamento in campagna per i cittadini o, per chi vi abitava, l’arrivo di nuove persone – spesso più colte, più ricche o semplicemente più informate sugli ultimi avvenimenti – rivoluzionava la routine quotidiana, apriva nuovi orizzonti. La novità è ad esempio sottolineata da Luciana Franceschini, nata nel 1935 nelle campagne del pistoiese: «ricordo molto bene gli sfollati perché … vedevo gente nuova … per me era tutto una sorpresa e anche un divertimento quando mi invitavano a giocare».

La crescita precoce che la guerra induce nei bambini e negli adolescenti è però il tratto che maggiormente accomuna queste testimonianze. Il processo è però difforme, e varia a seconda della classe sociale di provenienza. È la fine precoce dell’infanzia per i bambini delle classi popolari, che, mentre gli adulti si asserragliano in casa per sfuggire ai rastrellamenti, lavorano nei campi e nelle officine, svolgono commissioni, girano armati. «[Noi ragazzini] andavamo a prendere il grano perché i contadini avevano paura dei tedeschi… Noi eravamo piccoli e avevamo più possibilità di stare allo scoperto» riporta Sergio Capecchi, nato a Cantagrillo (Serravalle P.se) nel 1930. Ed è invece una scoperta della libertà per i giovani delle classi sociali superiori, che, grazie alle preoccupazioni di genitori altrimenti indotti a una stretta sorveglianza, si scoprono liberi di gestire il proprio tempo. «Eppure» riassume infatti Isabella Dauphinè, sfollata da Firenze, «ricordo quel lontano 1943 come un anno veramente straordinario. Là in campagna eravamo molti ragazzi:… e ci sentivamo veramente liberi, perché le donne adulte presenti… piene di ansie e preoccupazioni, avevano ben altro da fare che occuparsi di noi».




Livorno 1944-1945

Il 23 luglio 1944, a quattro giorni dalla liberazione di Livorno, il neosindaco Furio Diaz chiese l’assegnazione di una pattuglia di carabinieri da destinare al municipio, «allo scopo di prevenire disordini e tumulti» che già si stavano manifestando: numerosi cittadini si presentavano infatti all’ufficio annonario per ottenere il rilascio delle carte necessarie al rientro nel comune, «non volendosi adattare al noto divieto stabilito d’accordo col Governo Militare Alleato»[1].

La questione delle migliaia di sfollati che premevano per rientrare in città – nonostante la detestata “zona nera” fosse ancora in vigore – fu uno dei banchi di prova più impegnativi per la gestione dell’ordine pubblico. Dove collocare chi rivendicava una casa? Lo spazio abitativo era ridotto a causa delle ingenti distruzioni belliche e gli alleati stavano requisendo gli edifici già occupati dai tedeschi. Stabili «di alcune diecine di appartamenti» vennero confiscati per alloggiarvi pochi ufficiali o pochi militari di truppa. «Intere numerose famiglie» furono «invitate ad uscire entro poche ore e senza possibilità di una diversa sistemazione»[2]. A metà settembre del 1944 i carabinieri lamentarono come la popolazione fosse stata costretta:

 […] ad abbandonare improvvisamente le proprie case gelosamente custodite persino durante il periodo dei bombardamenti. Ciò senza contare che le requisizioni degli appartamenti (mobili compresi) avvengono senza alcuna garanzia per i proprietari, anzi con modalità tali da far considerare perduto quanto requisito[3].

Non a caso, negli stessi giorni, alcuni militanti del Pci incentrarono la loro propaganda antiamericana sull’argomento che il governo militare alleato continuava ad affamare i cittadini e a derubarli delle loro proprietà, come avevano fatto gli odiati tedeschi[4].

In alcuni casi, per suscitare l’interessamento delle autorità, i cittadini ricorsero al linguaggio tipico del patriottismo e della carità cristiana. Uno di essi scrisse al Cln a nome di «varie famiglie» che si erano trovate senza pane e che pregavano «di far sentire l’accorato loro lamento con la preghiera la più calda che non si rinnovino tali disordini per l’onore di una città che è anche capoluogo di Provincia». Disse di essere «animato da sentimenti d’Italianità, amante del vero ordine, conscio che in questi momenti tutti dobbiamo prodigarci a pro dell’umanità letteralmente martoriata»; forte di questi sentimenti aveva fatto proprio «l’appassionato ricorso di vari cittadini, i quali, presentatisi a vari forni, hanno avuto la sorpresa di vedersi negato il pane quotidiano, perché sprovvisti della nuova tessera» per via della disorganizzazione degli uffici competenti[5].

Ottobre 1944. Sbarco della fanteria USA al porto di Livorno ((Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Ottobre 1944. Sbarco della fanteria USA al porto di Livorno ((Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

In virtù del rilievo militare del capoluogo – prescelto come “Decimo porto” dell’esercito statunitense – nonché per la situazione disastrata della zona, i comandi alleati stabilirono poi che «nessuno sarebbe potuto rientrare nel Comune di Livorno per risiedervi senza la preventiva autorizzazione del Public Safety Officer dell’A.M.G.» e che i contravventori sarebbero andati incontro all’arresto e all’espulsione[6]. Gli alloggi e i viveri furono riservati a chi lavorava per le Forze Armate angloamericane. Gli uomini fra i 16 ed i 60 anni, che non avessero voluto o potuto farlo, che avessero lasciato il posto senza il permesso dell’Amg, o che non si fossero comportati adeguatamente durante lo svolgimento delle proprie mansioni, sarebbero stati considerati «non necessari alla vita attuale di Livorno» e avrebbero potuto incorrere nell’allontanamento forzato dalla città, assieme alle loro famiglie[7]. «Desiderosi di non abbandonare la loro Livorno», alcuni livornesi cercarono un rifugio presso amici o «persone buone» nei dintorni. Così scrivevano:

Facilmente si comprende che la loro sistemazione fu fatta come lo permetteva il momento, (se pensa che in una stanza vivono 8/10 persone) quindi è facile arguire quale sia il desiderio di poter rientrare al più presto nelle loro case, desiderio che viene annullato con l’ordinanza suddetta, perché questi poveri-sfollati [sic] dovranno vedere le loro case occupate da altri e loro restare ancora a mendicare un po’ di alloggio.

Troviamo giusto che gli operai abbino [sic] una sistemazione, ma domandiamo se non fosse il caso prima di far rientrare nelle proprie case questa gente, eseguire poi un censimento molto accurato e nelle case che si verificasse di avere un numero di vani superiore al necessario obbligare a prendere persone in casa.

In questa maniera ci sembra che si potrebbe ugualmente raggiungere lo scopo prefisso dall’Onle Comando Alleato e nello stesso tempo si verrebbe a contentare tante persone lasciando di rientrare nelle proprie case in modo che potessero tutelare i propri interessi evitando di essere maggiormente saccheggiati[8].

Soldati americani al luna park in piazza Grande (Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Soldati americani al luna park in piazza Grande (Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Per chi riuscì a rimanere o a tornare in città le condizioni di vita furono compromesse anche dall’arbitrarietà dei provvedimenti dell’amministrazione militare. L’Amg, come ogni forma di governo d’occupazione, detenne la facoltà di imporre misure eccezionali e restrittive dei diritti individuali. Alcune preesistenti limitazioni alla libertà personale furono semplicemente mantenute. Ad esempio il coprifuoco fu mantenuto dalle 21.00 alle 5.00, ridotto di un’ora e mezza (22.30-5.00) a partire dal 21 marzo 1945 in tutti i comuni della provincia, eccettuati il capoluogo e Piombino, dove fu conservato l’orario esteso[9]. Pochi mesi dopo, «vista la disponibilità limitata di energia elettrica», fu deciso che chi avesse utilizzato la corrente nella propria abitazione o nel proprio esercizio commerciale senza l’autorizzazione sarebbe incorso nella punizione «a termine di legge»[10].

L’insofferenza popolare si tradusse, come in altri contesti, in manifestazioni a guida e prevalente composizione femminile. [11]Il 20 agosto 1945 il capitano della Public Security, Stanley Beatty, riferì di una «composta e ordinata dimostrazione di donne livornesi sotto la sede dell’A.M.G. (circa 100) nella quale una commissione di sei donne si presentò […] richiedendo che fossero liberate le case occupate dai militari e gli altri locali» dove erano «accantonati i prigionieri tedeschi, allo scopo di far posto a molte famiglie tuttora senza casa, nonché alla assunzione di operai italiani disoccupati in sostituzione di prigionieri tedeschi nei vari lavori, e, raccomandando una maggior distribuzione di generi tesserati e specie dell’olio»[12]. Il compito femminile di accudire la famiglia e la comunità – quel maternage di massa che aveva costituito uno dei tratti fondamentali della “resistenza civile” sotto il regime saloino – si esprimeva qui in una forma organizzata, espressione dell’attivismo politico delle donne maturato durante la guerra. Emblematico dell’intraprendenza acquisita si dimostra un episodio del marzo ’45, riferito in una corrispondenza censurata.

Oggi è successo un casetto [sic]: sono passate una cinquantina di donne cantando “Bandiera Rossa” e un soldato gli ha fatto una pernacchia. Allora gli hanno dato due schiaffi e gli hanno sputato in faccia. I soldati che erano lì presenti hanno detto che domani picchieranno i comunisti[13].

Imboccatura del porto di Livorno bloccata dagli affondamenti tedeschi (Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Imboccatura del porto di Livorno bloccata dagli affondamenti tedeschi (Collezione fotografica Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

All’inizio del successivo ottobre il Comando Generale dei carabinieri intervenne presso il governo paventando agitazioni popolari «a causa della rilevante quantità di prigionieri militari tedeschi» ancora impiegata dagli angloamericani per i lavori del porto». Il timore di manifestazioni operaie, o meglio di manifestazioni di operai disoccupati, deve essere inserito nel quadro della più ampia ridefinizione delle relazioni tra datori di lavoro e maestranze a partire dagli scioperi dell’inverno 1943-44, che segnarono lo sviluppo di una matura conflittualità politica e si inserirono a pieno titolo in quella resistenza senz’armi che fu parte essenziale della lotta di liberazione. I capi dei partiti ciellenistici, in linea con le pratiche di concertazione, si impegnarono nel tenere a bada la cittadinanza, mentre il prefetto di Livorno sollecitò ripetutamente l’Amg, chiedendo l’allontanamento dei prigionieri. Nonostante le «promesse», infatti, nulla veniva fatto in tal senso[14].

Nuovi scioperi furono scongiurati, secondo l’Amg, grazie all’abilità dei propri comandi ed al buon senso degli amministratori locali, che seppero fare i propri interessi sottomettendosi sostanzialmente alle direttive militari[15]. Non va però omesso un elemento rilevante: le autorità alleate avevano fatto sapere che, qualora vi fossero stati scioperi, tutti gli italiani da loro impiegati sarebbero stati «licenziati senz’altro e sostituiti con prigionieri germanici»[16]. Probabilmente, più che la risolutezza angloamericana, furono tali minacce a placare gli animi. Il prefetto, dal canto suo, ricondusse il mantenimento della calma all’impegno suo e del presidente del Consiglio[17].

La poliarchia degli organismi del governo alleato aprì inoltre ampi spazi di arbitrarietà d’azione; allo stesso tempo, i poteri locali si relazionarono con i comandi militari assai diversamente a seconda del proprio retroterra ideologico e sociale. La giunta comunale, costituita quasi interamente da professionisti ed imprenditori, si dimostrò moderata e per lo più collaborativa con le gerarchie angloamericane, di simile estrazione borghese e formazione culturale. La solidarietà di classe parve in molti casi prevalere sulla discriminante nazionale. Alla base di questa collaborazione sembrano emergere relazioni effettivamente incentrate sulla stima reciproca, sulla condivisione delle istanze geopolitiche nate dall’alleanza, sulla volontà di muoversi verso la realizzazione di una compiuta democrazia: altro discorso, poi, è se sotto questa etichetta generica si nascondevano diversi – e spesso inconciliabili – modi di intendere la stessa ricostruzione democratica. Prefettura e questura, che rappresentarono gli ambienti di più diretta continuità dello Stato, si rivelarono i soggetti più restii ad una pacifica subordinazione alle direttive “straniere”. Il Cln, a dirigenza comunista, espresse invece un atteggiamento più variegato: pur assumendo un ruolo di mediazione tra le richieste della cittadinanza e le direttive dell’Amg, impegnandosi via via a placare il malcontento popolare, intervenne sugli orientamenti alleati tramite strategie di condizionamento nella scelta del personale[18].

Sullo sfondo dei rapporti istituzionali, dunque, in opposizione all’immagine olografica di una “Repubblica nata dalla Resistenza” con l’amichevole supporto degli Alleati, emerge una zona grigia di collisioni, di rivendicazioni di autonomia, di reciproche appropriazioni di meriti, di insofferenza alla subalternità. La transizione alla democrazia individua così, nelle sue complesse dinamiche sociali e politiche, una storia di oscillazioni tra passato e futuro, tra pianificazione dall’alto e particolarismi dal basso, tra forza della tradizione e progresso, tra mito dell’internazionalismo e retaggio – ancora vivo ed incisivo – del nazionalpatriottismo.




Contro la guerra e la povertà

Nel pistoiese l’opposizione popolare alla guerra prima del maggio 1915 fu forte, anche qui più nelle aree rurali che nel centro urbano. L’onda della protesta sociale era iniziata a montare già nella primavera del 1914, con due manifestazioni in occasione del 1° maggio promosse rispettivamente dai socialisti e dai sindacalisti anarchici dell’USI (i secondi subirono anche alcuni arresti) fino alla Settimana rossa, nel giugno del ’14, con uno sciopero generale cittadino, lievi scontri intorno alla stazione – con il danneggiamento dei binari nella zona della Vergine – e parecchi arresti. Durante lo sciopero si tenne un comizio dove intervennero i socialisti Taddeoli e Cipulat, gli anarchici Eschini e Lombardelli e Agostini per i repubblicani. I manifestanti si recarono anche in corteo alla Sottoprefettura dove chiesero il rilascio di alcuni arrestati nei giorni precedenti per la diffusione di materiali antimilitaristi.

Come nel resto d’Italia quindi, lo scoppio della prima guerra mondiale andò a inserirsi all’interno di uno scenario già teso, caratterizzato da un inasprirsi della protesta popolare contro le cattive condizioni di vita. Queste circostanze contribuirono a radicalizzare il locale partito socialista, nel quale alcune componenti progressivamente si spostarono su motivazioni sempre più classiste e su argomentazioni di “guerra alla guerra” molto vicine a quelle sostenute in quel momento dai sindacalisti rivoluzionari e dagli anarchici. L’area di Lamporecchio, in particolare, era divenuta la prima zona “rossa” del circondario, con l’elezione a sindaco di Idalberto Targioni nel 1914, come risultato della sua intensa attività di propagandista e organizzatore degli anni precedenti, e il Consiglio comunale si era pronunciato per la neutralità assoluta già nell’agosto.

Dal gennaio del 1915 la corrente di opposizione intransigente alla guerra divenne maggioritaria nel socialismo pistoiese, e le manifestazioni andarono intensificandosi. A Candeglia fu indetta un’assemblea per illustrare i disagi che la guerra avrebbe provocato, a cui partecipò numerosa la popolazione delle campagne circostanti, mentre a Lamporecchio circa 300 disoccupati scendevano in piazza al grido di “pane e lavoro”. Con l’avvicinarsi dell’ingresso nel conflitto, la situazione non si normalizzò. Tra aprile e maggio furono indetti comizi e manifestazioni a Casalguidi, Spazzavento, Candeglia e ancora a Lamporecchio, con la partecipazione di centinaia di persone. Il 1° maggio nel capoluogo si teneva un comizio, seguito da iniziative dello stesso tenore a Bonelle, Spazzavento e nel quartiere di Porta Lucchese. Nei giorni immediatamente a ridosso della dichiarazione di guerra, il livello della conflittualità si innalzò. A Pistoia ci furono scontri alla stazione ferroviaria contro la partenza dei richiamati alle armi, a cui non furono estranei alcuni dei soldati dei reggimenti che dovevano partire. La tensione e l’opposizione popolare rimasero forti nei mesi successivi, nonostante il bavaglio imposto alla stampa di opposizione e l’ambigua posizione ufficiale dei socialisti, attestatisi intorno al “né aderire né sabotare”, che frenò le componenti più radicali del socialismo pistoiese. Sempre nella zona di Lamporecchio una manifestazione si trasformò in rivolta con l’occupazione del paese per alcune ore, durante le quali avvenerò atti di ostilità verso i facoltosi del luogo. Furono arrestate 5 persone, condannate poi a pene severe. In diverse circostanze il movimento popolare superò e radicalizzò le parole d’ordine iniziali degli organizzatori delle proteste, soprattutto nel mondo rurale, che vedeva come una vera e propria sciagura il conflitto, e che si caratterizzò per una massiccia partecipazione della componente femminile.
Furono infatti sempre le donne a riaccendere il fuoco della protesta nelle campagne.

Fino al 1916-’17 nel pistoiese regnò la calma, ma i giovani socialisti, radicalizzati rispetto al loro stesso partito, ed un innovativo movimento di socialiste, ripresero la propaganda contro la guerra e le pessime condizioni di vita, aggravatesi durante il conflitto. Fu lanciata la parola d’ordine del rifiuto del sussidio per protestare contro l’assenza degli uomini e dei figli. L’attività di propaganda funzionò a tal punto da riuscire a penetrare anche nelle zone tradizionalmente cattoliche, dove probabilmente l’ostilità popolare all’inutile strage, come l’aveva definita lo stesso Papa, non doveva essere minore. Nel gennaio 1917 la protesta, a guida femminile, esplose. A Larciano le donne rifiutarono il sussidio e dettero vita a una manifestazione antimilitarista, seguita da altre due manifestazioni analoghe a Quarrata. Anche in occasione della giornata internazionale dell’8 marzo, si tenne una manifestazione nel capoluogo, legata più a motivi economici. Nella piana cominciarono a svolgersi delle “marce della pace”. Da Tobbiana il 26 giugno 400 donne partirono verso Pistoia per chiedere la pace e rifiutare il sussidio (5 arrestate e 5 denunciate). A Montale il 5 luglio, in 300 cercarono di bloccare il servizio ferroviario e chiesero la fine della guerra, mentre il giorno dopo un’altra manifestazione per la pace, 300 le partecipanti, assumeva toni più minacciosi, con le dimostranti armate di bastoni (18 arrestati, 14 donne e 4 uomini). Sempre il 6 luglio donne di Agliana, Pistoia e frazioni dei due comuni si riunirono insieme e in circa 300 tentarono di arrivare a Pistoia, bloccate dai Carabinieri. A Gello si svolse una manifestazione di circa 400 donne, a Ramini un centinaio di donne costrinsero la maestra a sospendere le lezioni (18 denunciate) ed a Casalguidi avvenne un’altra manifestazione in favore della pace. Le aree erano quelle a diffusa presenza mezzadrile, con centri all’epoca piccolissimi, dove il movimento sindacale dei lavoratori della terra aveva iniziato ad apparire negli anni precedenti. La provenienza sociale legata al lavoro agricolo è testimoniata in un caso dal comportamento delle donne di Vinacciano. Una cinquantina di loro si recò da un proprietario terriero, evidentemente identificato tout court come parte di quello Stato così lontano e opprimente, chiedendo di far cessare il lavoro nei campi dei prigionieri di guerra (alla solidarietà internazionale qui forse si unì il problema pratico che questa era manodopera non pagata che toglieva lavoro ai braccianti) e di adoperarsi per far ritornare gli uomini dal fronte (7 denunciate).

Queste pratiche di opposizione e di conflittualità politico-sociale, difficili da seguire ma nondimeno concrete, lungi dall’essere episodi isolati, si inseriscono dunque all’interno di un malessere di lungo periodo, acuito dalla guerra, che avrebbe poi fornito le basi all’ondata di agitazioni del biennio rosso, con i moti del caroviveri, l’occupazione delle fabbriche e le agitazioni nelle campagne, sconfitto soltanto dalla reazione armata guidata dallo squadrismo fascista tra il 1921 e il ’22.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione.




La partecipazione degli ebrei livornesi alla Grande guerra

928 è il numero “ufficiale” dei caduti della Grande Guerra della città di Livorno, è il numero che risulta dalla consultazione del Ministero della Difesa. Sicuramente un numero per difetto perché si ricollega direttamente ai dati forniti nel 1928 durante il periodo fascista, relativi alle perdite in combattimento o in prigionia. Che fosse un numero per difetto lo si  può dedurre dal fatto che molti risultano “dispersi”, che di alcuni prigionieri non si sa la fine che possano aver fatto. Pertanto è lecito, ad una disamina accurata, ipotizzare che sia un numero, seppur di poco, più basso del reale. Quando però, per la città di Livorno, proviamo ad incrociare i dati del Ministero con il lavoro analitico svolto da Pierluigi  Briganti sulla partecipazione ebraica al conflitto, questa si rivela più significativa di quella verificabile nell’elenco dei  928 caduti e tale da porre più di un dubbio sulla veridicità della cifra iniziale. Dallo spoglio del primo elenco a nostra disposizione si poteva ricavare, in base al cognome, una presenza ebraica pari a 55 nominativi, non essendoci nessuna notizia relativa alla religione. Utilizzando invece la ricerca di Briganti arriviamo a determinare con sicurezza, poiché di ciascun nominativo compaiono il patronimico, il luogo di nascita e spesso il distretto militare di riferimento, il numero di 62 caduti. Una differenza di 7 individui sul totale pari ad un errore percentuale che sfiora il 9%. Non poca cosa. Caduti, come nella maggioranza dei casi  più per malattia che per il fuoco nemico. Ma lo sfoglio del testo di Briganti ci permette di entrare assai più a fondo nel merito analitico della partecipazione ebraica alla Grande Guerra. Ci troviamo in base alla sua ricerca di fronte ad un quadro di questo tipo:

zio di orefice1

Gastone Orefice, tenente ebreo livornese che morì in battaglia nel 1916 (Fondo privato famiglia Orefice)

Ufficiali generali: 2 (un tenente generale e un contrammiraglio)

Ufficiali superiori: 9

Ufficiali inferiori: 114

Sottufficiali e truppa: 86

Militari reperiti senza determinazione di grado: 8

Riepilogo che ci fornisce notizie  molto dettagliate e precise perché per ogni militare caduto ci dà non solo la paternità, il luogo e la data di nascita, ma anche quasi sempre dove è avvenuto il decesso, ci dice inoltre, per questo particolare campione, pure il distretto militare di riferimento. E’ proprio questo elemento in più che permette di evidenziare come dal distretto di Livorno non passarono soltanto i livornesi qui residenti ma transitarono anche decine di ragazzi, figli di livornesi, residenti all’estero, soprattutto nelle città del nord Africa o della Grecia ma che facevano riferimento a Livorno poiché i genitori e loro stessi non avevano mai rinunciato né alla cittadinanza italiana, né avevano abbandonato l’antico porto labronico. In tutto si tratta di 30 individui, per i quali è lecito ipotizzare che siano pure partiti volontari a conferma di quanto la storiografia sul tema ha da molto tempo accertato, cioè che il 1° conflitto mondiale è stato sentito dalla minoranza ebraica come una grande occasione d’integrazione, una occasione all’interno della quale inserirsi per meglio affermare la propria avvenuta e totale emancipazione. Le località d’origine si distribuivano su quattro diverse zone di partenza. La componente più numerosa arrivava dalla Tunisia (13 militari), al secondo posto si collocava l’Egitto (8 militari) e al terzo e quarto, la Turchia (7 militari) e la Grecia (2 militari). E’ una provenienza che riconferma quanto già sappiamo e sapevamo sulle comunità ebraiche del Mediterraneo. In base difatti alle nostre conoscenze, soprattutto per quanto riguarda la presenza livornese, la Tunisia è la più significativa e tale resta anche fino al secondo dopoguerra; al secondo posto vediamo l’Egitto che fu a lungo il luogo prescelto di molti commercianti che vi si avventurarono per fare affari e intrecciare relazioni. Meno importante sul piano numerico, comunque presente, è poi il caso delle città turche e greche, non specificate.

I dati su cui possiamo ragionare ci dimostrano anche l’alta percentuale dei graduati rispetto al totale a conferma dell’alto livello di alfabetizzazione della popolazione ebraica rispetto a quella italiana nel suo insieme. Percentualmente i graduati di questo campione toccano il 57% del totale degli ebrei livornesi partiti per la guerra, una quota altissima dove spicca un altro sottoinsieme, quello dei graduati: capitani, tenenti, maggiori, impegnati come medici e farmacisti nella Sanità. Continuando le nostre osservazioni sui nostri elenchi possiamo constatare che, come per il caso dei gentili, i nomi più ricorrenti che incontriamo si rifanno alle vicende risorgimentali o agli eroi della lirica e della letteratura. Abbiamo pertanto: Umberto, Carlo, Giuseppe, Giacomo, Athos ma troviamo anche i nomi della tradizione millenaria ebraica come: Moisé, Abramo Salomon, David, Isacco.

Facendo attenzione alle medaglie riportate incontriamo 13 medaglie d’argento, 5 di bronzo e 2 croci al valor militare. In totale 20 riconoscimenti di merito, a significare che, poco meno del 10% dei soldati che parteciparono al conflitto, ne fu insignito.

La tomba di Orefice (Fondo privato Famiglia Orefice)

La tomba di Orefice (Fondo privato Famiglia Orefice)

Ma il lavoro di Briganti ci permette anche un’altra lettura. Lo studioso aggiunge, credo anche per ragioni che possiamo definire morali, se l’individuo in esame, sopravvissuto al conflitto, è poi stato deportato. Incrociando la sua informazione con la ricerca di Liliana Picciotto Fargion, siamo anche in grado di scoprire se riuscirono a tornare vivi oppure no dall’esperienza dei campi di concentramento. Possiamo qui ricordare: Montecorboli Augusto, figlio di Vittorio, deportato ad Auschwitz, Ottolenghi Alessandro, figlio di Ernesto, anche lui deportato e ucciso ad Auschwitz, Pace Giacomo Giacobbe di Leone, deportato ed ucciso ad Auschwtiz. Tra i sottufficiali e i militari di truppa incontriamo nella stessa condizione: Luisada Augusto di Vittorio, deportato ed ucciso all’arrivo ad Auschwtiz, Menasci Raffaello di Enrico, deportato ad Auschwitz e morto a Varsavia, Pesaro Gualtiero di Leone, deportato ad Auschwitz e deceduto in località sconosciuta, Piperno Ernesto di Giuseppe, deportato ad Auschwitz, deceduto in località sconosciuta, Tedeschi Gino di Moisé, deportato e deceduto ad Auschwitz. In tutto otto soldati ai quali non servì per scampare alla deportazione, aver combattuto per l’Italia.

Questo elemento aggiunge tragedia a tragedia. Perché non solo la Grande Guerra fu un massacro per tutti e ovunque, ma per la minoranza ebraica essere partiti volontari come fu nella maggior parte dei casi, aver combattuto, aver ottenuto riconoscimenti al valor militare, non costituì  alcun motivo  per salvarsi la vita nel momento più tragico della persecuzione poiché si trovarono di fronte ad uno Stato fascista e smemorato.




“Una indifferenza in politica non è concepibile”

Con le riconquistate libertà il popolo torna infine ad avere il diritto di esprimersi, di denunciare le vere cause delle proprie sofferenze e di suggerire quei rimedi tendenti a migliorare una situazione oltremodo grave”. Come sottolineano queste parole scritte su “La Martinella” del 10 settembre 1944, numero unico dei socialisti senesi, che nel titolo si richiamano al loro periodico pubblicato fra il 1896 e il 1915, la ripresa e la diffusione legale, di una stampa libera e democratica è uno dei segni dell’avvento di una nuova fase nella storia del paese, ancora segnato dalle rovine lasciate dalla guerra e dal regime fascista, ma pronto ad aprirsi alle speranze connesse alla liberazione.

Il biennio 1944-’46 costituisce una fase cruciale negli snodi delle vicende nazionali, un momento di peculiare impegno e sfida per le forze politiche e per le rinate istituzioni per ricostruire non solo materialmente il Paese, ma anche moralmente e civilmente stabilendo i principi democratici su cui fondare la convivenza civile, una rinnovata concezione di cittadinanza.
Proprio i giornali sono così una fonte significativa per cogliere il difficile processo con cui le diverse forze politiche cercano di comunicare e diffondere regole e principi di una convivenza civile, provano a operare i primi passi di una “rieducazione” alla democrazia degli italiani. Si tratta di un processo dialettico complesso e dagli esiti incerti, tra questa volontà e le strategie con cui ogni singolo partito cerca di affermare se stesso nel consenso popolare. Tuttavia, pur di fronte alle rovine lasciate dal fascismo e dalla guerra, in un contesto di nuove emergenze, aggravate da un clima di diffusa abitudine alla violenza e all’illegalità e dalle alle tragiche eredità e consuetudini del “fare politica” sotto il fascismo, le forze antifasciste seppero esprimere un linguaggio comune, un medesimo impegno per educare gli italiani alla democrazia, fondato sul valore della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, la sottolineatura dell’importanza del voto, il rifiuto della violenza, l’invito al rispetto della legalità, il riconoscimento del valore identitario della Resistenza.

La Toscana mostra in questi anni un tessuto particolarmente favorevole alla costruzione di una nuova identità democratica e nazionale che trova espressione nell’opera del Comitato Toscano di Liberazione nazionale (CTLN) che aveva guidato la Resistenza e la Liberazione di Firenze, delle tante giunte dei CLN locali, nei partiti, nelle nascenti strutture del sindacato e dell’associazionismo, come emerge dalla lettura di una stampa particolarmente ricca e varia che, dopo la fine della guerra nella primavera del ’45, pur nella pluralità delle linee espresse, mostra sulle proprie pagine un’attenzione costante all’educazione democratica dei cittadini.
Su periodico azionista “Non mollare” del 2 novembre del ’45, Tristano Codignola scrive infatti: serve “un metodo di educazione di lento travaglio, di ripensamento e rifacimento di molti dei nostri istituti e caratteri fondamentali di popolo, di ricostruzione degli spiriti e delle cose. […] Questa strada è quella, come dicevo dianzi, della rivoluzione democratica, della ricostruzione, anzi della costruzione degli istituti della democrazia in un paese – e per questo è una rivoluzione – che democratico non fu mai”. Il fiorentino “L’azione comunista” dichiara: “i comunisti vogliono oggi che si realizzino le condizioni elementari della democrazia italiana e vorranno domani lavorare per il progresso costante di questa democrazia” (28 ottobre 1945). Il periodico della DC fiorentina “Il popolo libero” indica come compito principale “educare il nostro popolo a pensare ed acquisire con ciò consapevolezza dei propri doveri e diritti” (16 novembre ’45). Nel “dovere della partecipazione politica e dell’interesse alla cosa pubblica”, dietro cui coglie l’antica lezione mazziniana, “La Voce del Popolo” periodico della sezione del Pri fiorentino individua l’unico strumento per migliorare le coscienze individuali ed affrontare e risolvere la miseria e le distruzioni che attanagliano il paese (10 marzo 1946).

La legittimazione della prassi elettorale è una componente essenziale del processo di concreta educazione alla democrazia che questi periodici portano avanti, un punto comune, e non scontato, in cui tutti si riconoscono. Si legge sul giornale della DC fiorentina “Il popolo libero”: “Quello che urge quindi è proprio questa rieducazione del popolo, questo interessarlo ai problemi politici, questa preparazione alla sua partecipazione elettorale. Bisogna convincerlo che il voto non è da considerarsi come un diritto più o meno rinunciabile ma come un dovere. […] Perché una indifferenza in politica non è concepibile” (5 ottobre 1945); “La Difesa”, periodico socialista, sottolinea le difficoltà dopo il Ventennio fascista: “da oltre un ventennio in Italia non si facevano più le libere consultazioni popolari, qualche generazione d’Italiani non conosce neppure i vari sistemi elettorali ed alcuni ignorano perfino l’importanza e l’alto significato che in questo momento assume da parte del cittadino l’esercizio del voto. Questa pratica di uno dei più importanti diritti che competono ai cittadini della democrazia era stata nel ventennio fascista, non solo soppressa, ma addirittura resa impopolare.” (6 febbraio 1946). Anche la stampa liberale esalta il ritorno al voto: “torna il giorno in cui potremo tornare alle urne, rivestiti dalla nostra dignità, ed introdurre una scheda che sarà soltanto l’espressione delle nostre libere convinzioni” (“L’Ombrone“, 24 gennaio’46). Per i comunisti il momento elettorale segna il compimento del processo iniziato con la lotta di liberazione dal nazifascismo: “Il popolo italiano ingaggiò la lotta contro il fascismo non solo per distruggere tutte quelle brutture che aveva generato e per cancellare l’onta della schiavitù, ma per risorgere a nuova vita, […e] duramente combattendo, ha vinto la prima fase della lotta – quella armata- ma non ha ancora vinto quella legale.” (“L’azione comunista” 6 aprile 1946). In numerosi articoli, i periodici di tutti i partiti dal liberale “La provincia”, al “Popolo libero” democristiano, a quelli socialisti, si dilungano in accurate spiegazioni delle modalità del voto, descrivendo con certosina precisione tutti i passaggi che l’elettore deve fare dall’ingresso nel seggio elettorale all’inserimento delle schede nelle urne, con la riconsegna delle matite copiative, certo in primo luogo per evitare errori che possano compromettere il voto alle proprie liste (“Popolo libero”, 6 febbraio ’46), ma allo stesso tempo diffondendo e consolidando fra la popolazione le prassi e i riti del meccanismo elettorale dopo ventennale assenza.

Quest’opera di educazione alla convivenza e di definizione di una nuova cittadinanza fondata sui principi democratici è importante perché non si limita al solo momento elettorale, ma è parte di un impegno a consolidare le basi delle nuove istituzioni e della convivenza ristabilita mostrando l’importanza dei partiti e l’opera delle amministrazioni locali per il processo della ricostruzione e per la vita della comunità, così si sottolinea che “Funzione dei partiti è quella di destare i dormienti, di chiamarli alla lotta politica, interessarli ai problemi sociali, è quella di dar loro coscienza e volontà di cittadini” (“La Nazione del Popolo” suppl. a cura PSIUP del 1 luglio ’45).
Infine, in questa fase, nel contesto toscano non si può non notare che, pur con accenti diversi da parte dei vari partiti, la Resistenza è l’elemento di comune legittimazione, tanto che, per esempio, il periodico fiorentino della DC dichiara che “i CLN hanno scritto nella storia d’Italia una pagina che non dovrà essere rinnegata” (“Il popolo libero” 5 ottobre ’45) tanto da divenire fattore costitutivo dell’identità regionale, nonostante la durezza della contrapposizione politica ed ideologica che si innesta rapidamente con l’incipiente “guerra fredda” e l’azione di delegittimazione svolta dalle forze qualunquiste già nella seconda metà del ’45, e il riferimento ideale che conferisce senso e prospettiva allo stesso processo di educazione alla democrazia, quale sistema di valori su cui fondare la ricostruzione del Paese.




Probiviri per gli operai pratesi

Il terzo Collegio dei probiviri per le industrie tessili con sede in Prato fu istituito sulla carta nel 1898, ma si costituì realmente soltanto nel 1900: si trattava di un organismo paritetico, cioè formato da un egual numero di rappresentanti degli operai e degli industriali (inizialmente dieci in tutto, poi venti), la cui giurisdizione comprendeva il territorio del comune di Prato (in seguito essa venne estesa anche al territorio dei comuni di Vernio e di Cantagallo, venendo così a coprire l’intera Val di Bisenzio).

L’istituzione del terzo Collegio ebbe luogo all’interno di una fase di espansione dell’economia cittadina, favorita dalla svolta protezionistica del 1887, e di crescita del movimento operaio, quando la città era già stata più volte teatro di scioperi e di agitazioni (il primo sciopero di un certo rilievo si era verificato nel 1891 al Fabbricone).

In un momento in cui la tensione sociale si acuiva, l’istituzione del Collegio dei probiviri fu accolta con un certo favore tanto dai lavoratori quanto dagli industriali (nel 1897 erano sorte la Camera del lavoro e l’Associazione industriale e commerciale dell’arte della lana, anticipazione dell’Unione fra gli industriali pratesi, ed entrambe guardavano con simpatia all’arbitrato come strumento per appianare le controversie di lavoro).

Gli operai vedevano nei collegi un mezzo per contrastare lo strapotere padronale all’interno delle fabbriche, gli imprenditori scorgevano nell’istituto probivirale la possibilità di ridurre la conflittualità sindacale, tramite l’accoglimento di alcune richieste di singoli operai (non degli operai come classe), e, molto probabilmente, accarezzavano anche la speranza di poterlo utilizzare per dividere i lavoratori staccandoli dal sindacato: questa idea era stata esplicitamente formulata da un politico conservatore come Sidney Sonnino nel 1892, nel corso del dibattito parlamentare che aveva portato all’approvazione della legge istitutiva dei collegi, entrata in vigore l’anno successivo.

Di particolare interesse è l’analisi del complesso delle sentenze emanate dal Collegio dei probiviri per le industrie tessili fra il 1902 ed il 1914, cioè in un periodo che viene in pratica a coincidere con l’età giolittiana.

La scelta è motivata dal fatto che l’età giolittiana fu, per così dire, il periodo d’oro dell’istituto probivirale. Giolitti era infatti consapevole che il movimento operaio non poteva essere affrontato soltanto con la repressione, e che la via da seguire era quella del confronto politico col Partito socialista e con le organizzazioni sindacali. Il suo intento era insomma quello di realizzare “un programma di difesa delle istituzioni borghesi fondato su una accentuazione del carattere liberale dello Stato” [Massimo L. Salvadori, Storia dell’età contemporanea dalla Restaurazione all’eurocomunismo, Torino, Loescher, 1976, p. 454]: è evidente che, nell’ambito di tale disegno, anche ai collegi dei probiviri poteva essere attribuito un ruolo non secondario.

L’esperimento giolittiano andò però a cozzare contro la svolta in senso rivoluzionario dei socialisti dopo la guerra di Libia, contro l’agitazione antidemocratica dei nazionalisti e contro l’accresciuto peso dei cattolici nella vita politica. Il suo esaurirsi coincise con la fine della prospettiva riformista che Giolitti aveva incarnato e, quindi, anche dell’esperienza probivirale, che a tale prospettiva era chiaramente legata: le novità normative intervenute durante la grande guerra incisero profondamente sul funzionamento dei collegi, chiudendone definitivamente la stagione.

Nel periodo preso in esame la giuria del terzo Collegio dei probiviri pronunciò 82 sentenze definitive, che posero fine a controversie originate, il più delle volte, dal licenziamento del lavoratore. Nella stragrande maggioranza dei casi (76 su 82 pari al 92,68%) l’attore fu dunque l’operaio. La cosa non deve stupire più di tanto, ove si pensi alla frequenza con cui la parte datoriale ricorreva all’arma del licenziamento ed alle dure condizioni di lavoro che esistevano negli stabilimenti.

Le ditte che più spesso vennero convenute furono il Fabbricone, la Ditta Alceste Cangioli e la Ditta A. e G. di Beniamino Forti, vale a dire le due ditte più importanti della città (il Fabbricone e la «Forti») più una ditta di rilevanti dimensioni (Cangioli): ciò a causa dell’organizzazione del lavoro vigente all’interno delle fabbriche più grandi ed al fatto che in esse la gestione dei rapporti con i dipendenti era più problematica che nelle aziende medio-piccole.

Nel corso della sua attività la giuria del terzo Collegio ebbe modo di fissare alcuni importanti principi, in primo luogo in materia di licenziamenti: con le sue pronunce essa limitò infatti la facoltà del padronato di ricorrere al licenziamento in tronco (ammissibile solo in alcuni casi, chiaramente indicati, mentre in tutti gli altri il licenziamento del lavoratore era possibile solo se veniva pronunciata la formula di rito, dato il preavviso voluto dalla consuetudine e rispettato l’obbligo di motivazione, fermo restando che i motivi addotti dovevano essere poi riconosciuti validi dai probiviri).

Interessanti sono anche altre sentenze, come ad esempio quella che richiamò le singole ditte al rispetto degli impegni assunti verso gli operai dall’organizzazione di parte datoriale a nome di tutti i soci, quella che riconobbe il diritto dei cottimisti a domicilio, molto numerosi nella Prato dell’epoca, di rivolgersi ai probiviri, quella che sancì la prevalenza della consuetudine (in genere favorevole all’operaio) sui regolamenti di fabbrica e così via.

La giurisprudenza probivirale fu invece piuttosto oscillante in ordine al tema, di fondamentale importanza, della salute dei lavoratori: il Collegio, infatti, dopo aver condannato nel 1904 il Fabbricone a risarcire un operaio che era stato costretto a tornare al lavoro quando le sue condizioni fisiche non glielo permettevano, si smentì parzialmente con tre pronunce risalenti al 1908, nelle quali dimostrò scarsa sensibilità verso le ragioni dei lavoratori.

Se si prende in considerazione l’esito delle cause, le pronunce della giuria sembrano abbastanza equilibrate, sia pure con una prevalenza di quelle a favore dei datori di lavoro, che risultarono essere la parte vittoriosa in 45 casi (pari al 54,88%), mentre gli operai ebbero la meglio in 37 casi (pari al 45,12%).

Ma ciò che più importa sottolineare è che la speranza di contenere la lotta di classe attraverso l’istituto dei probiviri si rivelò del tutto infondata: il terzo Collegio operò infatti in una fase storica durante la quale il movimento dei lavoratori conobbe un forte sviluppo ed il numero degli scioperi, tanto a livello nazionale quanto a livello locale, andò aumentando, a riprova del fatto che solo la classe operaia, con le sue lotte (cioè con vertenze collettive e non individuali), può difendere ed allargare i propri diritti.

Dopo la fine della prima guerra mondiale la tensione sociale raggiunse il culmine e la borghesia, deposta ogni illusione conciliativa, non esitò a puntare sul fascismo per conservare i suoi privilegi.