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“Comunisti d’acciaio”

Giovani e giovanissimi, di un’età compresa fra i 18 e 25 anni, a formare una serie di nuclei in alcune località del territorio provinciale, soprattutto laddove più forte era il tradizionale insediamento socialista. Un unico punto di riferimento nazionale in Amedeo Bordiga (di Antonio Gramsci e dell’Ordine Nuovo, nel Senese nessuno aveva sentito parlare, o quasi). Forti motivazioni ideologiche per separarsi dal Psi. Una fede altrettanto robusta nella rivoluzione proletaria sul modello leninista. Una sostanziale incomprensione e sottovalutazione del fascismo montante, nonostante le evidenze della sua aggressività pagata spesso sulle proprie ossa. Infine, una presa elettorale minoritaria, ma non irrilevante (2.072 voti provinciali alle politiche del 1921, pari al 3,7%; percentuale confermata tre anni dopo alle politiche del 1924). Sono questi alcuni dei tratti del PCd’I della provincia di Siena ai suoi albori.
Fra le biografie dei primi iscritti, tratteggiamo di seguito quelle di Vittorio Bardini, Giovanni Guastalli e Pietro Borghi, nelle quali l’impegno politico attraverso i decenni della dittatura, fino alla Resistenza, lascia intuire l’importanza della fase fondativa del partito sulla formazione di uomini che, con una retorica riecheggiante il nome di Stalin, ma non priva di agganci alla realtà, sarebbero stati definiti “comunisti di acciaio”.
Vittorio Bardini era nato a Sovicille nel 1903. Figlio di muratore e muratore lui stesso, aderì alla gioventù socialista su posizioni massimaliste, passò al PCd’I subito dopo Livorno e divenne segretario provinciale dei giovani comunisti. Presente fra i 67 difensori della Casa del Popolo di Siena dall’assalto fascista avvenuto nel marzo 1921 con il sostegno delle forze di polizia, subì altre aggressioni squadriste. Nel 1927, dopo le leggi eccezionali, venne arrestato per ricostituzione del Partito comunista. Inviato al Tribunale speciale, ebbe una condanna a otto anni di carcere. Dopo essere uscito di galera espatriò clandestinamente in Unione Sovietica, frequentò la scuola di partito, partì per combattere in Spagna nelle brigate internazionali. Dopo aver lasciato la Spagna ormai franchista, trascorse un periodo nei campi di concentramento frances. In seguito alla sconfitta della Francia da parte dei tedeschi e alla nascita del regime fantoccio di Vichy, fu riconsegnato alle autorità italiane finendo di nuovo in carcere e al confino. Tornato libero dopo il 25 luglio 1943, dall’8 settembre si dedicò al lavoro organizzativo nella lotta contro il nazifascismo, a Siena e a Milano. Seguirono la cattura, la deportazione a Mauthausen, la sopravvivenza al campo di prigionia, il ritorno e, nel 1946, l’elezione nelle liste del Partito comunista all’Assemblea Costituente.
Anche Giovanni Guastalli era del 1903, nato a S. Lorenzo a Merse (comune di Monticiano), licenza di terza elementare, mestiere boscaiolo. Nell’ottobre 1921, da segretario giovanile della sezione del PCd’I, partecipò insieme al padre ad una manifestazione di protesta di fronte alla caserma dei carabinieri che avevano arrestato alcuni lavoratori, finendo agli arresti lui stesso. Nel 1924 espatriò in Francia unendosi a quel flusso di emigrazione che era insieme economica (la speranza di occasioni di lavoro e remunerazioni migliori) e politica (sfuggire allo squadrismo). Nella zona di Draguignan, dipartimento del Var, riprese a tagliare alberi e proseguì nel suo impegno politico e sindacale. Inviato dal partito in Italia nel 1933 per svolgere attività clandestina, fu individuato a Modena, deferito al Tribunale speciale, assolto per insufficienza di prove, scarcerato e spedito in soggiorno obbligatorio al suo paese natale, poi condannato a tre anni di confino nell’isola di Ponza.
La sua scheda biografica, redatta dalla polizia, ne descrive il comportamento: «25 febbraio 1935, denunciato per aver preso parte ad una protesta e condannato a dieci mesi di arresto; 12 marzo 1937, dimesso dal carcere viene reintrodotto nella colonia di Ponza; […] 23 giugno 1938, con disposizione ministeriale […] viene trasferito da Ponza a Tremiti; 21 luglio 1938, il consiglio di disciplina della coloniale lo punisce con 20 giorni di divieto di libera uscita per essersi rifiutato di salutare romanamente; 4 luglio 1938, 30 giorni di divieto per lo stesso motivo; 4 agosto 1938, il Ministero […] aggiunge anche due mesi di detenzione alla pena del 4 luglio; 19 dicembre 1938, ritradotto a Tremiti […]; 21 dicembre 1938, ritradotto carceri Foggia, in attesa punizione, essendosi nuovamente rifiutato di ottemperare all’obbligo del saluto romano; 31 dicembre 1938, l’On. Ministero […] autorizza infliggergli un altro mese di detenzione e lo trasferisce a Ventotene».
Infine Guastalli, senza mai aver alzato il braccio con la mano tesa venne rimandato a casa. Durante il periodo resistenziale divenne commissario politico della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini.
Pietro Borghi era nato a Poggibonsi nel 1898, di mestiere falegname. La data di nascita gli aveva garantito il “privilegio” di partire soldato nella Grande Guerra. Essendo iscritto a Psi dall’età di 18 anni fu uno dei tanti socialisti a vivere la contraddizione fra il rifiuto politico e morale del conflitto e l’onorevole partecipazione ad esso sancita dalla Croce al merito. Nel 1921 passò al PCd’I e ne condivise le fasi organizzative fra Poggibonsi e Colle Val d’Elsa, le due località che per un certo periodo ospitarono la sede della Federazione provinciale. Con la legislazione eccezionale passò all’attività clandestina fino al 1932, quando l’organizzazione comunista poggibonsese di cui faceva parte venne individuata. Borghi fu arrestato insieme ad altri suoi compagni, ma eludendo la sorveglianza, riuscì a scappare dalla caserma dei carabinieri dove era stato portato. La fuga lo condusse in Francia, ad Antibes e a Tolone, a svolgere azione politica e sindacale nell’emigrazione antifascista e in collaborazione con i comunisti francesi, poi in Spagna dove, come mitragliere antiaereo, si guadagnò una decorazione e il grado di tenente.
La Prefettura di Siena così ne delineava il profilo nel 1937: “Non ha desistito giammai dallo esternare i suoi inveterati sentimenti di inconciliabile odio verso il fascismo e il suo Capo del quale […] non ha esitato spesso, nelle lettere alla moglie, a preconizzare la morte. […] Tali suoi sentimenti hanno di recente avuto piena rispondenza nel gesto da lui compiuto arruolandosi nelle file rosse, il che rivela in lui maggiori sintomi di pericolosità […] esasperata anche dalla forzata lontananza dalla moglie e dal figlio per i quali nutre grande affetto e sa privi di aiuti”.
Tornato in Francia dopo la vittoria dei fascisti spagnoli, Borghi transitò in vari campi di prigionia per essere infine estradato in Italia e confinato a Ventotene. Rientrato a Poggibonsi nell’agosto 1943, divenne uno degli organizzatori del Cln della sua città e dei Gap Val d’Elsa.

BIBLIOGRAFIA

Bardini Vittorio, Storia di un comunista, Firenze, Guaraldi 1977

Guastalli Giovanni, Il boscaiolo, Mulano, La Pietra 1979

Burresi Francesco, Minghi Mauro, Poggibonsi dal fascismo alla liberazione, Poggibonsi 2019

Archivio di Stato di Siena, Questura, cat. A8, b. 93, f. Giovanni Guastalli

Archivio Isrsec, Fascicoli del Casellario politico centrale, Pietro Borghi




“Agire, Agire, Agire!”

Davanti alla scelta di entrare nel conflitto mondiale, i socialisti pistoiesi risentirono delle divisioni del PSI nazionale. La linea ufficiale era di neutralità assoluta, ma le correnti erano in disaccordo, fronteggiandosi su «L’Avvenire», organo locale del partito. I riformisti, maggioritari in città, adottarono un orientamento attendista. I massimalisti, forti nelle zone bracciantili e nelle industrie della montagna, erano fermamente neutralisti. Le sezioni pistoiesi risentirono dell’ambigua linea di condotta della dirigenza nazionale, mettendo al primo posto la salvaguardia dell’unità del partito. Al di là di organizzare conferenze contro la guerra per mobilitare i ceti popolari, il partito non seppe farsi guida delle spontanee agitazioni antibelliciste. Solo nell’area di Lamporecchio, per merito del sindaco Idalberto Targioni, le manifestazioni ebbero caratteri più organizzati, ma si esaurirono con l’intervento (maggio 1915).

Dopo l’ingresso in guerra, le fratture si acuirono. Alcuni importanti esponenti, come il riformista Amulio Cipulat (direttore de «L’Avvenire») e Targioni, lasciarono il PSI e si “convertirono” all’interventismo. Questi abbandoni provocarono un’emorragia di iscritti, che indebolì soprattutto i riformisti. I massimalisti – tra i quali emerse una frangia di sinistra animata da giovani militanti, che rivendicava una linea rivoluzionaria – guadagnarono posizioni nel partito e nel giornale, che divenne assai critico con la giunta comunale. Intanto, a partire dal 1916 si acuirono le tensioni sociali, con scioperi dei lavoratori e proteste delle donne delle campagne contro la guerra. Nei moti, i socialisti locali mantennero però un ruolo passivo. Il partito era stato minato dalle defezioni, dalla coscrizione obbligatoria e dagli arresti. La dirigenza era poi divisa sul da farsi. I riformisti non appoggiavano le proteste e favorivano la collaborazione con l’amministrazione. L’ala intransigente intendeva supportare le agitazioni popolari e operaie. I massimalisti ebbero la meglio nel convegno collegiale del luglio ’17 e votarono di seguire il modello bolscevico, spogliandosi «di tutte quante le ideologie borghesi e anteporre alla patria l’internazionale proletaria». Nondimeno, la stretta repressiva successiva a Caporetto frenò le pretese rivoluzionarie. «L’Avvenire» interruppe le pubblicazioni per le divisioni della redazione.

Concluso il conflitto, il PSI pistoiese ebbe una crescita considerevole. Nonostante il peso acquisito, nei moti popolari contro il caroviveri e negli scioperi del 1919, i dirigenti, in linea con la segreteria nazionale e d’accordo con i rappresentanti della Confederazione Generale del Lavoro, non tradussero in pratica il motto “Fare come in Russia”, mantenendo le proteste nella legalità. Per «L’Avvenire», dove era forte la componente riformista, i tumulti erano il male del proletariato perché «peggiorano la sua condizione, allontanano il giorno della sua completa emancipazione […] suo compito è quello di prendere il timone della cosa pubblica». La base locale, ormai radicalizzata, chiedeva però una svolta rivoluzionaria e guardò alla frangia comunista, strutturatasi attorno al gruppo dei giovani militanti estremisti. Dopo le elezioni nazionali del novembre 1919, vinte dal PSI nel circondario di Pistoia (49 %), i comunisti presero il sopravvento nella sezione cittadina e su «L’Avvenire», come prova la scelta dei redattori di inserire nella testata il motto di «Ordine Nuovo», la rivista di Antonio Gramsci: «Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza. Agitatevi perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la nostra forza». Nell’agosto 1920, anche la Camera del Lavoro passò sotto il loro controllo. Proprio per l’influenza dei comunisti, le proteste del ’20 assunsero caratteri anticapitalisti. Culmine delle agitazioni furono le occupazioni delle fabbriche nell’agosto-settembre, che nel pistoiese interessarono le officine metallurgiche, come la San Giorgio, e gli stabilimenti più piccoli. Gli scioperanti locali speravano nell’insurrezione, ma l’accordo tra sindacati, governo e industriali pose fine alle occupazioni ed esaurì la spinta rivoluzionaria.

Nonostante il fallimento delle proteste, il PSI vinse le elezioni amministrative dell’autunno, strappando ai moderati vari Comuni del circondario e il capoluogo, dove fu eletto l’avvocato Bartolomeo Leati. Le fratture interne al partito divennero, però, insanabili. Il congresso nazionale di Livorno, previsto per il gennaio 1921, appariva una resa dei conti tra i riformisti di Turati, i massimalisti di Serrati e i “comunisti puri” di Bordiga. Quest’ultimi erano maggioritari nel pistoiese ed richiesero la direzione nazionale, su «L’Avvenire», ad espellere i riformisti e ad avere una linea politica più vicina alla III Internazionale. Ugo Trinci invitò a mettere da parte le discussioni e ad «agire, agire, agire!». Intanto, lo squadrismo fascista intensificava le sue violenze.

Nel congresso circondariale del dicembre 1920, la mozione comunista ottenne una maggioranza netta, mentre in gran parte d’Italia prevalse la mozione massimalista. Al Congresso di Livorno (gennaio 1921) si consumò la spaccatura: prevalse la linea di Serrati, ossia tenere dentro i riformisti senza però sciogliere i nodi politici, mentre i comunisti si scissero dando vita al Partito Comunista d’Italia (PCdI). A Pistoia, gran parte della dirigenza, tra cui Trinci, e dei militanti del PSI passarono alla neonata formazione, che controllava anche la Camera del Lavoro – dove sedeva il bordighista Onorato Damen, un giovane poeta locale – e «L’Avvenire». Nel marzo, i resti del PSI pistoiese mandò alle stampe il nuovo organo: «L’Avvenire socialista». Iniziava una contesa politica che indebolì il movimento socialista e operaio, nel momento in cui l’unità era necessaria per opporsi al fascismo. La giunta Leati non resse alla scissione, dimettendosi nel maggio 1921. L’amministrazione comunale, per le divergenze tra comunisti e socialisti, rimase vacante fino all’agosto 1922 quando i fascisti ottennero il commissariamento del Comune.

Francesco Cutolo, perfezionando presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si è laureato in Scienze storiche all’Università di Firenze con una tesi dal titolo “L’influenza spagnola del 1918-1919: la dimensione globale, il quadro nazionale e un caso locale” , rielaborata e pubblicata nel 2020 per i tipi dell’Isrpt. È consigliere dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea di Pistoia e membro dell’associazione “Storia e città”. Fa parte delle redazioni delle riviste «Farestoria» e «Storialocale». È stato curatore delle mostre: “La città in guerra. Cittadini e profughi a Pistoia dal 1915 al 1918” (Pistoia, 2017); “Memorie d’autore. I grandi personaggi e la prima guerra mondiale” (Firenze,  2018; Montespertoli, 2019); “Le cicatrici della vittoria. Pistoia e le memorie della Grande Guerra” (Pistoia, 2019).




Gaetano Bresci

La sera del 29 luglio 1900, a Monza, il re d’Italia Umberto I si allontanava, a bordo di una carrozza scoperta, dalla palestra della società ginnica “Forti e liberi”, dove aveva premiato alcuni atleti. Ad un tratto, gli si avvicinò un giovane il quale, armato di una rivoltella, lo colpì a morte. Il giovane attentatore fu subito arrestato e identificato. Il suo nome era Gaetano Bresci, 31 anni, anarchico di Prato, della frazione di Coiano, di professione tessitore. Tornato da Paterson, negli Stati Uniti, dove era emigrato nel 1897, il Bresci aveva compiuto il gesto a seguito dei fatti del maggio 1898, quando il generale Bava Beccaris aprì il fuoco dei cannoni sulla folla che protestava per il rincaro del prezzo del pane, provocando 80 morti e 450 feriti e il monarca aveva premiato l’autore con la Gran Croce dell’ordine di Savoia, cercando di instaurare lo stato militare attraverso il governo del generale Luigi Pelloux. Era una cosa che l’anarchico pratese aveva ribadito più volte durante gli interrogatori: egli intese il gesto estremo per rendere giustizia alle vittime della strage di Milano e per opporsi a possibili regimi autoritari. Se il gesto in sé poteva dirsi esecrabile, rimaneva indubbio l’intento in funzione democratica che il suo autore aveva in mente. In quest’ottica, il Comune di Prato intese intitolare al Bresci una strada il 1 luglio 1976.

Il punto d’interesse diviene allora l’inquadramento della figura del tessitore anarchico, di quale fosse il suo contesto di formazione politico-sociale, delle inevitabili ricadute che su di esso vi furono dopo la morte del monarca, sull’inversa influenza che l’eco e il mito del Bresci hanno profuso negli ambienti libertari e cittadini (del suo paese natale) ed attraverso epoche e scuole politiche tra loro diverse. Gaetano Carlo Salvatore Bresci era nato a Prato il 10 novembre 1869 da Gaspare e da Maddalena Godi. Tessitore, come tanti cittadini della città del telaio, Bresci aveva passato una gioventù di lavoro tra spole ed orditi, al Fabbricone, la più grande industria tessile pratese e, successivamente, in imprese più piccole, lungo tutto un peregrinare tra Firenze, Compiobbi e Ponte all’Agna. Era in questo misto di laboriosità operaia e continui spostamenti che Bresci aveva visto la povertà delle campagne e maturò una l’insofferenza per l’ingiustizia contro gl’indifesi.

Ma l’esperienza personale si intrecciava ad una tradizione democratica e libertaria che a Prato aveva un senso comune di emancipazione popolare sin dai primi anni postunitari. Già da allora, i locali patrioti risorgimentali, guidati da Piero Cironi e, ben più a lungo, da Giuseppe Mazzoni erano i stati i padri fondatori di Società Popolari i cui statuti rovesciavano il rapporto mazziniano tra unità e libertà, facendo della prima un epifenomeno della seconda. La democrazia ebbe un suo primo punto di tangenza con l’anarchismo quando lo stesso Mazzoni conobbe personalmente Bakunin e ne divenne, per breve tempo, uno dei suoi principali referenti politici in Toscana. La stagione di contatto tra anarchia e democrazia laica fu di breve durata, si consumò tra la seconda metà degli anni Sessanta  e il 1871 e non corrispose ad un’evoluzione in senso libertario della sociabilità mazzoniana. Nondimeno l’avvicinamento tra le due sfere d’interesse dovette gettare i suoi semi. Meno di due anni dopo una prima sezione dell’Internazionale anarchica sorse anche a Prato. Sciolta dopo il tentativo insurrezionale organizzato dagli anarchici nel 1874, che dall’Emilia avrebbe dovuto irradiarsi a tutta la Penisola, si ricostituì alla fine del 1876. Insomma, il primo movimento anarchico pratese andò incontro ad una ridda di costituzioni e successivi scioglimenti di sezione che non ebbe soluzione di continuità sino almeno al 1892, quando, tramontata anche la quadriennale esperienza (1885-1889) del Nucleo Socialista Anarchico Amilcare Cipriani, fu il controverso personaggio di Giovanni Domanico a dare uno spessore più consistente al nucleo libertario cittadino. Era questo un gruppo che  rispecchiava la vocazione industriale di Prato non tralasciando gli antichi mestieri della città. In una lista stilata dalle autorità prefettizie di quegli anni, figuravano quaranta individui ritenuti anarchici attivi a Prato. Di essi, quasi la metà era impiegata nel settore tessile. La compenetrazione tra l’industria pratese e gli ambienti anarchici era quantomeno palpabile.

Fu in questo periodo e a tale ambiente che Bresci andò formando la propria personalità politica. Non a caso, il 2 ottobre 1892 si verificò un episodio che ebbe come protagonista il ventitreenne Gaetano Bresci, denunciato insieme ad altre quattro persone per aver preso le difese del garzone di un macellaio e condannato dal pretore a quindici giorni di reclusione. L’episodio è interessante perché dimostra che all’epoca – e quindi ben prima di emigrare negli Stati Uniti e di frequentare l’ambiente di Paterson – Bresci aveva già fatto proprie le idee anarchiche e conosceva esponenti del movimento libertario assai noti a livello cittadino: degli altri quattro imputati, infatti, tre (Artamante Beccani, Antonio Fiorelli ed Augusto Nardini) erano anarchici. Fu dunque il Bresci ad arricchire con le proprie idee il movimento negli Stati Uniti e non (o quanto meno non solo) l’anarchismo di Paterson a formare le idee di Bresci.

Stabilita la formazione di Bresci, è necessario comprendere le conseguenze avute dal suo gesto. Nel periodo che seguì il regicidio gli anarchici pratesi furono ovviamente esposti ad un intensificarsi della vigilanza e della repressione. Bresci morì (presumibilmente ucciso) nel carcere di Santo Stefano sulle isole Pontine, il 22 maggio 1901. Subito dopo l’attentato, a Prato furono operati diversi arresti, ma non per questo i libertari interruppero la loro attività, impegnandosi a fondo, negli anni successivi, nella campagna contro il domicilio coatto, nell’agitazione pro Acciarito e nei moti pro Ferrer. Più concretamente, come dimostrato in recenti pubblicazioni, il gesto di Bresci fu l’atto più eclatante dell’anarchismo pratese che, seppur presente fino almeno alla Liberazione, andò incontro ad una lenta ma costante discesa tanto da far affermare ad Anchise Ciulli, uno dei suoi più importanti esponenti, nel 1946 : « oggi questa città segue pochissimo le orme del suo grande figlio Gaetano». Molto più duraturo fu il mito di Bresci e la fascinazione avuta da più sponde.  Ed ancora nel secondo dopoguerra poteva essere letto non solo di celebrazioni anarchiche che accostavano Bresci a Malatesta e Pietro Gori, alla Comune di Parigi e alla Guerra di Spagna, ma anche di alcuni timori prefettizi per manifestazioni in ricordo all’attentatore pratese. Di forte impatto e grande eco fu l’iniziativa che nel 1986 vide erigere a Carrara un monumento dedicato a Gaetano Bresci. Iniziative in ricordo del tessitore anarchico, per quanto in maniera sempre più episodica e onomastica, si sono svolte anche a Prato. A tal proposito è per lo meno da segnalare il ritrovo che portò nuclei anarchici a ricordare Bresci nella via a lui intitolata e a segnalare secondo quanto riportato da un volantino di allora che «Bresci rivive […] in ogni azione di chi si oppone all’arroganza e alla violenza del potere». Ed è in quest’ottica che la figura di Gaetano Bresci va ancora oggi intesa: uno sguardo che dia conto tanto allo studioso esperto quanto al curioso appassionato sia dei numerosi spunti e temi dei quali il mito dell’“anarchico venuto dall’America” è divenuto parte integrante sia della tensione sociale alla quale la sua figura sia stata soggetta con il passare il tempo.

 




Lasciare l’Italia fascista, per un mondo migliore

L’emigrazione intellettuale dall’Italia durante gli anni del governo fascista è un fenomeno ancora poco conosciuto. Nel tracciare la parabola della persecuzione degli ebrei, l’attenzione degli storici è stata indirizzata maggiormente verso i risvolti più drammatici, come la deportazione, mettendo in secondo piano le vicende di quelli che furono costretti a lasciare l’Italia prima dell’inizio della Seconda guerra mondiale.

La fascistizzazione nelle istituzioni pubbliche spinse alcuni ‘indesiderabili’, ebrei e non – come il ben noto Gaetano Salvemini –, a partire prima che le leggi razziali emanate nel 1938 estromettessero dagli incarichi scolastici e universitari tutti gli studenti, studiosi, ricercatori e professori censiti come ebrei che si ritrovarono senza lavoro e senza possibilità di future assunzioni in Italia.
Le perdite per la cultura italiana furono significative e spesso irreparabili anche perché molti non ritornarono in patria dopo la fine della Seconda guerra mondiale, a volte per volontà stessa dei protagonisti o dei loro figli di restare all’estero, più spesso per gli ostacoli frapposti specialmente dalle università italiane che preferivano mantenere gli organici già formati con chi aveva preso il posto degli espulsi. Venne così sprecata l’opportunità di recuperare risorse con un bagaglio culturale arricchito da esperienze in altri paesi dopo un ventennio di autarchia e isolamento internazionale della cultura e della scienza, per il progredire delle quali è necessaria un’apertura mentale che solo la circolazione delle idee permette. Una fuga di cervelli paragonabile per certi versi a quella che attualmente caratterizza la vita culturale italiana, soprattutto nei casi in cui la scelta di partire precedette il 1943 e non fu quindi propriamente obbligata.

Analizzando e collegando tra loro queste vicende, il progetto di ricerca Intellettuali in fuga dall’Italia fascista. Migranti, esuli e rifugiati per motivi politici e razziali ha lo scopo di rendere più completo il quadro di un fenomeno relativamente ignorato anche perché sottostimato numericamente. Gli elenchi degli espulsi dalle università nel 1938, che solo dal 1997 sono stati ricostruiti non definitivamente, non rendono conto delle perdite effettive nella cultura italiana, che non si limitano agli allontanamenti ufficiali o al solo anno 1938: i liberi docenti non furono ufficialmente espulsi, ma dichiarati “decaduti” dal titolo, mentre al personale universitario non strutturato semplicemente non fu rinnovato il contratto. Si devono includere inoltre gli studenti e i neolaureati a cui di fatto fu preclusa qualsiasi carriera, così come i neodiplomati che non potevano immatricolarsi all’università. È su questa complessità, quantitativamente meno definita ma più realistica rispetto al contesto dell’epoca, che si basa il lavoro di censimento e di ricostruzione storica diretto dalla Professoressa Patrizia Guarnieri, promosso dall’Università di Firenze, finanziato dalla Regione Toscana e patrocinato dalla New York Public Library, dal Council for At-Risk Academics di Londra, dal J. Calandra Italian American Institute e dal Central Archives for the History of Jewish People di Gerusalemme. I profili biografici estrapolati dalla ricerca hanno reso necessaria l’analisi di numerose fonti di diversa natura, come gli archivi delle organizzazioni internazionali di aiuto, quelli delle istituzioni e dei luoghi dove approdarono i fuoriusciti, le loro eventuali memorie e corrispondenze; o ancora le testimonianze degli eredi, fonti preziose ma da verificare con cautela perché a volte discordanti dai documenti ufficiali.

Il focus della ricerca sugli intellettuali ha rivelato un campione eterogeno di profili. Le storie raccontano di donne e uomini, tra cui alcuni scienziati famosi come Rita Levi Montalcini o il fisico Bruno Rossi, che partivano da condizioni molto diverse e che dovettero affrontare difficoltà di varia natura legate all’età, al genere, alla situazione familiare, alla disciplina o alla professione praticata, alla conoscenza di altre lingue, alla rete di contatti personali. Difficoltà e disagi in genere sottaciuti, anche dagli stessi protagonisti a distanza di tempo, ma che emergono dalle lettere di allora, dai diari e dalle richieste di aiuto: l’angoscia della lontananza dai propri cari, la difficoltà di procurarsi i documenti per emigrare e di cercare lavoro altrove, gli stereotipi che colpivano sia gli italiani che gli ebrei, discriminati dalle stesse comunità degli emigrati italiani soprattutto se antifascisti. Chi si recò in Francia o in altri paesi vicini dovette poi scappare altrove a causa dell’occupazione nazista. Alcuni andarono in paesi con situazioni politiche e militari di cui rimasero vittime, come Anna Di Gioacchino Cassuto e Enzo Bonaventura in Palestina o Aldo Mieli in Argentina. Chi rimase in Italia fu costretto a nascondersi o a tentare la fuga in Svizzera nel 1943. Se gli studiosi e i professionisti italiani ricorsero in parte alle organizzazioni internazionali di aiuto che erano sorte per gli intellettuali tedeschi nel 1933, soprattutto all’Emergency Committee di New York e alla Society for the Protection of Science and Learning di Londra, o ai comitati di aiuto per i rifugiati creati da varie associazioni scientifiche e professionali americane, in molti casi contarono altre conoscenze: quelle antifasciste o quelle del sionismo, entrambe reti internazionali; o ancora i contatti di tipo professionale, gli amici e i parenti, proprio come nell’emigrazione comune.

Il perno principale del progetto dal punto di vista divulgativo è costituito dal sito internet ad accesso gratuito http://intellettualinfuga.fupress.com, presente anche in lingua inglese al link http://intellettualinfuga.fupress.com/en.
Il portale è costituito da pagine introduttive agli argomenti indicati nel sommario: una sezione, per esempio, è dedicata alle norme discriminatorie e persecutorie del regime fascista nonché al lungo percorso riparatorio avviato nel dopoguerra nei confronti di quanti erano stati colpiti dalle precedenti disposizioni. Al centro, un elenco alfabetico di intellettuali in fuga, donne e uomini, che è stato finora possibile identificare e che viene via via aggiornato. Ad oggi sono circa 380 nomi, http://intellettualinfuga.fupress.com/schede/indice/6: tutti in qualche modo legati alla Toscana. Per ogni nome viene costruita una scheda in cui è possibile leggere o scaricare il pdf dell’articolo che narra non una biografia generale ma la storia personale, spesso avventurosa e travagliata, dell’esperienza di espatrio; sono poi presenti degli approfondimenti sintetici sui i familiari emigrati, la rete di contatti che favorì l’emigrazione, la ricerca del lavoro, una mappa della mobilità, una linea temporale che segnala i vari spostamenti e una galleria di fotografie, per lo più offerte dai parenti proprio per questa ricerca. Oltre a essere utile per lezioni e ricerche scolastiche e universitarie, le storie di vita riportate sono rivolte ad un pubblico non specialista.
La presenza in rete offre una maggiore visibilità che favorisce a sua volta la crescita del progetto stesso, che è in progress e aperto sempre a nuove acquisizioni: chiunque abbia informazioni utili può contribuire con documenti, foto e testimonianze contattando patrizia.guarnieri@unifi.it.




“Una svolta verso il nulla”.

Nota biografica.

Riccardo_Margheriti

Riccardo Margheriti (Wikipedia)

Riccardo Margheriti nasce a Chiusi (Siena) il 4 gennaio 1938, da una famiglia di umili origini ma dalla forte identità antifascista. Si iscrive alla Federazione giovanile comunista italiana (Fgci) nel 1953, ancora giovanissimo, divenendo segretario della sezione di Chiusi già l’anno seguente. La sua principale attività si svolge tuttavia inizialmente nell’ambito sindacale, nella Cgil, prima nella Camera del lavoro di Chiusi, poi nella Valdichiana e infine a Siena quale direttore provinciale dell’Inca, l’Istituto nazionale confederale di assistenza. Vicesegretario e poi dal 1975 segretario della Federazione senese del Partito comunista, è consigliere comunale a Siena dal 1968 al 1983. È senatore della Repubblica dal 1983 al 1992, ricoprendo la carica di vicepresidente della Commissione agricoltura e produzione agroalimentare. Prosegue poi la propria attività nel settore agroalimentare, come presidente dell’Ente nazionale mostra mercato dei vini doc e vicepresidente, e poi presidente, del Comitato nazionale per la tutela e valorizzazione dei vini doc presso il ministero delle Politiche Agricole e Forestali.

Avvertenza: Nella trascrizione dell’intervista si è cercato di conservare inalterati gli aspetti peculiari del parlato, limitando gli interventi correttivi sul testo al minimo indispensabile e inserendo eventualmente nelle note a piè di pagina ulteriori informazioni o chiarimenti. L’intervista è stata realizzata il giorno 11 luglio 2020 da Riccardo Bardotti e Michelangelo Borri, presso la segreteria dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia – Sezione di Siena; la versione integrale è conservata presso l’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Per informazioni su letture preliminari ed approfondimenti, rimandiamo a QUESTO articolo della nostra Redazione.

 

D. Senatore Margheriti, può dirci brevemente in che modo ricorda la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989? Quali furono le prime riflessioni che formulò di fronte a tale evento?

R. Io ero ancora in Parlamento in quel periodo; io rimasi un po’ sconcertato, francamente, non tanto dal crollo del Muro di Berlino, ma dal modo in cui avvenne e dal fatto che non ci fosse stata reazione; e quindi mi fece capire che, fortunatamente, anche da parte di chi sarebbe potuto, come aveva fatto in precedenza, intervenire anche in modo armato, non lo aveva fatto; e quindi si apriva davvero una possibilità di autonomia anche del Partito comunista italiano – dell’ex Partito comunista italiano a quel punto –, per una strada nuova che io vedevo e continuo a vedere, di tutte le forze che attorno alle forze ideali del socialismo possono raggrupparsi…

D. E quali conseguenze produsse questo avvenimento all’interno del Partito comunista italiano, che già stava attraversando una fase complessa della propria storia politica?

R. Intanto era matura una consapevolezza con le discussioni che si erano avute dopo le diverse invasioni che c’erano state da parte dell’esercito sovietico, o comunque del patto di Varsavia, in altri paesi prima ancora dell’‘89 e la discussione che si è sviluppata all’interno del partito aveva, ripeto, maturato una consapevolezza che le cose non potevano continuare e che era indispensabile, nelle forme che sarebbero state possibili, cambiare e cambiare tutto in quel paese e nei paesi dell’Est europeo. In qualche modo dà ragione a questa convinzione il fatto che non c’è un intervento, neanche della polizia oltre che dell’esercito, al crollo del Muro di Berlino e all’uscita dalla Germania dell’Est di tanti cittadini che vanno a riabbracciare parenti, amici e così via, ma comunque che guardano alla libertà che si era costituita e realizzata nella Germania Ovest dopo la guerra e fino a quel momento. Quindi un fatto molto positivo, che imponeva ulteriore riflessione anche a noi e imponeva anche a noi di cambiare rotta, in primo luogo non solo riducendo ma azzerando i rapporti col Partito comunista dell’Unione Sovietica – del quale si diceva quel punto peste e corna, devo dire, anche all’interno del nostro del nostro partito – nonostante le speranze che aveva sollevato l’elezione di [Michail] Gorbačëv [1] e l’inizio, vero, della destalinizzazione in quel paese… Quindi una cosa, un momento di grandissimo rilievo, che imponeva, ripeto, scelte nuove anche a noi; scelte che non dovevano portare al superamento dei caratteri fondamentali del Partito comunista italiano, perché di fatto, in Italia, il Partito comunista era davvero il partito del socialismo europeo, cosa che non era il partito di [Bettino] Craxi [2]; era un partito riformatore e allo stesso tempo un partito di governo, capace quindi di affrontare i problemi dei cittadini e di tentare di dare risposte. Gli enti locali amministrati dal Partito comunista italiano e le regioni – che erano nate da non molto tempo, nel 1970 – amministrate dal Partito comunista italiano, avevano costruito lo Stato sociale, avevano costruito gli asili nido, le scuole materne e così via, nonostante l’indebitamento degli enti locali – ai quali venivano trasferiti pochi finanziamenti – ma che venivano incoraggiati, i nostri sindaci, a indebitarsi ulteriormente, purché l’indebitamento andasse verso la costruzione di uno Stato sociale vero, che consentisse, ad esempio, anche alle donne di non dover rimanere in casa ma di poter lavorare nonostante la presenza dei figli che dovevano essere curati; e doveva dare risposte sul piano del lavoro, dei diritti dei lavoratori nel luogo di lavoro e all’esterno, doveva dare risposte sulla partecipazione – prevista dalla Costituzione della Repubblica del popolo italiano – a scegliere liberamente chi doveva governarlo e a far rispondere chi lo governava ai problemi che gli venivano posti.

D. E invece con la cosiddetta svolta della Bolognina, la direzione intrapresa è quella di un superamento dell’esperienza politica e culturale del Partito comunista italiano. Come reagiscono da una parte la base e dall’altra i quadri intermedi del partito?

R. Con la svolta della Bolognina [3] intanto c’è sconcerto, nessunoavrebbe mai pensato di punto in bianco di dire: “ora si cambia nome, simbolo e il Pci non ci sarà più”. Perché naturalmente la vicenda del Pci è una vicenda non soltanto politica e culturale, è una vicenda anche umana, di formazione della persona dall’interno e nel rapporto con gli altri; era stato costruito un pezzo di società, non era soltanto un partito. La paura del crollo vinse non nella gente ma in chi fece quel tipo di svolta, vinse la paura che col Muro di Berlino finisse il Pci, e sbagliando valutazione su cosa fosse il Partito comunista italiano rispetto ai partiti al potere nell’Est… Naturalmente, far digerire la svolta alle sezioni del Pci, iscritti e così via fu una cosa non terribile, impossibile. E quindi avemmo una parte, che erano i gruppetti dirigenti, che essendo stati educati un po’ al mito anche della personalità del segretario nazionale del partito, continuavano ad avere questa visione anche nei confronti di Achille Occhetto [sorride] [4], dopo [Enrico] Berlinguer, dopo [Palmiro] Togliatti, dopo [Luigi] Longo e quindi seguivano la linea di Occhetto; e la base che se ne andava… E infatti noi perdemmo tanti voti, una parte andarono in Rifondazione [comunista]… Ma gran parte degli elettori e degli iscritti al Partito comunista prima della svolta non passò da un’altra parte, passò all’astensione, rimase a casa…Vivemmo una vicenda terribile, terribile, terribile.

L'Unità del 14 novembre 1989

L’Unità del 14 novembre 1989

D. Più in generale, quale fu l’atteggiamento delle altre forze politiche in quel frangente?

R. Naturalmente la paura del comunismo, che aveva consentito di escludere il Partito comunista dal Governo fino all’uccisione di [Aldo] Moro [5] – che poteva rappresentare invece, assieme a Berlinguer, la possibilità di mettere insieme le forze sane del paese per risolvere le questioni gravissime che stavamo attraversando – viene vissuta come una vittoria nei confronti dei comunisti e quindi come se il Partito comunista italiano, pur realizzando una svolta, dovesse in qualche modo e potesse scomparire perché non aveva più, diciamo così, il piedistallo sul quale appoggiarsi per rimanere in piedi e per continuare la propria funzione. Il partito della Democrazia cristiana quindi ha questo orientamento, il Partito socialista – sbagliando grossolanamente – con la proposta dell’Unità socialista, con Craxi ancora segretario, cerca di annettere il Partito comunista nel proprio partito… Poi matura ancora di più la vicenda della questione morale, che esplode proprio nel ‘92 con Tangentopoli, per cui la Democrazia cristiana viene azzerato nel gruppo dirigente; il Partito socialista viene azzerato nel gruppo dirigente o quasi; Craxi si dimette da presidente del Consiglio, aggredito dai soldi che gli vengono gettati contro – dai soldini, le lire – quando esce dall’ albergo per andare a Palazzo Chigi [6] ; si dimette e quindi, ecco, si va verso in qualche modo lo sfarinamento dei partiti di massa, che erano i partiti che avevano fatto la guerra di Liberazione, la Costituzione e ricostruito in qualche modo il paese nel dopoguerra, e si va verso, verso il nulla… E si sostituisce tutto questo, a quel punto, con le singole personalità e i comitati elettorali che devono tenerle in piedi, eleggerle e dalle quali dipendere.

D. Come è cambiato il modo di fare politica in Italia negli ultimi decenni e quali sono, a suo avviso, le principali cause dell’attuale situazione di crisi che stanno attraversando il sistema politico e la classe politica nel nostro paese?

R. [Oggi] ci si mobilita soltanto attorno alle persone e alle elezioni, naturalmente non essendo in campo invece tutti i giorni, sui problemi concreti all’interno dei luoghi di lavoro, nella scuola, nella sanità, ovunque; e senza avere questo tipo di presenza continua naturalmente, non racimola più voti, lascia anzi, spesso continuano ad astenersi anche quelli che hanno in fiducia – magari anche non del tutto condivisa ma in fiducia –, votato fino a ieri. Non c’è la ricerca, anche perché la scelta del partito “all’americana”, del partito che deve raggiungere la maggioranza da solo, rispetto alle diversità culturali, politiche esistenti in questo paese, storicamente, non funziona, perché è sempre legato al voto per qualcuno, non per qualcosa ma per qualcuno, il quale ci risolverà tutti i problemi… Personalizzi il tutto e attorno alla persona fai il comitato elettorale, ma non un partito politico che ha l’ambizione di essere di nuovo un partito di massa; diventa un partito d’élite che cerca di imbonire la massa e di chiedere alla massa fiducia e voti, e la massa si allontana… [l’elettorato] non ha fiducia in questo tipo di politica, in questo tipo di partiti, in questo tipo di personaggi, perché non gli offre un qualcosa in cui credere e per il quale lottare, e ottenere un qualche cambiamento…

Note al testo

[1] Michail Gorbačëv (1931), segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1985 al 1991, promotore di una serie di riforme che condussero alla fine della Guerra fredda e alla fine dell’esperienza di governo sovietico nell’Europa dell’Est.

[2] Bettino Craxi (1934-2000), segretario del Partito socialista italiano dal 1976 al 1993 e presidente del Consiglio dei Ministri dal 1983 al 1987.

[3] Si indica comunemente con tale espressione il processo politico avviatosi nel novembre 1989 nell’omonimo rione di Bologna e conclusosi nel febbraio 1991 con lo scioglimento del Partito comunista italiano e la conseguente nascita del Partito democratico della sinistra.

[4] Achille Leone Occhetto (1936), è stato l’ultimo segretario del Partito comunista italiano.

[5] Aldo Moro (1916-1978), fondatore, poi segretario e presidente della Democrazia cristiana, più volte presidente del Consiglio dei Ministri tra il 1963 e il 1976. Fu rapito e ucciso dalle Brigate rosse nel 1978.

[6] L’episodio ebbe luogo nell’aprile 1993, quando Craxi venne fortemente contestato a Roma, all’uscita dall’hotel Raphael, da un gruppo di manifestanti che gli lanciò contro delle monetine, come risposta alle accuse di corruzione formulate a carico del leader socialista.




La “Banda Carità”. Il Reparto servizi speciali. 1943-1945.

Nella vicenda dei “seicento giorni di Salò” compaiono storie di reparti che hanno fatto dell’uso della violenza la loro essenza. Spesso la loro parabola è liquidata come fosse romanzesca, tra omissioni e ricerca del gusto dell’orrido, mischiando al sangue il sesso oppure l’uso di stupefacenti. Occorre tralasciare questi aspetti esteriori e tendere invece a uno studio puntale e scientifico di queste formazioni, per comprendere appieno le vicende e le dinamiche spesso ancora nascoste dell’ultimo Fascismo.
La “Banda Carità” è uno dei reparti che operano durante il periodo della Repubblica Sociale. La sua denominazione ufficiale è Reparto servizi speciali, ma il nome di comune utilizzo rimane il primo, poiché è quello conosciuto dalla memoria collettiva, da chi subisce le imprese del reparto: i cittadini della Firenze occupata. Lo stesso nome, peraltro, è utilizzato anche dai giudici della Corte Straordinaria d’Assise di Padova che celebrano il primo processo nell’ottobre 1945. Uscendo dall’aspetto nominale, sappiamo che questo reparto è in realtà efficiente e disciplinato, capace di mettere a segno svariate operazioni antipartigiane con notevole successo.
Il reparto nasce subito dopo l’Otto settembre, come tanti altri reparti fascisti che si riorganizzano dopo l’armistizio. Chi lo crea e lo comanda è il centurione Mario Carità, un milanese trasferitosi per motivi non chiari – forse un allontanamento “politico” – da Milano a Firenze nel 1936. Durante la guerra partecipa come volontario alla campagna in Albania, dove, però, rimane poco. L’Otto settembre si trova a Bologna e qui, da subito, cerca di ricostituire le file fasciste. Tornato poco dopo a Firenze, all’interno della ricostituita Novantaduesima legione della Milizia, organizza un reparto particolare, il Reparto servizi speciali che, nelle intenzioni di Carità, dovrà lottare contro i nemici del Fascismo, sia dentro, sia fuori: i partigiani da una parte, i traditori della Repubblica Sociale dall’altra. I componenti del reparto sono in forza alla Compagnia comando della Novantaduesima legione di sede alla Caserma Caveri, in via della Scala.

villa-triste1Nel corso della sua storia, il reparto cambia poi più volte sede: prima in via Benedetto Varchi, poi in via Foscolo per approdare infine, nell’ultimo periodo fiorentino, nella sede più conosciuta, quella in via Bolognese 67, denominata “villa Triste”. Il reparto coglie diversi importanti successi contro la Resistenza a Firenze, come l’arresto di molti dirigenti partigiani fiorentini, tra cui Max Boris, in via Guicciardini nel febbraio 1944. Riesce a intercettare buona parte del materiale aviolanciato, nascosto in via dei Mille, oltre alla linotype con cui si stampa il giornale della resistenza fiorentina “La Libertà”. Agli inizi del giugno 1944, infine, cattura tutti gli operatori della missione alleata di Radio CO.RA: quest’operazione culmina con la strage al torrente Terzolle in località, dove sono fucilati assieme alla partigiana Anna Maria Enriques Agnoletti e ad un partigiano cecoslovacco, Italo Piccagli e l’avvocato Enrico Bocci, il cui corpo non è più ritrovato.

Nel luglio del 1944 il reparto si sposta a Bergantino, in provincia di Rovigo, città natale di Giovanni Castaldelli, vicecomandante. Agli inizi di novembre si sposta a Padova, probabilmente su richiesta del capo provincia Federigo Menna, che ha impostato una politica esclusivamente repressiva nei confronti della Resistenza. La collaborazione tra gli elementi periferici della Repubblica Sociale e il reparto non viene mai meno, tanto che al reparto è concessa un’autonomia esclusivamente operativa ma non strategica. Nella città veneta la “banda Carità” coglie i più brillanti successi operativi che si possano attribuire a un reparto di polizia di Salò: la distruzione della rete GAP a Padova e provincia, alla fine del novembre ’44 e la cattura quasi per intero del CLN veneto. A Padova il reparto collabora, in modo più stretto che in passato, con il comando SS di piazza.
Alla Liberazione buona parte dei componenti fuggono verso nord, seguendo le truppe tedesche in ritirata. Diversi sono catturati nel mese di maggio, mentre Mario Carità è ucciso a Siusi il 19 maggio in uno scontro a fuoco con soldati alleati.
Seguono due processi, celebrati uno a Padova nell’ottobre 1945, in seguito al quale è eseguita una condanna a morte e uno a Lucca, nel 1951. Molti membri del Reparto sono condannati a pene detentive, ma beneficiano successivamente di amnistie e sconti di pena. Gli ultimi militi condannati sono liberati a metà degli anni Cinquanta.

*Riccardo Caporale, è ricercatore libero professionista presso istituti storici, enti locali e fondazioni. I suoi interessi di studio ruotano attorno ai temi della Repubblica sociale italiana, dei suoi corpi interni e dei mancati processi ai fascisti nel dopoguerra.
Fra le sue pubblicazioni: La “Banda Carità”. Storia del Reparto Servizi Speciali (1943-45), Edizioni S. Marco Litotipo, 2005; Le SS italiane: un corpo ed una memoria, in Le armi della RSI (1943-1945), «Studi bresciani» Quaderni della Fondazione Micheletti, 20, 2010; voci Brigate nere, SS italiane, Legione Muti in G. Albanese – M. Isnenghi (a cura di), Il Ventennio Fascista, vol. IV de Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai nostri giorni con la direzione scientifica di M. Isnenghi, Utet, 2008-2009.




Luigi Bertelli – Vamba

Luigi Bertelli, che diverrà famoso con lo pseudonimo di Vamba, nasce a Firenze il 19 marzo 1860, pochi giorni dopo il plebiscito che decretò con il suffragio universale maschile l’annessione della Toscana al Regno di Sardegna. Cresce in una famiglia censita come benestante impregnato dalle aspirazioni e dalle idee del Risorgimento nazionale. Abbraccia gli ideali mazziniani e la fede repubblicana che lo porteranno, dopo una breve esperienza impiegatizia alle Ferrovie adriatiche del finanziere toscano Piero Bastogi, a intraprendere la strada di giornalista politico, osservatore attento e critico della vita nella capitale romana dove si era trasferito. La politica italiana, nel frattempo, era passata in mano ai governi della sinistra dopo che la destra storica di Minghetti era andata in crisi nella seconda metà degli anni ’70 proprio sul controllo statale delle Ferrovie e per l’abbandono  di alcuni suoi deputati tra i quali Ubaldino Peruzzi.  Agostino Depretis, mazziniano e anticlericale,  fu il principale interprete della sinistra fino a tutti gli anni ’80: quattro volte Presidente del Consiglio, insieme all’eliminazione dell’odiata tassa sul macinato e a importanti riforme sociali, per dar maggiore forza al governo, diede inizio alla politica del ‘trasformismo’ che accettava l’appoggio degli avversari. Bertelli, in questi accordi tra gli opposti schieramenti politici, vedeva gli interessi velati, l’arrivismo personale, la moltiplicazione delle spese dello stato e si diede a evidenziarli con l’ironia, con il disegno caricaturale, cercando sempre una relazione con la realtà dei fatti.
Il nostro scrittore scelse dunque di essere un’anima critica esterna al potere, sempre pronto a evidenziarne le debolezze con ironia e sagacia come un antico giullare. Assunse perciò il nome di Vamba clonandolo dal Wamba, giullare della corte di Cedric, deus ex machina di Ivanhoe  romanzo di Walter Scott. Produsse scritti satirici, disegni e caricature che trovarono accoglienza in «Capitan Fracassa», 1884-1887, «Barbabianca», 1887, «Don Chisciotte», 1887-1899, «Il pupazzetto», 1886-1890 del quale scrisse e disegnò interi numeri.  Rientrò a Firenze per dirigere il «Corriere italiano» nel 1889 ma non riuscì ad ottenere l’autonomia e indipendenza  desiderata. Fondò e diresse «L’O di Giotto» un settimanale spigliato, di facile lettura, aperto al teatro e alle arti che fustigava ironicamente negli scritti e nei disegni i vizi civili dei personaggi politici, le spese militari eccessive, l’adesione alla Triplice alleanza, il pareggio di bilancio elevato a idolo supremo dell’azione governativa .

Il fervore delle idee radicali repubblicane non abbandona Bertelli che inizia a provare anche nuove vie. Molti aderenti al movimento risorgimentale che non avevano visto concretizzarsi gran parte delle loro aspirazioni ideali nella nuova nazione, si erano dedicati all’educazione del popolo: il fiorentino Pietro Dazzi, accademico della Crusca, diede vita alle Scuole del popolo; Carlo Lorenzini,  il famoso Collodi, fondatore e direttore di uno dei maggiori giornali umoristici della metà dell’Ottocento «Il lampione», volontario combattente nelle guerre d’Indipendenza,  si dedicò all’educazione dei giovani con Giannettino, Minuzzolo e le Avventure di un burattino che fecero assurgere Pinocchio a emblema della presa di coscienza di sé nel processo di crescita. Il torinese Edmondo De Amicis pubblicò Cuore nel 1886 che divenne la summa etico morale degli ideali risorgimentali laici. Senza dimenticare Ida Baccini con il grandissimo successo del suo Memorie di un pulcino, 1875, che utilizza l’antromoporfismo per affascinare i giovani lettori. Bertelli pubblica nel 1896 il suo primo libro di lettura per ‘giovanetti’: Ciondolino, storia di una ragazzo insofferente alle regole che aspira alla libertà del mondo animale e in particolar modo delle formiche, ma viene trasformato in una formichina e scopre le regole, il lavoro, l’organizzazione del formicaio e della sua ‘società’. Un processo di apprendimento fondamentale per la crescita e per la partecipazione cosciente alla vita.  L’autore non si limita al solo messaggio etico ma coglie l’occasione per iniziare una vera e propria divulgazione scientifica entomologica.

Il polemista ironico Bertelli-Vamba, sempre più disilluso dalla politica praticata nelle istituzioni e dal qualunquismo degli adulti, concentra ora le sue capacità nel messaggio educativo verso il mondo giovanile ideando, nel 1906 con l’editore Bemporad, un nuovo settimanale, «Il giornalino della domenica». Leggero, illustrato con disegni di qualità e foto, ricco di rubriche con interventi di scrittori affermati e di giovani intellettuali dal carattere spigliato, si propone di creare una comunità giovanile con organi associativi, tematici e decisionali per preparare alla vita adulta. I giovani vengono invitati a diventare attori della propria esistenza e a produrre un notiziario, «Il passerotto», per provare a esprimere opinioni e idee.  «Il giornalino della domenica» ha una confezione elegante a colori e un costo elevato (25 centesimi contro i 10 del «Corriere dei ragazzi») e si rivolge alle famiglie del ceto medio coinvolgendole non solo nell’acquisto della pubblicazione, ma nel messaggio pedagogico che si vuol trasmettere contro le ‘finzioni’ del mondo adulto.  In questo ambito Bertelli-Vamba viene a conoscenza di un racconto americano A Bad Boy’s Diary pubblicato dalla scrittrice progressista Metta Victoria Fuller sotto lo pseudonimo di Walter T. Gray e tradotto da Ester Modigliani con il titolo Memorie di un ragazzaccio. Bertelli-Vamba ne riprende la forma di diario e nasce Giannino Stoppani: dà una continuità temporale agli episodi che vedono questo ragazzino protagonista nel dissacrare l’ordine fasullo e formale degli adulti e affermare, scherzando, irriverenti verità non sempre accettabili. È un successo, Il giornalino di  Gian Burrasca esce a puntate su «Il giornalino della domenica» e poi in volume sempre da Bemporad nel 1912, la prima di centinaia di edizioni. Mentre il governo elimina gli ultimi ostacoli, di censo e istruzione, al voto universale maschile e nazionalizza le ferrovie aprendo a riforme sociali, Bertelli-Vamba fonda la sua repubblica tra i lettori de «Il giornalino della domenica» per liberare le energie della gioventù avvalendosi di numerosi intellettuali che condividono il suo intento. Tra questi ricordiamo: I. Baccini, P. Calamandrei, L. Capuana, E. De Amicis, G. Deledda, R. Fucini, D. Garoglio, P. Mantegazza,  U. Ojetti, G. Pascoli, D. Provenzal. Aveva parlato a tutti i giovani italiani, anche a quelli delle terre ancora nell’Impero austriaco, creando un legame personale e una immedesimazione nell’irredentismo.  Se il successo culturale del «Il giornalino della domenica» è indubbio, le vendite non sono sufficienti a sostenerlo e nel 1911 è costretto a chiudere. Bertelli continua l’attività scrivendo un libro scolastico per le scuole elementari, Il giardino, e articoli polemici anti-imperiali e di rivendicazione antiaustriaci nel clima sempre più aspro dell’interventismo e della prima guerra mondiale.

Nel dopoguerra è affascinato dall’esperienza fiumana di D’Annunzio e dalla costituenda Repubblica del Carnaro che mescola patriottismo, eroismo, volontarismo e aspirazioni sociali e di democrazia. Vi trascorre alcuni mesi alla fine del 1919. L’Italia usciva dalla guerra fortemente indebitata e Bertelli-Vamba volle impegnarsi per il successo del Prestito nazionale, il primo per la ricostruzione e la vita, dopo i tanti investimenti governativi per la guerra e la morte. Girando il paese per propagandare il Prestito, nel 1920 contrasse l’influenza spagnola, l’epidemia  che proprio cent’anni fa stava falcidiando le popolazioni di tutto il mondo, e morì a 60 anni a Firenze il 27 novembre 1920.

Fu sepolto al cimitero delle Porte Sante e il monumento funebre venne commissionato allo scultore Libero Andreotti.  I necrologi e i ricordi furono numerosi e retorici:  vogliamo citare tra i tanti un brano di Piero Calamandrei, già giovane autore del  «Giornalino della domenica», su un numero unico del Comitato delle città redente: “… L’insegnamento di Vamba si compendia in due concetti: Patria e Umanità. Il suo programma, schiettamente mazziniano, non si fermava alla Patria: come l’amor della famiglia fu per lui il punto di partenza per ascendere a un più ampio senso di solidarietà nazionale, così dall’idea di Patria egli trasse l’ispirazione per assurgere all’idea di una Umanità pacificata nella fratellanza di tutti i popoli liberi. …




A sinistra del PCI di fronte all’89: memorie di un “eretico” demoproletario

Eugenio Baronti (Capannori, 1954) ha ricoperto il ruolo di segretario provinciale di DP dal 1980, del quale è uno dei membri fondatori a Lucca; nel 1991 aderisce al PRC, prima di uscire dal partito nel 2010; è stato anche consigliere comunale e assessore all’ambiente per il comune di Capannori, nonché assessore regionale con delega alla ricerca, all’università e al diritto alla casa.

Quando ti sei avvicinato a Democrazia Proletaria?

Mi sono avvicinato a DP fin dall’inizio della sua costituzione come cartello elettorale della sinistra extraparlamentare per le elezioni amministrative del 1975 e poi per le politiche del giugno 1976. Io militavo allora nella Lega dei comunisti, e per me quella fu una campagna elettorale che vissi con grande entusiasmo e un estenuante impegno quotidiano. Nel mio paese a Lammari, dove c’era un bel nucleo forte, riuscimmo a organizzare la prima festa politica nella sua storia di paese rurale, democristiano e conservatore – la Festa d’Estate, a sostegno della lista. Un evento straordinario, costruimmo il villaggio con le nostre mani lavorandoci fino a notte: una grande festa e un gran successo, l’unica a livello lucchese. Alla fine lasciammo la struttura ai compagni del PCI, che vi tennero la prima festa dell’Unità.

Il risultato elettorale fu pessimo, un magrissimo 1,5% che però bastò a eleggere un piccolo drappello di 6 deputati. Fu una grande delusione, mi servì qualche settimana a metabolizzarla. Subito dopo aderii alla costituente del partito, obiettivo per la quale mi impegnai molto, non senza scontri politici interni. Il 13 aprile 1978 ero tra i fondatori al cinema Jolly di Roma dove nacque DP.

Perché proprio DP e non il Partito comunista? Quali ragioni hanno guidato questa tua scelta di militanza?

Perché DP e non il grande e potente PCI? Semplice: la mia militanza movimentista, il mio antimilitarismo, la mia innata riluttanza a ogni autoritarismo, non mi lasciava alternativa. Il PCI era industrialista, sviluppista, nuclearista, molto arretrato in materia di diritti civili. Inoltre non sono mai stato filosovietico: Breznev e tutti quei burocrati e militari impataccati sulla Piazza rossa il 1° Maggio mi sembravano delle insopportabili mummie, fuori dal tempo.

Veniamo agli anni ’80: quale ruolo ricoprivi allora in DP? In che condizioni si trovava il partito in Lucchesia in quel momento?

Essendo stato tra i fondatori nella provincia di Lucca, fui eletto già al I congresso di federazione segretario provinciale, ed ero nel comitato politico regionale e in quello nazionale. La seconda metà degli anni ’80 furono per DP sicuramente i migliori in termini di impegno politico e risultati.

All’inizio del 1984 aprimmo la sede federale in via S. Tommaso in Pelleria, avviando un processo di strutturazione a livello provinciale in tutte le aree geografiche della nostra provincia, e una più limitata presenza istituzionale. Avevamo però una grande capacità di mobilitazione e una buona visibilità politica: in sede avevamo una offset con la quale stampavamo il Quaderno di Dippì, che inviavamo a iscritti e simpatizzanti.

Nell’86 la sede si trasferì in via Fillungo 88, dove tenemmo il I congresso provinciale, aperto da una mia relazione introduttiva dal titolo “Al bivio del 2000. Idee e progetti per l’alternativa”. Erano anni di grandi battaglie sulle questioni nazionali (dall’impegno antinuclearista alle 35 ore lavorative) e locali (la denuncia del malaffare nella gestione dei rifiuti industriali, culminata con l’occupazione del consiglio provinciale, e la vittoriosa lotta referendaria per la chiusura delle Mura urbane e del centro storico al traffico), che alle elezioni dell’87 – dove ero candidato alla Camera – portarono a DP i migliori risultati elettorali: 5.372 voti in provincia, in città siamo al 3,5%, nonché buoni risultati in tanti comuni della Versilia e della Garfagnana. Poi nel 1988, al VI congresso nazionale, si consumò la rottura fra Mario Capanna e quei dirigenti che lasceranno il partito per fondare i Verdi Arcobaleno.

La scissione e l’89 segneranno la fine del progetto di DP, la cui eredità ha avuto però un vasto impatto sulla sinistra italiana. Una formazione marxista eretica e antisovietica, che ha portato nel dibattito politico tematiche fino ad allora inesistenti: la critica radicale dell’idea della crescita infinita e del nostro modello di consumi e sviluppo; le battaglie per i diritti civili e sociali tenuti inscindibilmente assieme; le campagne antinucleariste (quando tutti erano affascinati dalle prospettive dell’energia nucleare); la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – lavorare meno e lavorare tutti, tratto distintivo di DP.

Ripensando a quella bella esperienza non posso che rilevare che era un piccolo partito elitario, zeppo di personalità, competenze e intelligenze, un bel numero di militanti con livelli di cultura politica estremamente elevati, molto superiori alla media dei militanti delle altre forze compreso il PCI. Per me DP è stata prima di tutto una scuola di vita e una straordinaria opportunità di crescita culturale e politica.

DP si è sempre posta criticamente nei confronti dei paesi del socialismo reale: quali erano le tue posizioni in materia? E come hai reagito di fronte al crollo del Muro nell’89? Quali ricordi hai di quella giornata, e quali riflessioni ha scatenato in te?

Nessuno allora pensava che un giorno sarebbe crollato il Muro di Berlino, sconvolgendo gli equilibri politici usciti da Yalta e che alla mia generazione sembrava dovessero durare per sempre1, il cui superamento per decenni è rimasto un’utopia perseguita da piccole e istituzionalmente marginali minoranze come DP, che osavano immaginare, per il continente europeo, un futuro non più fondato sull’equilibrio del terrore atomico. Quegli accadimenti storici si incaricarono di ricordare a tutti che niente in questo mondo è eterno, tutto ha un inizio e prima o poi anche una fine.

Fra il 1989 e il 1991 illustri ed entusiasti opinion leader – colti di sorpresa dall’evento – sostennero che la Storia era finita poiché “l’impero del male” sovietico era finalmente caduto, aprendo all’umanità prospettive di pace e benessere globali. Sciocchezze colossali, affermate senza il minimo pudore nei dibattiti pubblici che affollavano i palinsesti radiotelevisivi e le colonne dei giornali. Altro che pace! Di lì a poco, nel cuore dell’Europa, si sarebbe scatenata una delle più cruente guerre civili che trasformò l’intera Jugoslavia in un grande teatro di guerra. Parliamoci chiaro, nessun osservatore aveva allora previsto niente di tutto ciò che sarebbe accaduto.

Quella sere del 9 novembre 1989 una folla festosa di uomini e donne presero a picconate e martellate quel muro simbolo di un’Europa divisa in due, che aveva tenuto forzatamente separato un popolo; famiglie costrette a salutarsi a distanza, oltre le reti e i fili spinati, guardandosi con potenti cannocchiali, su versanti opposti e distanti, oltre la maestosa porta chiusa e proibita di Brandeburgo. Io l’ho vista da turista e ho sentito dentro di me tutto il peso soffocante e oppressivo di quel muro. La cosa che più mi amareggiò fu vedere che quei regimi crollarono indecorosamente lasciando dietro di sé una montagna di rovine e miserie a livello culturale e sociale.

Quali furono le reazioni interne al partito a livello locale, fra i tuoi compagni di militanza, di fronte all’89 e alla fine dell’esperienza comunista dell’Est?

Intanto una precisazione: noi di DP non abbiamo mai considerato socialisti e tantomeno comunisti quei regimi, che con la loro presenza infangavano l’immagine stessa del comunismo. DP era una forza antistalinista, antiautoritaria, in sintonia con quel filone marxista “caldo”, non riduzionista e meccanicista come il marxismo ufficiale che pensava che una volta abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbero nati di conseguenza la società e l’uomo nuovo socialista. Pochi giorni dopo quelle vicende si svolse il 3° congresso della federazione lucchese, aperto da una mia relazione che non poteva non iniziare con un’analisi di ciò che stava avvenendo a Est:

“Gli sconvolgenti avvenimenti che stanno maturando in questi giorni nell’Est europeo sono stati da noi auspicati e desiderati fin dall’inizio della nostra storia. Essi costituiscono la fine di un’ambiguità e di una mistificazione che volevano identificati il socialismo e il comunismo in regimi che si sono caratterizzati per l’onnipotenza della burocrazia di partito e della polizia segreta, per le deportazioni di massa e dei carri armati utilizzati come mezzo di risoluzione dei conflitti sociali al proprio interno e nei confronti dei paesi alleati.”

Il giudizio era estremamente positivo, consapevole che queste vicende avrebbero rimesso in moto la Storia ferma a Yalta. Avvertivo però il pericolo di una forte strumentalizzazione da parte delle destre e degli anticomunisti, allo scopo di dimostrare che il capitalismo era l’unico e il migliore dei mondi possibili.

Nello stesso anno anche il PCI imbocca un cammino che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Cosa pensasti di quel cambiamento in atto, sfociato nella fondazione del PDS? E cosa guidò la tua adesione alla neonata Rifondazione comunista, nella quale DP confluisce nel 1991?

Il nostro giudizio sulla svolta della Bolognina fu duramente critico: le modalità e il dibattito politico di allora tendevano a gettare via il bambino con l’acqua sporca. In quegli anni in molti, anche dirigenti di primo piano, facevano a gara nel dire: mai stati comunisti. Un’indegna e vergognosa liquidazione di una storia che non è mai stata la mia, ma che mi infastidiva per le conseguenze negative che aveva su tutta la sinistra noi compresi, che all’inizio ci pensammo al riparo da quella rovinosa frana poiché venivamo da un’altra storia, radicalmente critica rispetto ai regimi dell’Est; ma come spesso avviene nella storia non si fanno troppe distinzioni, e lo smottamento non risparmiò nessuno. Il senso comune fu quello di dire: il comunismo ha fallito, non c’è alcuna possibilità di rifondarlo. Poi nacque Rifondazione, e siccome io sono sempre attratto dalle sfide impossibili, l’idea di rifondare una nuova cultura comunista per il XXI secolo mi coinvolse. C’era però un ostacolo enorme: quella parte del PCI che non aveva accettato la Bolognina era quella legata a Cossutta, la più conservatrice e filosovietica. Furono mesi di dubbi e perplessità: io in un partito insieme a Cossutta mai! Il pressing su di me a livello locale e nazionale fu estenuante: l’impegno era quello di entrare con la nostra visione per mutare profondamente una prospettiva ormai morta e sconfitta.

Eravamo un gruppo di militanti preparati e determinati, certi che una volta entrati avremmo potuto condizionare lo sviluppo di RC, dando una dimensione di massa al nostro progetto di una sinistra moderna alternativa al PDS. Pochi anni dopo, con la segreteria Bertinotti, si avviò effettivamente un grande processo di rifondazione culturale che integrò la nostra cultura pacifista e ambientalista: non ci divise la battaglia culturale ma, come sempre è avvenuto nella storia della sinistra, questo processo fu interrotto per una divisione profonda rispetto al ruolo del partito nei confronti del governo. Il calvario della sinistra fino ai giorni nostri, con l’ultima divisione consumatasi alle recenti elezioni regionali toscane.

1 Così ad esempio lo storico Robert Service: “Anche se il mondo comunista era percorso da profonde divisioni interne, gli Stati comunisti coprivano un terzo delle terre emerse del pianeta. La maggior parte delle persone dava per scontato che le cose sarebbero andate avanti così per molti anni.” (in Compagni. Storia globale del comunismo nel XX secolo, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 523)