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Roccastrada 1921. Un paese a ferro e fuoco

* Il 1921: lo squadrismo alla conquista della Maremma

La Toscana è annoverata tra le regioni chiave per comprendere la nascita del fascismo, che com’è noto prese forma nei tre anni che precedettero la marcia su Roma del 1922. Il 1921, in particolare, rappresentò per la Maremma come per le altre zone della regione, il momento culminante del fenomeno squadrista, che del fascismo movimento politico fu il braccio armato: a partire dall’assassinio a febbraio del 1921 del sindacalista comunista Spartaco Lavagnini, le violenze degli squadristi, irradiandosi da Firenze, si susseguirono feroci in tutta la Toscana; vi si distinsero molti “avventurieri” fiorentini, fondatori dei primi fasci nelle province di Arezzo, Siena, Livorno e Grosseto (primo in provincia di Grosseto fu presumibilmente quello di Ravi nel novembre 1920). 

etruriaI fascisti “forestieri” circolavano in regione per dare coraggio agli elementi locali, ma soprattutto per suscitare disordini che potessero costituire quella “provocazione” necessaria come pretesto per una sistematica campagna di occupazione del territorio (che via via veniva indicato come da “purificare”, “spurgare”, “bonificare”). La modalità di azione degli squadristi era quella delle cosiddette “spedizioni punitive”, che miravano alla devastazione delle sedi e dei luoghi di aggregazione dei partiti (principalmente il Partito socialista) e alla intimidazione degli avversari politici. Una modalità che descrive perfettamente la violenza fascista che si scatenò sulla città di Grosseto fra il 27 e il 30 giugno 1921, su Orbetello il 10 luglio e su Roccastrada il 24.

Dino Perrone Compagni

«A Civitavecchia tuona il cannone. L’Umbria è in fiamme. In tanti altri paesi divampa la guerra civile. Dopo la disfatta elettorale il fascismo grida: “Ora viene il bello!”» si legge su “Il Risveglio”, settimanale socialista maremmano, nel maggio del 19211. Anche in Maremma, nella primavera del 1921, le “gite di propaganda” si susseguirono ai margini della provincia (una prima di fascisti senesi colpì Monterotondo, Montieri, Gerfalco e Travale, mentre una spedizione guidata dall’empolese Romboli fu organizzata a Santa Fiora e Bagnore). Il capoluogo veniva progressivamente accerchiato, prossimo obiettivo predestinato: fu nella seconda metà di giugno che il marchese Dino Perrone Compagni, segretario politico del fascio di Firenze, preparò la “conquista” di Grosseto con l’invio di “13 pellacce” (fra cui il famigerato squadrista Dino Castellani), a cui si unirono immediatamente altri fascisti fiorentini, provenienti da Foiano della Chiana e già alloggiati in città presso l’Hotel Bastiani.

Dal diario di uno squadrista toscano, Mario Piazzesi, che partecipò a quella prima incursione si legge

si sarebbe andati nella città tabù, che se da Carrara a Perugia, da Spezia alla Romagna Toscana, le piane e i monti erano stati arati in lungo e in largo dalle nostre scorribande, Grosseto piantata lì in mezzo alle paludi, in quella Maremma che sembrava rimasta ai tempi di Gasparone, era o almeno appariva intangibile. E tutti rossi nella piana malarica: rosso il comune, rossa la provincia, rossi i combattenti, i repubblicani più spinti degli stessi comunisti”2.

Squadristi grossetani (fonte: La Maremma, numero sul ventennale della fondazione dei fasci di combattimento)

Il 27 giugno 1921, si ebbero i primi scontri a Grosseto tra gli squadristi e i “sovversivi” locali, ma fu con l’arrivo dei rinforzi, che conversero da tutta la Toscana, e con la morte in uno scontro individuale di un fascista, il giovane senese Rino Daus, che Grosseto diventò un vero e proprio campo di battaglia: circa 700 camicie nere devastarono non soltanto le sedi del partito socialista, comunista e repubblicano, insieme alla Camera del Lavoro e alla Lega dei Terrazzieri, ma anche luoghi di ritrovo dei “sovversivi” e la tipografia de “Il Risveglio” (un fatto eclatante, quest’ultimo, che costrinse da quel momento i socialisti grossetani a organizzare i propri mezzi di diffusione fuori dalla Maremma)3. Furono presi di mira i “rossi” più noti, dispensate per strada bastonature e olio di ricino. Seguì una surreale scena: in una città ormai terrorizzata, Dino Castellani costrinse all’esposizione del tricolore dalle finestre e, “in espiazione dei misfatti rossi”, fece inginocchiare le camicie nere e la popolazione cittadina in Piazza del Duomo in un’imponente manifestazione in onore di Rino Daus4. Vi furono vittime e numerosi feriti, prima che i fascisti ripartissero, non mancando di provocare incidenti sulla via del ritorno a Roccastrada, Montorsaio, Sasso d’Ombrone e Scansano. A quei fatti seguì qualche giorno dopo l’analoga “conquista” di Orbetello.

** La strage di Roccastrada del 24 luglio 1921

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

Archivio Niosi, Panorama di Roccastrada

Culmine di quell’estate di sangue, però, fu l’efferata strage di Roccastrada. La spedizione squadrista del 24 luglio sul paese è un esempio chiaro di quell’inedito tipo di operazioni che definiscono le fasi iniziali della presa di potere da parte del fascismo: incursione in camion di gruppi di squadristi, provenienti anche da località distanti, che si concentrano nei diversi paesi per devastarne i luoghi simbolo e colpire le case dei “bolscevichi”, tentando la conquista delle amministrazioni “rosse”. Una spedizione punitiva contro obiettivi precisi, in questo caso contro la Roccastrada “roccaforte rossa”, e in primis contro il suo sindaco socialista Natale Bastiani.

Il piccolo Comune delle Colline metallifere era stato oggetto dell'”attenzione” fascista già nell’aprile del 1921: contro il paese si appuntavano infatti da tempo le ire dell’Agraria e degli elementi fascisti, che avevano accolto con sdegno il successo elettorale clamoroso registrato dal partito socialista alle elezioni amministrative del 1920. Bersaglio diretto fu proprio l’amministrazione comunale, nella figura del sindaco Natale Bastiani, che nell’aprile del 1921 aveva ricevuto una prima intimidazione dal segretario politico di Firenze dei fasci di combattimento, Dino Perrone Compagni: in un telegramma, altezzoso e irridente, questi pretendeva da Bastiani le dimissioni, pena l’assumersi, “in caso contrario, ogni responsabilità di cose e di persone”5.

Dante Nativi

Dante Nativi

Per comprendere la vicenda è utile tornare ai fatti che nell’ottobre del 1920 avevano insanguinato il vicino Comune di Civitella Marittima. Lì si trovava la villa dell’agrario Ferdinando Pierazzi, possidente terriero che in Maremma era stato uno dei pochi a rifiutare la rinegoziazione dei patti colonici negli anni dei moti contadini e che diventerà in seguito uno dei principali esponenti del fascismo provinciale. La contrapposizione fra Pierazzi e la Cooperativa agricola di produzione e consumo di Roccastrada, guidata dal socialista Dante Nativi, aveva portato nel 1920, per un sopruso a danno di un mezzadro, a un moto popolare cui aveva preso parte anche il sindaco roccastradino Bastiani; nell’interpretazione dei giornali moderati, proprio Bastiani era stato individuato come l’istigatore e quindi il responsabile di un assalto alla villa che veniva letto come preterintezionale, ma che invece era specchio di una situazione sociale incandescente6.

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

Archivio Niosi, Via Nazionale con il Palazzo del Comune, Roccastrada

Roccastrada, la cui tradizione repubblicana era stata definitivamente soppiantata nel 1920 con il voto amministrativo a favore dei socialisti, aveva vissuto nel dopoguerra trasformazioni importanti, legate proprio alla mobilitazione per le lotte operaie e contadine, e una conseguente politicizzazione della popolazione7. Ad esempio, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 1921, che a Roccastrada porteranno un consistente numero di voti ai comunisti, il comizio improvvisato di un candidato del fascio di difesa nazionale era stato interrotto da un gruppo di giovani che avevano intonato “Bandiera Rossa” e poi l’oratore era stato colpito da una bastonata alle spalle8. Un piccolo precedente che aveva esacerbato il rancore dei fascisti verso il paese, a cui si deve aggiungere l’ira derivata dai colpi di fucile sparati lungo la strada (nei pressi della frazione di Torniella) contro la salma dello squadrista Rino Daus, morto negli scontri di Grosseto, durante il ritorno dei fascisti senesi dalla spedizione punitiva su Grosseto. L’indomani, il primo luglio, Roccastrada fu oggetto di un primo attacco fascista che devastò le case dei “sovversivi” del paese e rese più attuale il timore che gli squadristi sarebbero ritornati: sia da parte della popolazione9, sia da parte dello stesso prefetto di Grosseto che in un telegramma al ministro dell’Interno del 15 luglio esplicitava le proprie preoccupazioni al riguardo, “tralasciando però di prendere, secondo quelli che erano i suoi poteri, la benché minima misura precauzionale”10.

ordine nuovoA quella prima incursione seguì la spedizione punitiva del 24 luglio, ben diversa per organizzazione e forze impiegate: all’alba 60 squadristi armati di tutto punto, guidati dal famigerato Dino Castellani, arrivarono in camion in paese e devastarono sistematicamente le case del Sindaco, degli assessori e del presidente della Cooperativa di consumo. Si scagliarono contro l’orologeria del comunista Ferdinando Tagliaferri e il bar dell’anarchico Davide Bartaletti. Bastonarono ed inseguirono vari cittadini identificati come “sovversivi” a colpi di revolver, ferendone gravemente alcuni. Quattro ore e mezzo dopo, ubriachi, i fascisti ripartirono alla volta delle frazioni di Sassofortino, Roccatederighi e Montemassi, per continuare la cosiddetta “gita di propaganda”.

All’uscita dal paese, però, un colpo esploso, probabilmente accidentalmente dallo stesso camion su cui viaggiava, uccise il giovane squadrista Ivo Saletti. I fascisti gridarono all’assassinio, ipotizzando un agguato comunista (di cui la sentenza emersa dal processo del dopoguerra stabilì che non esistevano prove), e rientrarono in paese per vendicare il camerata ucciso. Rimasero vittime della violenza cieca 10 roccastradini (Tommaso Bartaletti e suo figlio Guido, Antonio Fabbri, Giuseppe Regoli, Francesco Minoccheri, Ezio Checcucci, Luigi Nativi, Angelo Barni, Vincenzo Tacconi, Giovanni Gori), mentre numerosi furono i feriti e i danni a case e negozi, messi a ferro e fuoco. Infine dopo ore i fascisti lasciarono il paese, scortati da un camion di 30 carabinieri giunti da Siena dopo la strage per dare rinforzo a quelli di Roccastrada, rimasti chiusi “precauzionalmente” nella Caserma in attesa.

Sull’inerzia dei carabinieri si appuntò l’inchiesta aperta dall’Ispettore di Pubblica Sicurezza Alfredo Paolella, che era stato inviato in provincia per garantire l’ordine pubblico e indagare sui fatti di Grosseto. Paolella parlerà inizialmente di un’azione dei carabinieri che a Roccastrada “non è apparsa sufficientemente sollecita ed energica“, in seguito protesterà apertamente non soltanto per il mancato intervento ma anche per la “deplorevole” mancata identificazione dei fascisti responsabili: nella relazione al ministro dell’Interno del 4 agosto successivo, Paolella espliciterà il malumore dovuto al fatto che

per l’eccidio di Roccastrada, dovuto a un’accozzaglia di giovinastri briachi di liquori e di sangue, condotti da un mercenario violento, i mandati di cattura furono spiccati dopo non poca titubanza e solo in seguito alle mie formali dettagliate e insistenti denunzie”11.

ivo saletti

Ivo Saletti

Di fatto, due giorni dopo, mentre i funerali partecipatissimi delle vittime roccastradine si svolgevano quasi in forma dimessa, senza simboli o discorsi politici, a Grosseto il corteo funebre di Ivo Saletti vedeva la partecipazione di migliaia di persone, accompagnate dalla banda musicale; vi presero parte numerose rappresentanze dei fasci toscani, l’on. Aldi Mai, presidente dell’Associazione Agraria maremmana, e lo stesso Dino Castellani, che, ancora libero di circolare, poté persino tenere il discorso commemorativo del “martire” Saletti12, avviando anche per lo squadrista grossetano quel processo di “beatificazione” che già era in corso per il senese Rino Daus.

*** Una vicenda dimenticata?

Forte fu l’immediato risalto sulla stampa nazionale e locale, caratterizzato da un’insieme di ricostruzioni e interpretazioni diverse e contrastanti, spesso intrecciate con accuse reciproche di falsità e ipocrisia (soprattutto in merito alla morte, accidentale o meno, di Ivo Saletti)13. La dinamica dei fatti raccontata dalle pagine de “L’Ordine nuovo” o de “L’Avanti!”, con quell’infierire degli squadristi ubriachi su cittadini inermi (non “sovversivi” come inizialmente era stato detto), la resero via via fatto poco edificante per lo stesso fascismo: nonostante alcuni giornali tentassero di inserire la narrazione dei fatti di Roccastrada fra quelli che avevano portato alla gloriosa “rigenerazione della Maremma” ad opera del fascismo, quindi, la strage di Roccastrada venne sempre più raramente rammentata e fu progressivamente rimossa anche dalla memoria fascista della “conquista” del territorio maremmano, eccezion fatta per la figura del “martire” Ivo Saletti.

Dopo la firma del patto di pacificazione fra fascisti e socialisti del 3 agosto, lo stesso Mussolini, del resto, parlò dei fatti di Roccastrada in un’intervista a “Il Resto del Carlino” come di uno di quegli episodi che fecero “impallidire” un po’ “la stella del fascismo14. Chiurco, nella sua “Storia della rivoluzione fascista”, tenterà ancora successivamente di presentarla come una reazione alle violenze “rosse”, scrivendo quasi a giustificazione che si trattò di “inesorabili” rappresaglie, scaturite da una vera e propria battaglia che si era diffusa per tutte le vie del paese, e precisando che “gli squadristi erano già esasperati per gli inenarrabili strazi subiti dai fascisti a Sarzana“. La strage di Roccastrada, in effetti, si spiega solo se inserita non soltanto nel più ampio contesto provinciale, ricollegandola a quel processo di espansione del fascismo maremmano che ha luogo nell’estate del 1921, ma anche in riferimento al più ampio contesto regionale e al clima instauratosi in Toscana dopo gli eventi avvenuti pochi giorni prima a Sarzana. Da non tralasciare, però, il rilievo nazionale di questo evento, che fece profonda impressione in un momento in cui era in corso la trattativa sul patto di pacificazione tra fascisti e socialisti e, all’interno del movimento fascista, la crisi determinata dallo scollamento fra l’ala militare e la dirigenza politica.

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

Archivio Niosi, Fascisti del fascio di combattimento di Roccastrada, anni Venti/Trenta

Ciò, ovviamente, in aggiunta ai diversi nodi di interesse per quel che riguarda la storia della comunità in cui la strage avviene e in cui segna un punto di rottura drammatico con la tradizione politica precedente del Comune e del territorio. Quella sulla strage di Roccastrada e sulle complessive violenze squadriste del 1921 in Maremma è quindi un’operazione di recupero della memoria di un periodo fondamentale anche per la storia locale, ancora poco studiato e (forse) anche poco noto, ma che segnò l’inizio di un periodo di “assenza dell’autorità” sul territorio. A quei fatti seguirono la sospensione delle sedute e delle attività, poi le dimissioni di gran parte dei Consigli comunali socialisti della provincia; un punto di non ritorno verso il commissariamento prefettizio dei Comuni che preclude alla riforma podestarile fascista.

Da quel momento in poi la situazione locale per i “sovversivi” si fece complessa e incerta; i più conosciuti lasciarono il paese, e a volte la provincia, come ad esempio Dante Nativi, che si rifugerà da quel momento in Francia; chi rimase fu costretto al silenzio. 

Nel mese di ottobre fu inaugurato il gagliardetto del fascio a Roccastrada con un’imponente manifestazione; a novembre “L’Ombrone”, giornale ormai entrato nell’orbita fascista, ammoniva gli avversari sconfitti: “qui è bene che vi ricordiate che non fa più aria per voi (lettera minuscola) e che Roccastrada è ora Italiana di Fede, gentile di concetto, umanitaria di sentimenti a dispetto di tutti i farabutti social-comunisti15. Roccastrada era entrata negli anni più bui della sua storia.


NOTE:
1 “Il Risveglio”, 22 maggio 1921.
2 Mario Piazzesi, Diario di uno squadrista toscano: 1919-1922, Società Editrice Barbarossa, Milano 2010.
3 Aristeo Banchi (Ganna), Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura di Fausto Bucci e Rodolfo Bugiani, Arci, Grosseto 1993.
4 Giorgio Alberto Chiurco, Storia della rivoluzione squadrista, Vol. I – La preparazione, Le Edizioni del Borghese, Milano 1972.
5 Molto noto per la diffusione che ne diede Gaetano Salvemini nelle sue “Lezioni di Harward”, il testo del telegramma è riportato in Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo (Bari 1965) e recentemente anche nel volume di Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, Mondadori, Milano 2003.
6 Hubert Corsi, Le origini del fascismo nel grossetano (1919-1922), Edizioni Cinque Lune, Roma 1973.
7 Per una cronologia delle lotte operaie e contadine in Maremma dal maggio 1919 al maggio 1921, cfr. Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, Pagnini e Martinelli editore, Firenze 2000, pp. 270-273.
8 Franco Dominici, Roccastrada 24 luglio 1921: cronaca di una strage, in Franco Dominici, Giulietto Betti, Fascismo, Resistenza e altre storie in Maremma, Effigi, Arcidosso 2020.
9 Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Edizioni “Avanti”, Roma 1963.
10 Maria Clotilde Angelini, I fatti di Roccastrada, in Nicla Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazi-fascismo, La Commerciale, Grosseto 1985.
11 “Conflitti a Grosseto e provincia”, Rapporto dell’Ispettore di P.S. Alfredo Paolella al Ministro dell’Interno, 4 agosto 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
12 Telegramma del Prefetto Rocco alla Direzione generale di PS, 26 luglio 1921, in ACS, MI, DGPS 1921, b. 98.
13 Rassegna stampa esaustiva è presente in Ilario Rosati, Roccastrada-Roccatederighi nella storia d’Italia 1898-1915-1921, cit.
14 “Il Resto del Carlino”, 3 agosto 1921.
15 Le onoranze in Provincia al Milite Ignoto, in “L’Ombrone”, 13 novembre 1921, n. 35.



Il solstizio delle stragi. Bucine, Giugno 1944.

San Pancrazio
“Si vide per l’ultima volta il babbo che ci guardò in silenzio…”. Quanti strati di ricordo si snodano pensando a eventi tragici che hanno lasciato tracce profonde, insieme a veloci dimenticanze. Quella frase è parte della testimonianza di Romano Moretti, nato nel 1932, che all’epoca aveva 12 anni e che con la mamma cercava di andare via da San Pancrazio, per raggiungere case solidali nella campagna aperta. Il babbo di Romano di lì a poco sarebbe stato trucidato con un colpo di pistola alla nuca. Si chiamava Renato Moretti, 33 anni, di professione operaio. Era il 29 giugno del 1944. Un giorno indimenticabile per chi visse le stragi di Civitella e di San Pancrazio nei due comuni di Bucine e di Civitella della Chiana. E anche per me che feci in quei luoghi, nel 1944, a 50 anni dalla strage, una ricerca sul campo e dove conobbi i portatori del ricordo, i testimoni di quelle giornate di fuoco e di sangue. Mi resi conto allora che il 29 giugno del 1944 io avevo due anni e vivevo altrove, sfollato con la famiglia in un paese della Sardegna centrale. Questi pochi dati mi hanno fatto sentire in colpa per il privilegio di essere così lontano ma, allo stesso tempo, anche così vicino perché i giorni di quelle stragi sono anche i giorni del mio compleanno che cade il 27 e del mio onomastico che cade il 29.

La testimonianza di Romano Moretti su suo padre è a pagina 236 del suo libro Il giorno di San Pietro. L’eccidio di San Pancrazio (le memorie e la storia). Il bambino dodicenne, divenuto orfano, segnato per sempre dalla strage, si è fatto storico ed ha dedicato la sua vita, tra maturità e pensione, a raccogliere testimonianze e documenti. Il libro ha come esergo: A mio padre e ai suoi compagni. Sul libro che io posseggo è scritto a mano: Al Prof. Pietro Clemente con la mia stima Romano Moretti. Il libro è uscito nel 2005 e lui me lo donò in occasione di un incontro a San Pancrazio per una iniziativa di Porto Franco e dell’Istituto Ernesto De Martino. In quella occasione fummo ospitati proprio nel palazzo dove la strage era avvenuta. Dove ora c’è un museo. Essere in quello spazio mi toccò molto. Gli spazi, secondo me, restano abitati dai ricordi anche se per lo più si fa come se non fossero altro che muri. Penso ora anche a quegli ospedali psichiatrici dove non è rimasta traccia di memoria delle vite consumate al loro interno.

Incontrai una prima volta Romano Moretti tra Civitella e San Pancrazio per la nostra ricerca del 1994. La ricerca era diretta dallo storico Leonardo Paggi e comprendeva un ampio gruppo di studenti e laureati antropologi di Arezzo (docente Carla Bianco), di Roma (docente Pietro Clemente) e un piccolo gruppo di Siena dove avevo insegnato fino al 1990. La ricerca storica era fortemente rappresentata dal coordinatore Leonardo Paggi e da Giovanni Contini, storico orale, responsabile del settore fonti orali nella Soprintendenza archivistica per la Toscana. Giovanni fu il primo a pubblicare un’opera d’insieme che ebbe grande rilievo e aprì forti discussioni sul tema che era anche il titolo del suo libro La memoria divisa. Per quanto riguarda la ricerca antropologica, insieme ai miei allievi dell’Università di Roma, venne prodotto un dossier rimasto purtroppo inedito. Il ricordo di Civitella fece, in un certo senso, ombra alla strage di San Pancrazio, e fu Civitella ad essere al centro del grande convegno internazionale In Memory al quale anche io avevo lavorato. Il titolo del mio intervento al convegno era Ritorno dall’apocalisse. Un testo molto ‘emozionato’ scaturito dall’esperienza fatta nella raccolta di testimonianze e nell’esperienza di incontro con i sopravvissuti. Un testo che oggi paragono con la fase di uscita dal lockdown dopo la pandemia. In un certo senso oggi è come se fossimo usciti dall’incubo di una strage insensata, che ha colpito esseri umani quasi a caso. Rappresentata dalla visione di camion militari che portano bare anonime per essere cremate. Non per caso, quando ho letto che la pandemia aveva colpito una RSA di Bucine, ho pensato alle stragi. Ma ho anche pensato a quanto è prezioso trasmettere la memoria, e a quanto abbiamo perso della memoria degli anziani nelle stragi delle province lombarde, venete, piemontesi, emiliane.

Di recente Gad Lerner e Laura Gnocchi, con il volume Noi partigiani. Memoriale della resistenza italiana (Feltrinelli 2020) hanno reso evidente la forza di trasmissione e di formazione propria della memoria degli anziani. Anche quando una singola memoria si è logorata e schematizzata, la polifonia è sempre straordinariamente efficace ed ha un forte valore conoscitivo che passa per la narrazione. È un modo diverso di produrre storia. Tutti i 50 testimoni del volume di Lerner e Gnocchi hanno quasi un secolo, età assai gradita al coronavirus, ma ancora ci insegnano, anche per la straordinaria disparità di storie, che la narrazione dell’esperienza è forse l’aspetto più capace di comunicare e dar senso alla pluralità delle resistenze in Italia.

Una storia civile
Di recente ho letto, con grande dispiacere, nella pagina web del Comune di Bucine della morte di Romano Moretti.
“Bucine 11 marzo 2019, è morto nei giorni scorsi Romano Moretti, lo storico che ha dedicato molti anni della sua vita allo studio delle stragi… aveva appena terminato il libro sulle stragi di Cornia e di Civitella, libro che uscirà postumo a cura delle amministrazioni comunali di Bucine e di Civitella. I funerali si sono svolti a San Pancrazio alla presenza dei due sindaci che “hanno ricordato entrambi l’opera di Moretti, come testimonianza di una memoria storica che non può essere cancellata ma va tramandata alle generazioni future”.

Una vita per la memoria. Ma anche una paziente presenza nella comunità, dove Moretti tornava da Firenze a fine settimana o d’estate. Discutemmo a lungo con lui dei problemi della memoria antipartigiana che emergevano soprattutto a Civitella. A noi non fu facile mediare le idee generali sulla Resistenza con le scelte di memoria e di lutto che la comunità di Civitella aveva fatto. Ma l’incontro, l’affratellamento, l’accoglienza delle loro memorie, la comprensione furono le esperienze più importanti del nostro stage, e ci condussero alla condivisone del lutto e della storia di quella comunità. Così potemmo capire il loro disagio, il modo di orientare il loro cordoglio nella critica dei partigiani, mentre non si metteva mai in discussione la Resistenza in quanto tale.

Moretti aveva una idea della storia come completezza dei dati e il suo sforzo fu quello di restituire la voce a tutti i protagonisti, e nel libro su San Pancrazio ha raccolto 139 voci di testimoni. Lo ha fatto con pazienza, tenacia e riserbo, tanto che è solo nel suo libro che io ho conosciuto Moretti bambino che, con la mamma, si allontanava dai luoghi della strage poco prima che suo padre fosse assassinato.

In quegli anni avevo teorizzato che tutti i comuni aprissero uno sportello nell’ambito dei servizi alla persona, dedicato all’ascolto e alla registrazione dei racconti delle persone. Lo avevo chiamato ‘la-storia-a-memoria’. Era l’idea di una connessione profonda tra storia della vita quotidiana delle persone e senso della civitas sia locale che planetaria. Una storia civile. Come quelle che ha prodotto Moretti. Mi sono incontrato spesso con gli studiosi locali, qualche volta sono stato critico verso un sapere prodotto per lo più da passione o con metodi non aggiornati, ma la gran parte delle volte ho imparato da loro. Così è stato con Moretti. Uno degli strati della memoria di cui dicevo all’inizio: ricordare Moretti come caso esemplare di storia civica locale, ricordare che Moretti ricordò la memoria delle stragi più atroci dell’aretino. Ricordare i ricordi, ricordarsi di ricordare.

La Fattoria del Pierangeli
Il Comune di Bucine ha 13 frazioni, quella di San Pancrazio (m.511 s.l.m.) oggi ha 177 abitanti. Lo spazio della comunità è descritto dettagliatamente da tutte le fonti orali sulle stragi: un borgo immerso nella campagna, che aveva al centro la Fattoria del Pierangeli, centro anche di vita economica del sistema di mezzadria, bracciantato e piccola proprietà contadina. Per le vicende della guerra e della Resistenza il Comune di Bucine è medaglia d’oro al valore civile:

“Strenuamente impegnato nella lotta di liberazione, sopportava stoicamente, con il sacrificio di tutti i cittadini, crudeli rappresaglie del nemico invasore; offriva alla causa della Patria la vita di molti suoi figli migliori, mantenendo intatta la fede nei supremi valori di libertà”.

Apro il volumetto, stampato a ciclostile, dai miei alunni romani nel 1994. Erano sette giovani, di cui sei donne che lavorarono su San Pancrazio. Altri studenti invece lavorarono su Civitella. Di quasi tutti ho traccia e memoria. La neolaureata che coordinò il gruppo San Pancrazio era Emanuela Rossi che ora insegna Antropologia culturale all’Università di Firenze.

Ecco un altro nodo della memoria: memoria della ricerca, dell’Università, delle vite e delle storie dei ‘miei’ studenti, che ho spesso ritrovato su Facebook, cercando di sentirli ancora parte di una comunità di studi che era anche incontro umano. Organizzarono per temi le loro ‘fonti orali’: L’evento, Vita nei borri, Giudizi sui partigiani, Il tempo successivo, La commemorazione, Come si viveva allora.

Moretti nel suo libro ha organizzato i fatti per ‘soggetti’ e ‘sequenze’. Noi cercavamo memorie ampie, rappresentazioni e racconti. Discutemmo a lungo sulla gente che viveva nei borri, negli spazi nascosti ricavati nel bosco, con scavi e capanne, dove piovevano obici alleati e proiettili della difesa tedesca. Nei borri erano le donne a gestire la comunità provvisoria, dominata dalla paura e dalla fame. Discutemmo allora del ‘tedesco buono’ che compariva in vari racconti e che è poi diventato quasi una delle ‘figure’ della narrazione della guerra vista dalle popolazioni. Un punto di incontro tra il dato di fatto che diversi tedeschi sul fronte non condividevano la guerra e avevano impulsi umani opposti agli ordini dei loro capi, ma anche il desiderio di lasciare speranza sulla umanità delle persone anche nelle situazioni più terribili. Fecero una buona ricerca i miei allievi. Riguardo i cognomi di coloro che intervistarono. Sono gli stessi (un po’ di meno) delle testimonianze raccolte da Moretti. Ma sono soprattutto cognomi che ripetono la dolorosa lista dei morti: 56 tutti maschi a San Pancrazio secondo Moretti. In gran parte contadini proprietari, in minor misura mezzadri. Sono 67, tutti maschi (perché comprendono anche luoghi vicini) i morti nella “List of the people killed at San Pancrazio” fatta dagli inglesi in una rapida ed efficace istruttoria dei fatti. Questa ultima fonte arrivò fresca fresca dalla ricerca negli archivi del Regno Unito proprio nel 1994. I nomi hanno come centro simbolico il sacerdote Don Giuseppe Torelli, che si offrì al posto degli altri, ma che ottenne soltanto di essere ucciso per primo.

“At San Pancrazio seventy men were rounded up and herded into a room of the Fattoria. Between this room and a second room was a narrow passage. One by one the men were taken from one room to the other, questioned as to their knowledge of Partisans, and those failing to give information were shot dead in the second room by pistol fire. All except seven were shot”.

Il rapporto firmato dal capitano N.E. Middleton ricostruisce anche i nomi dei comandanti responsabili di quella operazione pianificata e coordinata che colpì tanti piccoli centri e i due poli di Civitella centro e di San Pancrazio. Erano tutti appartenenti alle Herman Goering Divisionen.

Le testimonianze raccolte dagli inglesi sono state le memorie di fondazione che furono poi all’origine di quelle che raccogliemmo noi e di quelle che raccolse Moretti. A distanza di 50 anni, trovammo testi molto simili.

È una esperienza intensa il trovarmi ancora, a pochi giorni da un nuovo 29 giugno, che segna anche i miei 78 anni, tra le carte dell’esercito inglese, le voci raccolte dai miei alunni, e la voce di Romano Moretti con il suo piccolo monumento alla memoria e alla storia civile. Rileggo le testimonianze dei miei alunni e sento che sono proprio diventate racconti. Quante volte saranno stati ripetuti, ai nipoti, agli estranei, dopo la prima lunga fase del dolore chiuso e tacito. Hanno assunto il ritmo delle leggende e delle fiabe. Fatti narrabili. Sono diventate tradizione, ma è, facendosi tradizione, che il racconto accede alla trasmissione, e così alle nuove generazioni. Sono le domande meno legate ai singoli avvenimenti a produrre risposte più aperte: com’era la vita, come si mangiava, dove si trovava il cibo, soprattutto i racconti vivacissimi della vita nei ‘borri’ o ‘borrate’ sotto capanne (i ‘capanni’), trincee scavate, nascondigli per cibi e persone. Il paese dei sopravvissuti alla strage era sfollato lì, a pochi chilometri, avendo avuto anche le case incendiate dai tedeschi. Raccontano le contese per il cibo, gli egoismi, le solidarietà. Diamo l’ultima parola a Maria Assunta B., una testimone nata in loco nel 1914 (le temporalità delle generazioni si distendono e si intrecciano: questa testimone aveva 30 anni quando Moretti ne aveva 12 e io ne avevo 2).

Ha raccontato:

“C’erano tanti campi allora c’era tanta roba c’erano patate c’erano fagioli. Noi s’andava pe’ campi a prendelli. Pe’ fare il pane s’era fatto una bella buca nel bosco poi una lastra grande così. Ci si faceva fuoco dentro co’ la legna. Si faceva bollire questa lastra e poi si faceva pe’ quando si fa la farinata. Poi si metteva questo lastrone e veniva un po’ di pagnotta. E si campava, si mangiava fagioli patate, un pochino di pane per uno. Ma si era egoisti sa? Si si perché s’aveva tutti paura di morì di fame, qualcuno avea qualcosina un po’ di prosciutto un po’ di salame. Io non l‘avevo. Avevano un po’ di roba un po’ di ova”.

san pancrazio museo




Storie lontane, echi vicini

C’è Giovanni Bottai, un ex maresciallo dei Carabinieri che muore, anziano, dopo una breve malattia. C’è una vecchia lettera, ritrovata in fondo a una scatola, da cui si capisce che quest’uomo, durante la guerra in servizio a San Marcello Pistoiese, ha fatto qualcosa di terribile e che poi, in seguito all’amnistia, non ha mai scontato la sua pena. C’è Sara, sua nipote, giovane laureanda in filologia, assai legata al nonno e determinata a conoscere la verità su quegli anni ormai lontani. Questo è il punto di partenza per un romanzo, “Echi lontani” (ed. Portoseguro), scritto a quattro mani da Francesca Banchini e Silvia Mannelli, due insegnanti di lettere di una scuola secondaria di primo grado di Pistoia, di cui si parlerà all’ultimo incontro di “Communitas. Conversazioni di prossima cittadinanza”, organizzato dall’ISRT per mercoledì 3 giugno a partire dalle ore 17:00. Durante la conferenza si parlerà di didattica della storia nella scuola secondaria e verranno illustrate alcune proposte laboratoriali, anche con l’intervento della prof.ssa Giulia Barontini, docente di storia.

I personaggi del romanzo sono frutto della fantasia delle scrittrici, così come l’intreccio degli eventi. La vicenda narrata, però, si fonda su un’attenta ricostruzione storica che le autrici hanno condotto. Durante la Seconda Guerra Mondiale, sulla montagna pistoiese, erano presenti alcune famiglie di origine ebraica. Non esisteva una vera e propria comunità di residenti, si trattava piuttosto di famiglie sfollate da altre città italiane, soprattutto da Livorno, in seguito ai bombardamenti degli Alleati, oppure di persone in fuga da Paesi europei soggetti all’occupazione tedesca, giunte nel territorio montano dopo varie vicissitudini. La condizione di queste persone, ovviamente già precaria e difficile, subì un drastico peggioramento in seguito all’emanazione del Decreto Buffarini Guidi il 30 novembre 1943: si ordinava l’immediato arresto degli ebrei che si fossero trovati sul territorio della Repubblica di Salò nonché il sequestro di tutti i loro beni. Anche per le poche famiglie ebree che in quei mesi erano sfollate a Cutigliano, Prunetta e nelle altre località della montagna pistoiese ciò ebbe conseguenze terribili: molti furono traditi, denunciati, deportati e pochissimi riuscirono a tornare dai campi di concentramento[1].

La storia narrata in “Echi lontani” descrive una di queste vicende, unendo elementi veramente accaduti ad altri ricostruiti con verosimiglianza grazie al lavoro di ricerca che le due autrici hanno condotto. La protagonista, Sara, non si rassegna a credere che suo nonno sia stato davvero un collaborazionista né che abbia mandato a morte persone che si fidavano di lui e, anche se suo padre le consiglia di lasciar perdere quelle vecchie storie perché “chi scava non sa poi cosa trova”, decide comunque di approfondire. Attraverso le azioni della ragazza il lettore si trova immerso in una vera e propria ricerca storica, partendo dai documenti che si possono realmente consultare nei faldoni dell’Archivio di Stato: denunce, testimonianze, verbali, sentenze. I documenti citati nel libro sono infatti stati scritti dalle autrici tenendo come modello gli originali che hanno consultato in Archivio.

Nella narrazione i piani temporali si intrecciano e alle vicende che avvengono nel presente si alternano quelle successe durante la guerra, riviste perlopiù attraverso gli occhi di un personaggio un po’ strano e misterioso che appare, all’inizio quasi in punta di piedi, fra un capitolo e l’altro. E’ un vecchio, vive a Roma, rimane senza identità quasi fino alla fine del libro, ma i suoi ricordi e i suoi pensieri diventano piano piano fondamentali perché il lettore possa capire la verità di quanto accaduto tanti anni prima. Il vecchio cammina tra i monumenti di Roma mentre ripensa alla sua giovinezza, vissuta durante il fascismo: il lettore è quindi anche portato a comprendere cosa volesse dire frequentare la scuola nel Ventennio e come il Duce costruisse il consenso intorno a sé, prima che con la violenza, con il controllo delle menti e delle coscienze, controllo che avveniva anche nelle aule scolastiche. “I tempi in cui vivi non cambiano la persona che sei”, così un’amica di Sara, Alice, la rimprovera dei dubbi che nutre verso il nonno: chi è una persona perbene lo è sempre, indipendentemente dai momenti storici in cui si trova a vivere. Ma è vero? E’ vero sempre? O piuttosto il contesto in cui viviamo e in cui ci formiamo, la scuola, è fondamentale per lasciare un’impronta indelebile nella persona che poi diventeremo?

Sappiamo bene che la grande Storia è fatta da tante, piccole, spesso quasi invisibili, piccole storie; da scelte, intrecci, casualità, decisioni, responsabilità che apparentemente non hanno rilevanza ma che nel loro insieme imprimono il corso agli eventi. Il romanzo, con i suoi numerosi agganci alle vicende veramente accadute, ruota proprio attorno a questa convinzione: tutti siamo responsabili di quel che avviene, tutti abbiamo un ruolo da protagonisti nella storia, anche quando siamo convinti di essere solo degli inconsapevoli e innocenti spettatori. Sono passati più di settant’anni da quegli anni drammatici e violenti e il tempo che scorre porta con sé due rischi, entrambi pericolosi: da un lato la dimenticanza di quanto accaduto e in particolare l’oblio del ruolo attivo che gli italiani hanno avuto nella Shoah e dall’altro la retorica nel rappresentare la Resistenza.

La lettura di “Echi lontani” aiuta a stare lontani da entrambi questi rischi, soprattutto se tale lettura viene inserita in un percorso didattico, certamente possibile con alunni della scuola secondaria di primo e di secondo grado, come le autrici, affiancate dalla prof.ssa Barontini, illustreranno durante l’incontro organizzato dall’ISRT per il 3 giugno, incontro intitolato “La memoria del territorio”. La ricostruzione storica degli anni della guerra, in particolare dei mesi in cui il fronte scivolava verso Nord attraverso gli Appennini, vuole essere accurata, senza risultare didascalica e quindi respingente per i ragazzi; allo stesso modo uno spazio importante è dato al ruolo avuto dagli italiani nelle persecuzioni. D’altro canto la Resistenza non è presentata tanto come un atto eroico, solo ideale, riservato a pochi coraggiosi e quindi lontano dal sentire dei giovani di oggi, ma è descritta per quel che in fondo è stata: la scelta di chi, in un tempo folle, ha dovuto decidere da che parte stare a partire da questioni molto semplici e quotidiane.

La storia di Giovanni Bottai, maresciallo mai esistito di un’Arma dei Carabinieri che in Salvo D’Acquisto ha il simbolo di chi ha saputo scegliere la via giusta, può coinvolgere giovani e meno giovani nella conoscenza delle storie vere, vissute da persone che hanno camminato sulle stesse strade su cui camminiamo noi, che hanno visto le stesse montagne all’orizzonte che guardiamo noi e che hanno compiuto scelte da cui tutti noi proveniamo.

 

[1]Per approfondire l’argomento si vedano, ad esempio, questi contributi: https://www.toscananovecento.it/custom_type/persecuzione-e-deportazione-degli-ebrei-sulla-montagna-pistoiese/ ; https://www.toscananovecento.it/custom_type/la-persecuzione-fascista-contro-gli-ebrei-nel-pistoiese/ ; https://www.toscananovecento.it/custom_type/michele-baruch-behor-da-cutigliano-ad-auschwitz/.




CHE GENERE DI DIDATTICA?

Quando la Fondazione Carlo Marchi ha chiamato associazioni, scuole ed enti a rispondere al bando 2019 sul contrasto agli stereotipi e alla violenza di genere, come ISRT abbiamo sentito il dovere e tutta l’importanza di presentare un progetto.

La violenza di genere e complessivamente il sistema di stereotipi legati al genere sono il frutto di una società costruita su radici di stampo patriarcale. L’urgenza sociale degli ultimi decenni ha spinto verso una forte riflessione che ha coinvolto le istituzioni del mondo. Prova ne sono le numerose direttive, le deliberazioni e gli inviti a porre rimedio, con speciale sguardo rivolto a coloro che hanno in mano la formazione delle giovani generazioni. Un’educazione di e al genere e lo smascheramento degli stereotipi legati ai rapporti maschile-femminile risultano quindi non più rimandabili e l’unico vero strumento sul medio-lungo periodo. A nostro avviso è stato quindi fondamentale intervenire proprio a partire dalla formazione e dalla didattica, quindi, sulla scuola.

Così è nato Un’altra storia. Percorsi di formazione e conoscenza contro la violenza di genere, un progetto che si pone l’obiettivo di produrre maggiore consapevolezza e dare gli strumenti per operare finalmente quel passaggio dalla teoria alla prassi quotidiana. Abbiamo pensato a due fasi: un corso di formazione per docenti delle scuole secondarie (previsto per marzo 2020, ma rimandato dopo il primo incontro causa emergenza covid-19) e un festival aperto alla cittadinanza (previsto per novembre 2020). Perché non solo il festival? Perché se con il festival ci proponiamo di portare alla luce la costruzione culturale dei generi e il valore normativo da essi assunto nel tempo rivolgendoci a un pubblico ampio e non specializzato, il corso di formazione è diretto specificamente a chi porta avanti quotidianamente il difficile compito di formare ragazze e ragazzi in un’età molto delicata. La scuola, infatti, è il contesto privilegiato in cui intervenire per prevenire il diffondersi e il radicarsi di culture sessiste, misogine e di violenza.

Quello che ci è sembrato immediatamente chiaro nella fase di progettazione è che per le-gli stesse-i docenti non è facile portare “il genere” nelle classi, per motivi vari e diversi. In parte per il pregiudizio che grava sul concetto stesso di “genere”, spesso frainteso, e a maggior ragione sul ruolo che la scuola dovrebbe assumere rispetto a un’educazione di e al genere. Un altro ostacolo molto importante è la mancanza di strumenti adeguati, di sostegni didattici che vadano ad accompagnare gli intenti e la passione di chi insegna. Per questo motivo, abbiamo strutturato il nostro corso intorno a un volume davvero innovativo uscito l’anno scorso per le edizioni Biblink: I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia (Biblink, 2019, www.biblink.it/catalogo/bl00120.html). Un “sillabo” agile ed efficace che consente l’approccio a una didattica diversa della storia, della filosofia, del diritto, dell’arte, della letteratura, utile a orientare la/il docente nei temi dell’educazione di genere attraverso un repertorio di materiali versatili da utilizzare all’interno dell’attività curricolare. Si tratta quindi di uno strumento con duplice funzione: di auto-formazione e successivamente di supporto nella costruzione di percorsi didattici che abbiano al centro lo sguardo di genere nelle varie discipline.

Il primo incontro di Un’altra storia, il 3 marzo scorso presso il Murate Art District (www.murateartdistrict.it), ha confermato le nostre idee, i presentimenti iniziali e le nostre speranze: un gruppo davvero gremito di docenti ha partecipato attivamente, molte le domande e le proposte in seguito agli interventi della professoressa Graziella Priulla (Università di Catania; Quale punto di vista? Didattica e genere) e della dottoressa Alessandra Celi (Società Italiana delle Storiche e co-curatrice del “sillabo”; I secoli delle donne. Strumento di formazione e autoformazione). Le-i docenti hanno espresso chiaramente la volontà di integrare una programmazione che da sempre esclude la prospettiva di genere e il desiderio di essere sostenut* da strumenti strutturati. I manuali risultano lacunosi, le donne sono assenti o relegate in box da colonnino, nei quali il loro apporto viene tratteggiato in una dimensione di eccezionalità, isolato dal contesto, mai approfondito. La cultura raccontata nei libri scolastici si delinea completamente al maschile, tagliando fuori dalla narrazione le donne e soprattutto il rapporto tra i generi nella costruzione (attraverso fatti storici, arte, letteratura ecc.) di un mondo di fatto condiviso.

Si tratta di un “vizio” di prospettiva millenario, che ha la stessa radice della famosa frase “La storia la scrivono i vincitori”. Infatti, nonostante le donne non costituiscano una minoranza vera e propria dal punto di vista numerico, ne hanno lo status. Occupano, cioè, una posizione di subalternità all’interno di una cultura che le ha invisibilizzate nelle narrazioni e ne ha fattivamente impedito il fiorire, escludendole dal sistema educativo, dai circoli culturali, limitandone i diritti e le possibilità. Lo stesso meccanismo ha minato i diritti civili, la libertà personale delle donne, e ne ha determinato i ruoli, i compiti, gli ambiti. Certo, oggi sono molte le conquiste ottenute attraverso il sacrificio e le battaglie di generazioni di donne (anche se queste conquiste non sono ancora distribuite in modo uniforme nel mondo), ma non è facile costruire nuove fondamenta al posto di fondamenta millenarie. Ne sono prova, come abbiamo visto, l’impostazione e i contenuti della didattica.
Quali sono le possibili ricadute dirette di una scuola che non si confronti con l’educazione di e al genere? Quali le conseguenze sulle-sugli studenti del non leggere mai nei loro testi di scuola (che rappresentano, in quella fase del percorso di formazione, le fonti cartacee più autorevoli e scientifiche a loro disposizione) storie di donne che hanno contribuito in modo sostanziale al corso degli eventi?
Il filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) nella sua opera probabilmente più nota, Phänomenologie des Geistes (La fenomenologia dello spirito, Einaudi 2008) delinea il concetto di “riconoscimento”, ripreso e declinato sulla questione di genere dalla filosofa statunitense Judith Butler (1956) in Undoing Gender (Fare e disfare il genere, Mimesis 2014). Il riconoscimento è proprio il contrario dell’invisibilizzazione di un soggetto da parte di un altro soggetto, ovvero quella dinamica che si replica ogni volta che una maggioranza mette in ombra l’esistenza e la dignità di una minoranza. Il riconoscimento, invece, è quel processo che si costruisce nella relazione tra due soggetti, un percorso non necessariamente semplice, ma che conferisce valore, lo status di esistenza a entrambi i soggetti coinvolti.

Possiamo guardare all’assenza delle donne nei manuali scolastici e nella didattica come, di fatto, a un mancato riconoscimento. Quindi, possiamo facilmente immaginare quali tipi di considerazioni – anche inconsce – vengano introiettate dalle-dagli studenti. È proprio dal riconoscimento di valore che nasce il rispetto, la solidarietà, la cooperazione, la complicità. È nel mancato riconoscimento che possono instaurarsi una legittimazione delle disuguaglianze di genere e il rafforzarsi di modelli misogini e violenti, tutt’oggi vivi nel tessuto sociale. Il compito della scuola, però, dovrebbe essere quello di produrre una cultura nuova per le-i giovani, che veicoli i principi del rispetto e del valore delle diversità.
Dalla nostra esperienza, ancora in divenire, abbiamo còlto la consapevolezza delle-dei docenti, consapevolezza che, riteniamo, debba essere sostenuta e soccorsa, attraverso strumenti nuovi, attraverso un fare rete, attraverso percorsi nei quali sia possibile ripensare insieme alla didattica, porsi nuove domande per ottenere nuove risposte. Per questo motivo, non appena sarà possibile, riprenderemo Un’altra storia con la stessa passione, e attraverso il confronto, lo scambio immagineremo un’educazione di genere trasversale, pluridisciplinare, aperta alla costruzione di percorsi didattici molteplici.




Nel 10 di febbraio del 2020

È il sedicesimo anno di una data del calendario civile italiano, il 10 febbraio, non facile, come nulla è facile, nella costruzione della coscienza storica e civile, anche in presenza di leggi che fissano i giorni dell’obbligo di ricordare; rimane “passato che non passa” quello di cui non c’è solida conoscenza storica.

In Toscana si raccoglie l’eredità di un lungo e fertile impegno per la conoscenza e la disseminazione di sapere storico e la creazione di opportunità educative, partito già nel primo anno di istituzione del Giorno del Ricordo. Si sono susseguiti progetti importanti, che hanno incrociato le scelte culturali dell’ISGREC e della rete regionale di Istituti storici della Resistenza e dell’età contemporanea con la volontà della Regione Toscana di applicare questa ed altre leggi nazionali o europee di memoria con interventi non occasionali.

La storia del confine alto-adriatico di cui parla la legge istitutiva del Giorno del ricordo era già stata scritta, non in piccola parte, ma non era ancora compiutamente patrimonio collettivo, prima del 2004. Se ne erano assunti il compito per primi storici appartenenti o originari dell’area giuliana. Sono lontane le opere di Ernesto Sestan, o gli studi di Teodoro Sala, per citarne alcune. È vero che nell’ultimo quindicennio si è fatta lunga la lista di opere pubblicate. Né era poca la memorialistica, specchio di sofferenze vissute dai sopravvissuti alle violenze degli anni della guerra o alle precedenti, di quando erano slavi e antifascisti ad esserne vittime.

Un piccolo libro, autore lo storico Guido Crainz, aggiunse nel 2005 uno strumento prezioso, per sua ammissione destinato a offrire proprio agli insegnanti un impianto concettuale alla difficile storia del confine “laboratorio della storia del Novecento”, italiana ed europea. Fu un contributo di metodo e merito, utilissimo a dare una dimensione europea alle storie di confine, dove le guerre del Novecento hanno lasciato ferite di violenze e, nell’Europa centrale, determinato spostamenti epocali di popolazione, milioni di profughi. Il dolore e l’esilio. L’Istria e le memorie divise d’Europa1 costituì un breviario per molti insegnanti di storia. È una storia che guarda di qua e di là dalla linea del “confine mobile”, fino all’ultimo, definitivo tratto di penna sulla carta geografica, tirato nel 1975 dalle diplomazie italiane ed europee. Queste parlavano un linguaggio diverso da quello delle memorie della gente di confine, che racconta storie di sofferenze e di abbandoni, di spaesamenti vissuti altrove, nell’esilio. Sono stati spesso i poeti e gli scrittori a dare voce ai loro sentimenti. Anche qui potremmo comporre una lunga lista, da toscani richiamare alla memoria il legame storico fra Trieste e Firenze, alleanze fra intellettuali, che sono state evocate in opere importanti. Allo straniamento di una lunga incertezza sul futuro, che per tanti precedette il dolore dell’abbandono e dell’esilio, dava forma poetica – solo un esempio scelto fra tanti – Giani Stuparich, nel 1948:

Erano i giorni più amari di Trieste e della Venezia Giulia, quando i potenti del mondo giocavano col ostro piccolo destino. Speranze e delusioni si alternavano, si passava dall’esasperazione all’abbattimento, dall’abbattimento alla rivolta. I cittadini camminavano per le strade smarriti, avviliti, o guardando da ogni parte, se non fosse per sopraggiungere qualche sorpresa che li scotesse, o li annientasse per sempre. I fuggiaschi di Pola e dell’Istria sbarcavano come storditi, si afflosciavano sulle rive, accanto alle loro misere masserizie.2

Una gran parte di quelle masserizie è ancora ammassata nelle stanze di Padriciano, uno dei centri profughi triestini. Una delle guide di Padriciano raccontò agli studenti toscani nel viaggio di studio del 2018 il senso dello sguardo sbigottito, che ci mostrò, nella foto di una donna che stringeva una sedia, fuori dall’edificio del campo. D’improvviso aveva riconosciuto qualcosa che le apparteneva, visitando quel luogo, e dopo aver urlato: “La mia sedia!” , l’aveva afferrata, stretta come per paura di perderla di nuovo e portata via.3

copertinaQuando alla progressiva crescita di conoscenza della storiografia si aggiunse la somma fra le suggestioni della letteratura, la scoperta delle testimonianze di gente comune, l’esperienza dei luoghi, per il lavoro dell’ISGREC e di altri istituti toscani, iniziò la stagione della produzione di strumenti utili non a coprire un vuoto, ma a farsi carico della scarsità di risorse per la scuola. In pochi anni: un primo viaggio di studio, un libro di strumenti didattici, una mostra e il primo fra i documentari4. Vale la pena di ricordare – lo abbiamo fatto poche settimane fa con Raoul Pupo – un convegno grossetano che risale al 1996 (Guerre civili nell’Europa del Novecento, i cui atti furono pubblicati a cura di due insegnanti5). Nel tempo a Grosseto è nata la curiosità per una storia che ci riguardava: quanto e come la storia di quell’esilio aveva toccato la comunità grossetana?

Così ha avuto inizio l’esplorazione di archivi locali e nazionali di Laura Benedettelli, insegnante-ricercatrice, che prima e più di altri frequentò letture importanti, appassionandosi in particolare alla scrittura femminile: Marisa Madieri, Nelida Milani, Anna Maria Mori…

Le carte dell’Ufficio affari di confine, a Roma, quelle dell’Archivio di Stato e della Prefettura, a Grosseto, la ricognizione sulla stampa locale andarono per anni di pari passo con lo studio. Non è stata impresa facile per la complessità che ognuno riconosce alle vicende del Novecento giuliano-dalmata e istriano. Abbiamo imparato da subito che era un terreno complicato, a ogni passo con il rischio di malintesi e contestazioni. È accaduto e accade, ora più che mai, con le ombre del Novecento, di cui sono una rappresentazione gli accadimenti affrontati dalla ricerca di Laura Benedettelli, impossibile da racchiudere nei limiti degli anni della seconda guerra mondiale.

Sono stati trovati numeri e nomi dei profughi arrivati a Grosseto, spesso dopo viaggi in più tappe, tra cui i campi profughi disseminati in tutto il territorio nazionale. Ogni storia personale e familiare ha similitudini e singolarità, rivelate dalle interviste. La ricerca ha riportato alla luce i dibattiti, sorti nelle sedi istituzionali e testimoniati dalle cronache della stampa locale. Fino alla definitiva accoglienza, alla costruzione del “palazzo dei profughi”, dove molti trovarono infine casa.

La prima edizione è stata un e-book6, che oggi si è deciso di stampare, anche se le risorse disponibili hanno consentito solo un piccolo numero di copie. Allegati all’e-book erano documenti sulla storia generale, dai trattati alle norme di legge, alle circolari applicative emanate nel corso degli anni, che rimangono consultabili on line, nel sito web dell’ISGREC Questi dati sono utili a comprendere il contesto di questo frammento di una storia che ha messo l’Italia, in analogia con il più vasto contesto europeo, di fronte a scelte politiche. I popoli, e dunque gli individui coinvolti, sono stati messi di fronte a scelte personali. Le guerre del Novecento hanno prodotto, anche se in forme diverse, il fenomeno della profuganza, dell’esilio, della migrazione, volontaria o forzata.

esodo pola

L’esodo da Pola, 1947

È una lezione per ogni tempo, anche se per i nuovi profughi del XXI secolo il distacco dalla patria ha una fenomenologia diversa e più estesa, da quando il mondo è diventato di fatto globale e le distanze si sono accorciate. Nella “letteratura di confine” del Novecento, che abbiamo letto insieme agli studenti, il viaggio sembra il sostrato di ogni vicenda narrata, in una accezione non certo turistica. Come ne L’infinito viaggiare di Claudio Magris7, dove si parla di spaesamenti per chi si allontana dal proprio luogo e anche di ritorni. Per lo scrittore triestino, che ha dedicato gran parte della sua scrittura al tempo della guerra e alle sue conseguenze, al tema del viaggio corrisponde l’idea di frontiera. Magris evoca, richiamando i ricordi della sua infanzia, il paesaggio che gli era stato familiare, guardato dal Carso. Quello stesso paesaggio era diventato la “Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due”, dietro alla quale c’era “…l’ignoto…il mondo dell’est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato”8  Col tempo, altri mutamenti hanno dato altri significati agli stessi luoghi, portando alla scoperta che si è sempre sia di qua che di là dalle frontiere.

Non è stato facile decifrare fino in fondo i ricordi degli esuli ascoltati da Laura Benedettelli, capire se hanno percepito la comunità grossetana come estranea e sentito una frontiera fra loro e “gli altri”. Gli atti concreti sembrano configurare una comunità accogliente, anche se non è scontato che non ci fosse traccia di indifferenza o diffidenza. Le nuove, attuali migrazioni hanno origini e motivazioni inedite, ma hanno una similitudine con quelle degli esuli istriano-fiumano-dalmati, perché esito di viaggi analogamente tortuosi, di attraversamenti di frontiere.

Fra i caratteri originali della Maremma c’è il suo essere terra di migrazioni, di inserimento nel lunghissimo periodo di nuclei di popolazioni, che sono state indispensabili e l’hanno resa migliore. Grosseto è diventata città solo grazie a migrazioni dalle provenienze più diverse; qui si ha la consapevolezza di avere origini “oscure”. Pensando a questo dato storico, probabilmente quell’accoglienza, dal secondo dopoguerra in poi, è stata reale.

Perché conviene ricostruire un itinerario noto, più volte documentato in queste stesse pagine? Ce lo suggerisce quel che era sperato e non è avvenuto: la presa d’atto di una uscita dal silenzio della storia del “confine difficile”, della disseminazione di sapere e coscienza critica nella scuola, di un impegno finalizzato a sottrarre a diatribe politiche vicende complesse e dolorose. Il 2020 sembra essere l’annus horribilis per i tentativi di annullare l’eredità di tanto lavoro. Il presente è fotografato da lapidi in memoria di crimini razzisti imbrattate, dalle stolpersteine (le pietre d’inciampo con cui l’artista tedesco Gunter Demnig sta riportando a casa, almeno con la memoria, i deportati europei nei lager nazisti) deturpate. I segni di antisemitismo crescono con un razzismo a tutto campo. Episodi di discriminazione e rifiuto, fino alle aggressioni fisiche ai diversi, per colore della pelle, culture e credo religioso sono quasi quotidiani.

In questo clima, il racconto del dolore delle vittime delle foibe o di altre forme di violenze e di perdite – l’abbandono di luoghi della propria vita e la profuganza, che vecchie e nuove memorie testimoniano, è scagliato come un proiettile, in un dibattito pubblico che ha come protagonista la politica. Rischia di entrare in crisi il dialogo avviato da tempo fra popoli e Stati del confine – Italia, Croazia e Slovenia – se si spingono le memorie personali verso il rancore. Quanto alla memoria collettiva, è ancora in corso la faticosa elaborazione del lutto per le vicende del confine alto-Adriatico, dopo troppo lunghi silenzi. Silenzi erano seguiti anche alla persecuzioni di ebrei e alla deportazione politica, da poco si sta recuperando quella degli internati militari italiani nei campi del III Reich. La legge istitutiva della Giornata della memoria precede solo di quattro anni la fissazione del 10 febbraio per ricordare foibe ed esodo.

esodo 2

Profughi si imbarcano a Pola, 1947

Le memorie, individuali e collettive, sono situate nel tempo, del mutare del clima sociale e politico. Sono verità mutevoli, fonti accanto ad altre. Ora che l’era del testimone sta finendo, a maggior ragione dovrebbe prevalere la voce della storia, lo sguardo al passato con il filtro di domande, che servono a superare il semplice racconto con la spiegazione. È devastante, rispetto al bisogno di verità storica, la confusione fra eventi e fenomeni diversi, la frammentazione di racconti che rimangono inspiegabili cronache, se rifiutano la stratificazione dei tempi lunghi e brevi, dei diversi livelli di responsabilità individuali e collettive. Non è per sminuire le violenze di confine, opera dei partigiani titini, che si pretende di interpretare foibe ed esodo nel tempo lungo del Novecento, o di fare luce sulle responsabilità italiane per le violenze taciute dei Balcani, o ricordare che non furono solo gli italiani ad essere infoibati.

Da un esule, Predrag Matvejevich, riceviamo una lezione di cogente attualità, seppure tratta da uno scritto datato 2005, all’indomani del primo giorno del ricordo:

…esiste il pericolo che si strumentalizzino e “il crimine e la condanna” e che vengano manipolati l’uno o l’altro. Ovviamente, nessun crimine può essere ridotto o giustificato con un altro. La terribile verità sulle foibe, su cui il poeta croato Ivan Goran Kovačić ha scritto uno dei poemi più commoventi del movimento antifascista europeo, ha la sua contestualità storica, che non dobbiamo trascurare se davvero desideriamo parlare della verità e se cerchiamo che quella verità confermi e nobiliti i nostri dispiaceri. Perché le falsificazioni e le omissioni umiliano e offendono9.

Quello scritto metteva in guardia da strumentalizzazioni e storie monche, generatrici di rivendicazioni rancorose, se fondate su fissazioni identitarie di tipo nazionalista e rigide ideologizzazioni. Se ne comprende meglio il senso pensando alla sua storia di vita. Padre ucraino, madre croata, eredità linguistiche plurime, che lo spingono a un destino di cosmopolita, a lui congeniale, ma duro da sostenere, “peccato originale” che, dice “non sarebbe piaciuto né ai nazionalisti né ai comunisti [e] ha avvelenato la [sua] infanzia”, fin quando ha scelto l’esilio10.

Scrive Walter Barberis a proposito della Shoàh che “l’abuso della memoria non è meno dannoso del cattivo uso della storia”11. Non è l’oblio la soluzione, ma l’uso critico delle memorie, un ripensamento alla luce del tempo presente degli appuntamenti con il passato, nei giorni stabiliti per legge. Il rumore di orazioni pubbliche celebrative, spesso retoriche, se non strumentali, non dovrebbe coprire i discorsi della storia, che procedono con lentezza e a voce più bassa.

Se sarà così, scrive in questi giorni lo storico Luca Bravi, non tutto sarà perduto.

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NOTE:

1 G. Crainz, Il dolore e l’esilio. Le memorie divise d’Europa, Donzelli, Roma 2005.

2 G Stuparich, Trieste nei miei ricordi, Grazanti, Milano 1948, cit. ivi, p. 78-79.

3 L’episodio è avvenuto a Padriciano, nel febbraio 2018, durante il viaggio di studio degli studenti toscani. È stato il primo dei due progetti educativi promossi dalla Regione Toscana (Storia di un confine difficile. L’alto Adriatico nel Novecento) ed attuati grazie agli Istituti storici toscani sopra citati, giunti come impegno sistematico, dopo numerosi progetti minori, sostenuti fin dal 2007. Il prossimo 11 febbraio partiranno nuovi studenti, accompagnati da nuovi insegnanti, resi esperti da una formazione intensiva sulla storia del confine nel Novecento, con la summer school di Rispescia (Grosseto, agosto 2019).

4 Al primo documentario del 2010 – La nostra storia e la storia degli altri – , è seguito La conoscenza scaccia la paura, ambedue produzione Regione Toscana-ISGREC, regia di Luigi Zannetti.

5 C. Albana, P. Carmignani (a cura di), Guerre civili nell’Europa del Novecento, Editrice Il mio amico, Roccastrada (GR), 1999. Contiene il saggio di Raoul Pupo: Guerra civile e conflitto etnico: italiani, croati e sloveni.

6 In www.isgrec.it

7 C. Magris, L’infinito viaggiare, Grazanti, Milano 2005.

8 Ivi, p. XIII.

9 P. Matvejevic, in “Novi list”, 14 febbraio 2005 (traduzione di L. Zanoni per “Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa”) in https://www.balcanicaucaso.org/aree/Italia/Predrag-Matvejevic-le-foibe-e-i-crimini-che-le-hanno-precedute

10 P. Matvejevic, Mondo “ex”. Confessioni, identità, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano 1996, p. 24.

11 W. Barberis, Storia senza perdono, Einaudi, Torino 2019.




Sui luoghi della memoria o la memoria dei luoghi

L’espressione ripresa da Pierre Nora, e subito fraintesa, come ebbe a scrivere lo stesso autore, doveva facilitare un approccio critico al problema dei luoghi, ma si trasformò da subito in una espressione autocelebrativa.

A distanza di molti anni dall’opera di Nora, la situazione non è migliorata, anzi è profondamente peggiorata. Prima però di fare alcune riflessioni legate soprattutto, come mi pare corretto, all’esperienza maturata all’interno delle attività dell’Istoreco di Livorno e del territorio della sua provincia e, in parte, della provincia di Pisa, vorrei fissare l’attenzione sul titolo che dichiara da subito come si debba dividere la problematica in due diverse concettualizzazioni. Un conto è ragionare sui “luoghi della memoria” e un conto è ragionare sulla “memoria dei luoghi”. Mentre i secondi, a mio parere sono quelli che, con maggiore spontaneità, attraverso gli anni, sono diventati dei veri e propri topos che condensano alcuni significati importanti per gli abitanti che vivono su quello spazio o nei suoi pressi, o, forse è più corretto ipotizzare, per una parte dei suoi abitanti. Faccio un esempio chiaro per la consapevolezza di un italiano medio, perlomeno lo spero. Il luogo dell’attentato a Falcone, alla moglie e alla scorta sulla strada che dall’aeroporto di Palermo arriva nel capoluogo siciliano.

Ci passai molti anni fa, perlomeno 18-20 anni fa (era quindi l’anno 2001 o 1999). A ricordare cosa era accaduto lì, il 23 maggio 1992, c’era solo la vernice rossa che una qualche mano pietosa ed onesta (penso qualcuno dei lavoratori che rifecero il guard rail) aveva steso per attirare l’attenzione degli autisti che si trovavano a passare di lì. Lì era accaduto qualcosa di grosso, di veramente esorbitante, cosa nostra aveva fatto saltare uno dei simboli alla lotta alla mafia, e l’aveva fatto provocando un cratere degno di una guerra. Erano passati già diversi anni da quell’attentato ma l’erezione di un cippo commemorativo avvenne solo nel 2004. Dodici anni dopo la strage! Siamo sempre stati un Paese lento nel prendere coscienza, e qualche volta manco la prendiamo.

Ma dal punto di vista del significato, quella semplice rudimentale mano di vernice, suscitava un grande impatto e segnalava l’accaduto e nello stesso tempo denunciava la negligenza dello Stato. Quella poca vernice aveva assunto il valore di prendere su di sé la responsabilità e la scelta di dichiarare quel luogo, un luogo della memoria civile e democratica del nostro paese. La politica e lo Stato arrivarono dopo, molto dopo. Quel segno costituiva come un codice per la comprensione e la lettura, era un invito a schierarsi contro i mafiosi e chi li proteggeva. Un invito che non portava firma, anonimo. Occorre però aggiungere che nessuno aveva osato cancellare quella vernice. Quindi per genesi spontanea la coscienza di una parte degli italiani aveva decretato che quel punto dell’autostrada doveva essere sottolineato a ricordo del sacrificio di Falcone, della moglie e della scorta, trucidati da una quantità di tritolo spaventosa.

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La lapide che ricorda la nascita del PCI a Livorno

Qualcosa di simile è accaduto ed accade per altri luoghi della nostra storia democratica. Altre volte si sviluppano dei percorsi più tortuosi come quello che ha riguardato la città labronica. A Livorno, c’è un luogo, in via Borra, dove prima si ergeva il teatro San Marco, il teatro dove si riunirono gli scissionisti del Congresso del Psi nel 1921 per fondare il Partito comunista, e a ricordarlo era stata collocata nel dopoguerra una lapide. Con gli anni sia il luogo che la lapide avevano perso parte del loro smalto, del resto la lapide è posta in alto e occorre alzare gli occhi per vederla e il testo appare oggi per i giovani praticamente incomprensibile. Il profilo dell’edificio dell’ex teatro, oggi sede di un asilo, è profondamente cambiato e al di là di pochi fiori collocati da mani sconosciute per gli anniversari della nascita del Pci, mani forse cariche di nostalgia e di mitologia, pareva un luogo dimenticato. Ma quella lapide subì spontaneamente una nuova semantizzazione quando la ministra Gelmini dell’allora governo Berlusconi, dopo le proteste per il simbolo della Lega in una scuola del nord del paese, inviò un ispettore ministeriale per verificare se i bambini dell’asilo erano sottoposti alla fascinazione della falce e martello.

L’ispezione ci fu e non poté scattare nessuna reprimenda per il Comune di Livorno perché quel luogo storico, che tale è, e come tale va preservato, non esercitava nessuna persuasione occulta nei confronti dell’infanzia, anche perché, semplicemente, i bambini dell’asilo entrano dalla parte opposta. Una parte degli abitanti di città però non gradì questa minaccia e, immediatamente, la lapide che ricorda la nascita del Partito comunista, beneficiò per un periodo, anche abbastanza lungo, di attenzioni particolari: fiori freschi, scritte di solidarietà. Così la lapide e quello che vi è inciso ripresero vivacità e attenzione, e molti di quelli che si trovavano a passare da quelle parti, alzarono gli occhi alla segnalazione marmorea. L’Istoreco di Livorno l’ha sempre inserita nel percorso del trekking urbano che rivolge alle scolaresche sul Novecento, e alla spiegazione del significato del testo e della sua comprensione storica, adesso aggiunge la nuova vita che quella lapide ha assunto nello scontro politico attuale. Come si comprende bene due episodi molto diversi nelle dinamiche e nel significato ma che vedono entrambi scattare una specie di presa in carico da parte di cittadini sconosciuti di un luogo che viene letto come luogo deputato a rappresentare qualcosa che ci appartiene, che in qualche modo sta dentro la costruzione della nostra identità.

Ma la risemantizzazione di un luogo indica che si è potuto ricostruire la condivisione di un’emozione e questo ha permesso di rivitalizzarlo attraverso una ri-narrazione. Come scrive Antonella Tarpino la memoria come traccia “non è più un atto diretto, come nel caso del testimone, ma un atto vicario: un osservare davvero, si potrebbe dire, per conto terzi.“

L'ossario di S. Anna di Stazzema

L’ossario di S. Anna di Stazzema

E quando soggetti come gli Istituti storici accompagnati e sostenuti in questa operazione dalle amministrazioni pubbliche anche perché l’intervento è quasi sempre sopra uno spazio pubblico, decidono di segnare uno spazio, di riperimetrarlo, decidono cioè di proporre per quello spazio una narrazione che lo indichi come luogo, luogo di memoria fanno su una base solida di conoscenze, una operazione di narrazione, che è anche una ri-narrazione, una aggiunta, un addendum segnalato con una qualche modalità visiva. Ma affinché l’operazione funzioni occorre che ci sia qualcuno pronta ad accoglierla. Ed è qui che si rivelano spesso le fragilità. Mentre tutti i segni che contraddistinguono un luogo come Monte Sole così come Sant’Anna di Stazzema, sono quasi immediatamente percepiti e compresi perché luoghi di pellegrinaggi, perché luoghi diventati mete scolastiche, altre emergenze pur raffinate e pur dense di significato, non riescono a condensare senso e memoria condivisa, o se lo fanno, ciò accade in modo diverso e spesso opposto a quello auspicato.

Rinvio ad esempio all’esperienza del progetto Luoghi della memoria del mio istituto che, a pochi anni dalla sua realizzazione, risulta molto meno efficace e meno ricco di quella che i suoi ideatori ed io stessa auspicavamo. La novità del QRcode quando fu adottata sembrò ricca di potenzialità ma poiché adesso il rinvio ad altro, di solito un approfondimento, tramite il QRcode è anche sulle confezioni dei fazzoletti, la forza comunicativa si è persa. Non solo. Il sito ha bisogno di manutenzione mentre il pannello in materiale non biodegradabile alle intemperie ha retto negli anni. Questo alla fine è quello che è rimasto. Una tappa in un trekking urbano sulla memoria del Novecento. Un appiglio visivo per un passante poco distratto, una percezione momentanea e forse stimolante. Credo niente di più. Può darsi comunque che non sia poco.

Ma c’è un altro problema con i luoghi della memoria, specialmente quelli più affardellati dagli anni e dai trascorsi. Proviamo a ragionare sul campo-monumento di Fossoli. Fossoli è un luogo simbolico assai importante nella nostra storia di italiani e di democratici. Immediatamente il campo ci fa scattare la memoria Primo Levi e, subito dopo, specialmente se abitiamo un luogo sede di comunità ebraica, altri nomi di ebrei passati di lì (per Livorno sicuramente Frida Misul della quale ricorre l’anniversario della nascita), ma anche il nome di molti politici. Eppure quel campo, campo di concentramento a pochi chilometri da Carpi, è stato campo di concentramento non solo nel senso legato agli eventi della seconda guerra mondiale. É stato anche molto altro. É un luogo della memoria nel quale è possibile leggere, anche grazie alla cura che ne ha la Fondazione Fossoli, una stratigrafia semantica di significati. Campo per prigionieri di guerra dal 1942 all’ 8 settembre 1943, campo per profughi stranieri, campo della Repubblica sociale italiana per ebrei e politici destinati all’azione di persecuzione delle truppe nazifasciste, campo di prigionia di manodopera coatta per la Germania, centro di raccolta profughi stranieri, campo per i i bambini di don Zeno Saltini fino a quando lui con i suoi ragazzi furono allontanati da Fossoli e don Zeno fu accusato di praticare quello che si chiamava “comunismo evangelico” dal ministro degli Interni Scelba. La sua comunità divenne famosa come la comunità di Nomadelfia. Non furono però gli ultimi ospiti del campo, che si aprì di nuovo per i profughi giuliano-dalmati con il cosiddetto Villaggio San Marco.  Dopo quella data, il campo fu abbandonato all’incuria fino a quando finalmente arrivò una legge ad hoc nel 1984 che solo dopo un periodo lunghissimo di passaggi burocratici portò alla costruzione di Fossoli come luogo di memoria pubblica. Ci sono stata poco tempo fa e ho visto grazie anche a Silvano, un volontario che la lavora con la Fondazione Fossoli che ha sede a Carpi, che ci ha fatto da guida fuori dall’orario di apertura. Insieme a lui abbiamo osservato due mazzolini di fiori collocati lì al cancello di ingresso e sopra un pannello da mani sconosciute, perlomeno per me. Silvano ci ha spiegato che sono alcune donne dell’est che si trovano in zona come badanti, ad aver messo quei mazzolini. Probabilmente qualche loro parente è passato di lì come prigioniero di guerra. E questa è l’ultima ri-semantizzazione di quel posto. Ed è una ri-semantizzazione che rende, a mio parere, quel luogo anche un po’ più europeo di prima, serve ad avvicinare e non a costruire barriere, a rafforzare l’idea di un’Europa unita come unica cornice di pace.

Ma i luoghi, tutti, questo come il mausoleo di Sant’Anna di Stazzema o il monumento su Monte Sole, godono oggi di molta più attenzione rispetto anche ad un passato abbastanza recente perché il “guardare” è diventato preponderante rispetto all’”ascoltare”. Anche per questo credo che occorra da parte nostra manipolare con molta cura questa situazione per non avallare conoscenze frettolose, superficiali, da turismo dell’horror. Per avvicinarsi a questi deposi memoriali occorre sempre utilizzare una guida preparata, fare delle soste lontano dagli stessi prima di entrare dentro a spazi che, nel bene e nel male, risultano comunque monumentalizzati. Proporre per le scolaresche percorsi che abbiano solo come ultima tappa la visita. Quello che si fa ad esempio con il viaggio ad Auschwitz, o nei luoghi del “confine orientale”, con la Regione Toscana.

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Il mauseleo a Costanzo Ciano sulle colline di Livorno

Altrettanta attenzione e sensibilità occorre nell’affrontare i luoghi della memoria della destra. O i luoghi a doppia lettura. Uno per tutti: Piazzale Loreto. Luogo dell’uccisione di 15 partigiani, con un’esecuzione fra le più feroci della guerra. Poco meno di un anno dopo, il 29 aprile 1945 nella stessa piazza forno esposti i corpi di Mussolini, Claretta Petacci, Pavolini ed altri.

Questo luogo è come comprendiamo facilmente, un luogo a doppia valenza. Le nostre ricerche sulle dinamiche di entrambi gli episodi possono essere utilizzati a seconda del vento che tira. E di questo occorre essere consapevoli.

O pensiamo a luoghi come il cimitero di Predappio invaso sempre più spudoratamente da folle inneggianti al Duce. In questo caso forse occorrerebbe domandarsi cosa è stato fatto dalla Repubblica perché questo, nei decenni passati, prima che il partito della Lega di Salvini prendesse il potere in quel municipio, per impedire questa manifestazione di ossequio e riverenza ad un passato tragico e colpevole, quello del ventennio fascista.

Esistono risposte di fronte a queste difficoltà, alla impossibilità di costruire una grammatica narrativa non penso condivisa, ma rispettosa, credo di sì, ma non dentro questo presente dove sempre il sindaco di Predappio ha negato per la prima volta un contributo per il viaggio ad Auschwitz degli studenti affermando che questi viaggi sono sempre a senso unico. Dove pensa che vada costruita la coscienza europea, nei Gulag? O che la storia del “confine orientale” comprensiva della tragedia delle foibe, possa pareggiare con quella dei campi di sterminio e di concentramento? Certo quello che domina è l’ignoranza che insieme alla tracotanza, diventa una miscela molto esplosiva. Proviamo a resistere a questa deriva che ci può far naufragare in un mare molto scuro.




La Guerra Partigiana

A Pistoia, ormai da anni, le storie dei combattenti partigiani entrano, a buon diritto, nelle aule delle scuole elementari e medie della città: questo risultato è reso possibile dal progetto “La guerra partigiana”, promosso da Spi Cgil-Lega “Ugo Schiano” e Fondazione Valore Lavoro. Grazie alla collaborazione di Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia (ISRPt), ANPI sezione “P. Gherardini”, Croce Verde, Sezione Soci Coop, Circoli Arci di Bonelle e “L. Bugiani” e Comune di Pistoia questo progetto ha coinvolto, nell’anno scolastico 2018/2019, un totale di 391 bambini e ragazzi, confermandosi una realtà consolidata al servizio delle scuole pistoiesi.
Scopo del progetto è quello di attivare una vera e propria didattica della storia della Resistenza pistoiese, rivolta agli insegnanti e agli studenti, per intensificare il dialogo con le nuove generazioni e far loro conoscere un passato che, purtroppo, lo scorrere del tempo rischia di rendere sempre più sfumato agli occhi degli alunni di oggi. È Spi-Cgil ad occuparsi degli aspetti organizzativi riguardanti il coinvolgimento delle scuole; la docenza è invece svolta dai ricercatori ISRPt, che diventano per l’occasione “insegnanti per un giorno” allo scopo di rendere partecipi i piccoli studenti della storia della nostra Resistenza. In particolare, per quanto riguarda i bambini della scuola primaria, ognuno dei ricercatori ISRPt “prende in consegna” una classe terza e la accompagna nel suo percorso scolastico fino alla classe quinta: così facendo, oltre a crearsi una benefica continuità nella pratica didattica, si consolida il rapporto del ricercatore con la classe da lui seguita, stimolando un clima reciproco di conoscenza e fiducia fra gli alunni e il ricercatore. Ma come rendere accessibile a bambini e ragazzi un argomento tanto complesso come quello della Resistenza? Grazie alla preziosa collaborazione degli insegnati delle diverse scuole, il tema della Resistenza è introdotto in anticipo nelle classi, in modo tale che gli alunni abbiano un primo approccio alla tematica in oggetto; solo in seguito a questa premessa, i ricercatori ISRPt possono recarsi nelle aule e tenere la loro lezione. Ma, più che delle lezioni, questi incontri diventano dei veri e propri dibattiti: la curiosità degli studenti riguardo alla Resistenza è molta, e i ragazzi non mancano mai, infatti, di porre numerose e molteplici domande di vario genere, alle quali i ricercatori si impegnano a rispondere per soddisfare l’interesse dei giovani studiosi. Le lezioni giungono a parlare ai ragazzi della “guerra partigiana” dopo aver introdotto quegli avvenimenti fondamentali che ne furono i precedenti: questo perché gli studenti possano comprendere il più autonomamente possibile quando e perché essa ebbe luogo. I temi trattati preliminarmente sono quindi la presa del potere da parte di Mussolini e il fascismo, la politica espansionista della Germania hitleriana e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, per poi arrivare, infine, alla “guerra partigiana” e ai suoi protagonisti nella zona del pistoiese.
Grazie al supporto di fotografie d’epoca, selezionate dai ricercatori ISRPt, gli alunni entrano in contatto, spesso per la prima volta, con la Resistenza pistoiese e le sue figure (ad esempio il giovane partigiano Silvano Fedi, morto in uno scontro a fuoco con i tedeschi, la cui memoria è ancora ben viva nella città di Pistoia) e con la vita delle popolazioni dell’epoca. La lezione in classe costituisce solo la prima parte del progetto didattico della “guerra partigiana”: a essa fa infatti seguito una vera e propria esplorazione sul campo dei luoghi della memoria pistoiese. In questa esplorazione i ragazzi sono accompagnati dai loro insegnanti e dai ricercatori ISRPt che, novelli ciceroni, conducono gli studenti a vedere con i loro occhi i siti più significativi della Resistenza cittadina. Una delle mete di queste “gite partigiane” è il centro di Pistoia: durante questo tour vengono illustrati agli alunni le lapidi e i cippi commemorativi di cui il centro è punteggiato, e vengono loro spiegate le storie e le vicende che tali monumenti ricordano. Un’altra meta particolarmente evocativa è il Monumento votivo militare brasiliano, sito alla periferia della città: un vero memoriale all’aria aperta (dotato anche di un suo piccolo ma significativo museo) che ricorda le vicende della Força Expedicionária Brasileira, attiva sull’Appennino tosco-emiliano nella primavera 1945 e che si trovò a passare anche da Pistoia. Molto significativa è anche la visita al Passo della Collina sopra Pistoia, dove, nella località del Signorino, si snodava la Linea Gotica: ancora oggi, vi si ritrovano alcune fortificazioni in cemento armato ben conservate, parte del sistema difensivo tedesco a protezione delle vie di accesso al valico.

La terza e ultima parte del progetto della “guerra partigiana” è quella della restituzione: in questa fase conclusiva i ragazzi, assistiti dai loro insegnanti, producono i loro personali elaborati, illustrando nel modo che preferiscono (disegni, interviste, articoli, presentazioni multimediali) ciò che più li ha colpiti ed interessati durante questo “viaggio nella storia”. Questi elaborati diventano poi il centro di una mostra aperta al pubblico cittadino, dove a ognuno degli studenti viene consegnato un attestato di partecipazione: un piccolo omaggio dedicato ai ragazzi per ringraziarli della loro partecipazione attiva a questo progetto didattico sulle tracce della nostra Resistenza. Perché, adoperando le parole di Gabriella Valdesi, curatrice del progetto per Spi-Cgil Lega “Ugo Schiano”, lo scopo finale è quello di ricordare: «Bisogna ricordare e avere rispetto per i sacrifici compiuti da tante persone giovani e non, che hanno dato la vita per un ideale, intensificando il dialogo con le giovani generazioni, per conoscere il passato per costruire il futuro e guardare avanti».




Leonardo da Vinci ‘genio italico’ del fascismo

Il 9 maggio 1939, nell’anniversario della nascita dell’Impero, si inaugurava a Milano la Mostra di Leonardo da Vinci e delle Invenzioni italiane, un evento che, nelle parole del Comitato organizzatore, avrebbe mostrato, «in forma al tempo stesso eletta e popolare, il vertice altissimo raggiunto dallo spirito italiano con Leonardo, in modo da esprimere nella mirabile opera dell’artista e dello scienziato del Rinascimento, i caratteri essenziali della spiritualità della stirpe che nel Fascismo si ricompongono ancora dopo molti secoli in forma unitaria».

Di fatto divenne uno degli show più propagandistici del regime, un’esposizione -per usare le parole di Roberto Longhi- «discutibile e discussa», che portò a una significativa strumentalizzazione e decontestualizzazione storica dell’artista.

L’ingresso alla mostra milanese su Leonardo del 1939

L’interpretazione di Leonardo quale genio della “stirpe italica”, da cui partiva una gloriosa linea di scienziati che culminava con Guglielmo Marconi, eroe dell’Italia autarchica di Mussolini, era già iniziata qualche anno prima: in questa direzione si allineò la mostra milanese, portando all’associazione della grande monografica sull’artista con una parallela esposizione, ovvero la seconda edizione della Mostra delle Invenzioni italiane, che trovò altisonante sede presso il Palazzo dell’Arte al Parco Sempione (ora della Triennale).

Già dall’inizio degli anni Trenta il fascismo aveva utilizzato sia le mostre d’arte antica italiana all’estero che le grandi esposizioni monografiche in patria, come palchi propagandistici, eventi collettivi ampiamente pubblicizzati con gli strumenti di comunicazione di massa (video dell’Istituto Luce, opuscoli turistici promozionali, comunicati radio) già sperimentati nella propaganda politica. Rispetto ad altre importanti esposizioni della seconda metà degli anni Trenta (come la mostra giottesca a Firenze del 1937), quella dedicata a Leonardo a Milano assunse tuttavia connotati ancor più particolari: Leonardo diventò l’antesignano dell’ “uomo nuovo” fascista, paragonabile allo stesso Duce.

I vari approfondimenti sugli studi di Leonardo dedicati all’architettura, all’ingegneria, all’anatomia, alla matematica diventarono tappe di un percorso espositivo incentrato sulla celebrazione del suo ruolo di pioniere nella cultura tecnico-scientifica italiana, secondo un’impostazione – cara al regime – per cui i protagonisti della storia della scienza erano visti come monumenti, isolati dal contesto in cui avevano operato. L’aspetto preponderante e più spettacolare fu la parte scientifica e tecnica dell’opera dell’artista, rappresentata da 200 modelli di macchine, talvolta anche in scala gigantesca e azionabili dal pubblico, realizzati grazie alla progressiva edizione dei manoscritti ma anche con una buona dose di interpretazione.

Tuttavia la mostra vedrà anche la presenza di numerosi dipinti e disegni originali di Leonardo, portando alla spoliazione di quasi ogni opera leonardesca presente nei musei italiani. Lo sforzo maggiore fu chiesto proprio alla soprintendenza fiorentina: il 1° maggio 1939 partirono da Firenze una trentina di casse con dipinti, disegni e sculture principalmente dalla Galleria degli Uffizi e dall’allora Regio Museo Nazionale del Bargello, comprese opere simbolo e delicatissime come l’Adorazione dei Magi e l’Annunciazione di Leonardo e il Battesimo del Verrocchio. Per quest’ultime, invano, il soprintendente Giovanni Poggi e il responsabile del Gabinetto Restauri Ugo Procacci richiesero un restauro preventivo «per poter sopportare un viaggio senza risentire danni».

In linea con la dialettica del regime, che da un lato promuoveva grandi eventi accentratori e dall’altro valorizzava le identità locali in senso di orgoglio municipalistico, anche a Vinci soffiò forte il vento della retorica fascista. Collegata alla mostra milanese, nel paese natale  fu organizzata un’esposizione di cimeli leonardeschi, inaugurata il 20 agosto 1939 dal ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, che parlò dal balcone della casa del fascio. Pubblicizzato alla stregua di un “pellegrinaggio”, il tour vinciano prevedeva la visita ai luoghi dell’infanzia dell’artista, tra i quali la restaurata casa di Anchiano, oltre a fonte battesimale e la riproduzione di un documento di mano del nonno di Leonardo.

Una delle sale dedicate ai modelli leonardeschi nella mostra milanese del 1939

In quello stesso biennio 1938-1940 l’esaltazione di Leonardo divenne di fatto una moda e mania collettiva che fu cavalcata anche dalle frange più estreme del regime. A tal proposito ne «La Difesa della Razza» comparvero una serie di articoli a tema artistico dedicati proprio a Leonardo, dove la strumentalizzazione sciovinista si colorò anche di tinte antisemite e perversioni interpretative. Già nel 1938 era comparso il breve articolo Come Israele insudicia il genio di Leonardo, atto di accusa contro la nota interpretazione di Freud sul sogno raccontato da Leonardo riguardo al nibbio. Nel 1939, anche in riferimento alla mostra milanese, nella rubrica “la razza e l’arte” la polemica dei redattori si indirizzò verso La favola dell’europeismo e Leonardo italiano, ovvero verso la tendenza degli studi dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, di scippare l’italianità dell’artista a discapito di una sovra-nazionalità europea. Nel 1940, in un climax ascendente di strumentalizzazione interpretativa, comparve un nuovo articolo dall’emblematico titolo Leonardo pittore razzista, dove venne presentata un’analisi del Cenacolo improntata alla presunta diligenza leonardiana nell’aver riprodotto nei volti degli apostoli caratteri somatici “biologicamente” ebraici.

Con l’entrata in guerra dell’Italia continuò l’utilizzo politico di Leonardo, protagonista, grazie all’interessamento del ministro della Cultura Popolare Alessandro Pavolini, di una leonardesca americana, organizzata dal Rockefeller Center nel Museum of Science and Industry di New York nel luglio 1940 con i modelli della mostra del 1939. Questi stessi modelli presero poi la via di Tokio, dove furono esposti – suscitando grande stupore – nel 1942, in piena guerra mondiale. Fu il loro ultimo viaggio: la nave che che dal Giappone li riportava in Italia fu colpita e affondata, in una sinistra e simbolica fine, per mano di quel conflitto così acclamato, della strumentalizzazione retorica di Leonardo come grande “genio italico”.