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I bombardamenti su Siena (1944)

La storiografia si è a lungo rivolta allo studio delle incursioni aeree sul territorio italiano da un punto di vista prettamente bellico, dedicando quindi grande attenzione alle operazioni militari e tralasciando spesso le conseguenze prodotte sul territorio e sulla popolazione civile. Tuttavia, come ha osservato Nicola Labanca, quella dei bombardamenti aerei non è storia militare ma è storia à part entière della guerra totale: è la storia non solo delle forze armate che la realizzano ma dei governi che ne decidono gli obiettivi come delle società civili che ne sopportano gli effetti.[i] Questo, peraltro, è ancor più vero per un territorio come quello senese, il quale visse in maniera assolutamente singolare l’esperienza della guerra aerea.[ii]

Come in molte altre città d’Italia, anche a Siena l’allestimento delle misure di difesa antiaerea in vista di futuri conflitti ebbe inizio a partire dagli anni Trenta. Nel 1936 si svolsero le prime prove di oscuramento in tutta la provincia senese,[iii] cui seguirono nel maggio del 1940 due giorni di esercitazioni per eventuali attacchi chimici.[iv] La mancanza assoluta di fondi rese tuttavia impossibile affrontare le spese necessarie alla costruzione di rifugi antiaerei, all’istallazione di un impianto di sirene di allarme e persino all’acquisto dell’equipaggiamento per le squadre di primo intervento. Di questi problemi si lamentò più volte l’Ispettore Provinciale di Protezione Anti Aerea, tenente colonnello Giuseppe Crocini, il quale denunciò inoltre la scarsa coscienza antiaerea dimostrata dagli enti e dalle istituzioni cittadine.[v]

A causa di tali carenze, Siena giunse al momento dell’ingresso in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, totalmente sprovvista di qualsiasi struttura difensiva.

Inizialmente, le autorità affrontarono il problema realizzando alcuni ripari antischegge nei vicoli del centro storico,[vi] mentre i primi grandi ricoveri pubblici, capaci di ospitare alcune migliaia di individui e di resistere perlomeno all’impatto con ordigni da 100 kg,[vii] vennero completati soltanto nel corso del 1943.

Il primo bombardamento subito da Siena il 23 gennaio 1944, in cui persero la vita venticinque persone,[viii] arrivò in maniera del tutto inaspettata, dopo oltre tre anni di guerra durante i quali la città non era mai stata oggetto di attacchi e, proprio per questo, aveva rappresentato un riparo sicuro per chi fuggiva dal conflitto: basti pensare che le strutture ospedaliere senesi arrivarono a contare oltre 6.000 posti letto[ix] e che in tutta la provincia affluirono più di 18.000 sfollati[x], provenienti da ogni parte d’Italia; numeri enormi per il tempo, considerato anche il difficile contesto nel quale queste persone vennero accolte.

La città del Palio subì alla fine un numero piuttosto limitato di bombardamenti – i più rilevanti furono quelli del 23 e 29 gennaio, 8 e 16 febbraio, 11 e 14 aprile – i quali tuttavia causarono più di quaranta morti, assieme alla distruzione della stazione ferroviaria, della Basilica e del Convento dell’Osservanza e di numerose abitazioni private. A queste operazioni più note, si aggiunse inoltre una lunga serie di spezzonamenti e mitragliamenti, di molti dei quali è andata perduta nel tempo la memoria, ma che produssero comunque danni ed alcune vittime. Tra questi vale la pena ricordare lo spezzonamento avvenuto in Piazza San Francesco il 10 giugno 1944, il quale provocò la distruzione di tutte le vetrate della Basilica e l’uccisione di un soldato tedesco, oppure quello che si verificò in Piazza del Duomo e Via dei Pellegrini nella notte tra l’1 ed il 2 luglio 1944, del quale sono ancora visibili i segni sul Battistero e sulle  mura del Museo dell’Opera. Ma l’elenco comprende pure Via Roma e Fieravecchia, spezzonate il 16 maggio 1944, la Barriera di San Lorenzo, Porta Pispini, Via Pantaneto, Via Diacceto, Via San Pietro e molte altre.[xi]

Sebbene la posizione piuttosto defilata e l’assenza di obiettivi di particolare rilevanza militare – con l’unica eccezione della stazione ferroviaria – abbiano posto Siena al riparo da distruzioni particolarmente estese, la città subì comunque gli effetti della guerra aerea su tutto il proprio territorio, non soltanto nelle aree periferiche e di campagna, ma anche all’interno del centro storico, circostanza quest’ultima conosciuta prevalentemente dagli storici locali ed ignorata dai più.

Note:
[i]Labanca Nicola (a cura di). I bombardamenti aerei sull’Italia. Politica, stato e società (1939-1945). Il Mulino; Bologna, 2012, p. 8.
[ii]Questo breve contributo è tratto dalla tesi di laurea dell’autore: La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche. Tesi di Laurea in Scienze Storiche e del Patrimonio Culturale, Università degli Studi di Siena, anno accademico 2016-2017. Per ulteriori informazioni sui bombardamenti aerei nella provincia senese durante il Secondo conflitto mondiale, si vedano Biscarini Claudio. Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944. Del Bucchia; Massarosa, 2008; e Luchini Luca. Siena 1940-1944. Il dramma della guerra e la liberazione. Il Leccio; Monteriggioni, 2008, pp. 93-112.
[iii]Archivio di Stato di Siena [d’ora in poi ASSI], Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 10M, f. 10. 8 settembre 1934 relazione dell’Ispettore Provinciale P.A.A. a Prefetto ed Ufficio dello Stato Maggiore di Firenze.
[iv]Il Telegrafo, 29 Maggio 1940. La perfetta riuscita degli esperimenti di protezione antiaerea.
[v]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 8M, f. 3. 28 settembre 1937, relazione dell’Ispettore Provinciale di P.A.A. al Comando del Distretto Militare di Siena.
[vi]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 6M, f. 15. 13 febbraio 1941, lettera dell’Ispettore Provinciale P.A.A. al Ministero dell’Interno, prot. 2445 P.A.
[vii]ASSI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 1M, f. 3. 16 novembre 1942, lettera del Podestà al Presidente del C.P.P.A.A., prot. 13290.
[viii]Questi i nomi delle vittime: Baccheschi Ada; Ridolfi Galeazzo; Carreri Vanda; Carreri Emma; Campolmi Natale; Franci Quirino; Borri Aldo; Saccardi Ubaldo; Centini Fortunato; Colicchi Giulio; Bartoli Elia; Mariti Ezio; Bartalini Giuliana; Pacini Maria; Anatrini Zaira; Anatrini Gino; Anatrini Mario; Del Lungo Primetta; Selvolini Tea; Maccari Santi; Veneri Ida; Maccari Maria; Marzucchi Azelio; Campolmi Duilia; Santi Dina. Cfr. ASSI, Prefettura. Ufficio Gabinetto (1935-1957) – III Versamento (2004), b. 77, f. 41. Elenco delle vittime dell’incursione aerea del 23 gennaio 1944.
[ix]Paoletti Paolo. La vicenda diplomatica del riconoscimento di Siena “città aperta”: tra il falso storico della “città ospedaliera” e la verità oggettiva del centro ospedaliero, in Biscarini Claudio, Meoni Vittorio, Paoletti Paolo. 1943-1944. Vicende belliche e resistenza in terra di Siena. Nuova Immagine; Siena, 1994, p. 44.
[x]La Nazione, 14 Marzo 1944. Relazione del Capo della Provincia sull’attività svolta dal Partito.
[xi]AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 4. Diari della P.A.A.; AS-SI, Prefettura di Siena 1800-1978 (2004), b. 17M, f. 5. 1940-1944, Quaderno degli allarmi.




Quel 29 giugno del 1944

Il passato imprevedibile

Gli antropologi non sono degli storici, ma hanno una importante componente di formazione legata alle teorie della storicità. L’evoluzionismo, il diffusionismo, il marxismo e lo strutturalismo, che hanno segnato l’antropologia del Novecento, sono teorie che si basano tutte su una idea della storia. Nella mia formazione antropologica mi sono abituato a immaginare il processo storico sulla base di leggi che regolano i comportamenti collettivi (lotta delle classi, evoluzione delle civiltà, diffusione da un centro, modelli simbolici e secondarietà della storia). Con la ‘crisi delle grandi narrazioni’ anche queste idee normative e  generali della storia  si sono fortemente indebolite. A me personalmente, legato come sono – da antropologo – allo storicismo italiano che è attivo anche nel pensiero di Gramsci, si sono aperte possibilità complesse di attenzione e comprensione dei fatti e soprattutto delle rappresentazioni storiche, pur non rinunciando a ricondurle sempre ai processi collettivi di cui ci occupiamo. Nel mio lavoro di collaborazione con l’Archivio Nazionale Diaristico di Pieve Santo Stefano, nel quale sono membro della giuria e quindi ‘lettore’, mi è capitato tante volte di avere tra le mani diari, autobiografie, epistolari i cui contenuti narrativi non corrispondevano alle immagini generali che avevo della storia e dei suoi soggetti. In senso generale ‘scandalosi’ per le mie ‘precognizioni’. Mi abituavo così a non dedurre il passato da un modello generale, ma ad aprirlo vistosamente alla varietà delle forme della vita. Poteva essere un maestro fascista in Dalmazia, che non corrispondeva alla mie idea dei maestri fascisti, o un emigrato italiano in Australia, o un prigioniero italiano in India, ma l’idea di parlare di un ‘passato imprevedibile’ mi è venuta leggendo l’epistolario di un giovane aristocratico  siciliano – Fazio Salvo dei Baroni di Nasari  – che a metà dell’800 faceva il Gran Tour al rovescio, dal Sud al Nord, e raccontava come era Firenze per lui in quell’anno, come erano i vestiti alla moda, le serate mondane, poi raccontava Torino, poi la Germania, chiedendo soldi ai familiari, in modalità simili ai ‘bonifici bancari’ (che io ho appena scoperto) ben note a viaggiatori e commercianti di quel secolo[1]. Ma non è un problema di rivalutazione della storia ‘individuante ’ o ‘evenimenziale’, ma piuttosto di apertura a diversi possibili  modi di immaginazione storiografica e antropologica  di tratti del passato.  Intanto nel 1994 mi ero  imbattuto in un mondo per me davvero inimmaginabile: quello del vissuto dei sopravvissuti alle stragi naziste in Toscana. Una esperienza che mi ha cambiato, come succede quando si fanno ricerche importanti.

Stragi

Nel 1993/94 fui coinvolto da Leonardo Paggi in un progetto di ricerca sulla memoria delle stragi naziste in Toscana, che si svolgeva tra Civitella della Chiana e Bucine. Il caso era caratterizzato – oltre che dalla quantità dei morti civili – dalla ostilità dei sopravvissuti verso i comportamenti delle locali formazioni partigiane. Il fenomeno della  ‘memoria antipartigiana’ è noto e documentato lungo tutto il passaggio del fronte tra Toscana ed Emilia.[2] Lo affrontai con un gruppo di ricerca di giovani ricercatori e studenti che venivano dalla Università di Roma (dove allora insegnavo antropologia culturale) e di Siena (doveva avevo insegnato fino al 1991);  insieme ad altri  colleghi storici e antropologi, tra i quali mi  pare importante ricordare  Francesca Cappelletto che scrisse delle stragi naziste anche su riviste internazionali. La ricordo con particolare emozione perché è morta assai giovane. C’era Giovanni Contini, storico orale della Soprintendenza regionale archivistica e la antropologa visiva Silvia Paggi che realizzò un film. Ci fu anche un convegno internazionale In memory: per una memoria europea dei crimini nazisti. La ricerca produsse molto materiale di intervista poi versato alla Regione Toscana. Anni dopo fu la Regione Toscana a riprendere un progetto più ampio di ricerca delle stragi sulla Toscana a tutto campo. La guidò ancora Leonardo Paggi, e io partecipai con un gruppo di ricerca dell’Università di Firenze, alcuni laureati romani, e la direzione di Fabio Dei. Con alle spalle l’esperienza di Civitella fu più facile, ma non meno doloroso incontrare mondi di una Toscana marginale, montana e contadina, così segnati dal lutto.  Puntammo la ricerca sulla ‘rappresentazione degli eventi e del lutto e sui riti di memoria’[3].

La ricerca di Civitella fu una vera iniziazione. Mi ero formato agli studi sulla Resistenza con una ricerca sulla memoria orale dei testimoni della Spartaco Lavagnini, e della Garibaldi Boscaglia, tra Siena e Pisa. Avevo della Resistenza una immagine un po’ epica, e un po’ radicale. Nei primi anni ’80 collaborai con l’Istituto di Milano (INSMLI), allora diretto da Guido Quazza su temi della didattica della storia, e i miei riferimento cominciarono ad essere meno epici e più legati alla vita quotidiana, Quazza e poi Claudio Pavone – da dentro la loro esperienza – ci avevano insegnato a far calare l’epos e il tasso di ideologia dalla memoria della Resistenza, e a far crescere la comprensione di molteplici storie di giovani, spesso confuse, complesse da discernere, formatesi sul campo talora a partire dai renitenti alla leva. Anche alla Resistenza Quazza aveva osato estendere il tema del ‘personale’ , della spontaneità, che tanto aveva caratterizzato la fine degli anni ’70 e l’esplosione  del femminismo. E Pavone ci aveva inquietato e fatto riflettere sulla nozione di ‘guerra civile’ che chiedeva una nuova complessità dello sguardo storico. Ciononostante fu duro per me affrontare l’incontro con i rappresentanti delle famiglie di Civitella colpite dalla strage, disposte a collaborare solo a patto che noi non li confondessimo con il mondo della resistenza e non difendessimo quella resistenza locale che vedevano come causa prima della strage. Gli antropologi tendono sempre – metodologicamente – ad essere dalla parte dei loro testimoni, e questo ci facilitò l’impresa.  E questo risultò per me poi un arricchimento e una apertura imprevista alla comprensione.

Non sapevo se era la fine del mondo

I risultati condivisi della nostra ricerca non furono accettati facilmente, e fu soprattutto il libro di Giovanni Contini La memoria divisa (Milano Rizzoli 1997) a essere bersaglio di interpreti troppo fedeli alle ideologie e alle letture  più classiche della memoria antipartigiana.

Io ebbi una grande difficoltà ad elaborare questa esperienza. E debbo dire che dovetti accettare la presenza di una forte componente emotiva, un senso di smarrimento e di recupero della ragione, che è giusto raccontare in sede storica e antropologica. Come è giusto fare la storia e l’antropologia dei sentimenti, è anche giusto riconoscere il ruolo dei sentimenti nella ricerca.

La comunità di Civitella si aprì alle nostre interviste, i miei studenti furono adottati e coinvolti nelle memorie luttuose  e nella incessante presenza di un cordoglio mai compiuto del tutto.

Al centro della ricerca si posero decisamente i racconti. I racconti delle vedove, che in parte erano stati già proposti sulla rivista Società nel 1946, con stile orale, colpivano molto . Raccontavano delle giornate di sole, legate all’arrivo dell’estate, ai lavori della campagna, traversate dal dolore, dalla paura, dalle mitragliatrici, dal sangue, da eventi indicibili, fissati nella memoria come sul nitrato d’argento di una pellicola fotografica.

Il racconto su Società della vedova Marsili, mi rimase nella memoria:

 “…Non si vedeva che cadaveri di uomini, ma non potevo conoscerli perché i miei occhi erano velati dal dolore e dalla paura. Non sapevo se era la fine del mondo…” (Giuseppa Marsili vedova Tiezzi, in Società ,7-8, 1946)

La fine del mondo era anche il titolo della raccolta di scritti postumi dell’antropologo Ernesto De martino, dedicate a quelle che lui chiamò ‘apocalissi culturali’. Così mi colpirono i racconti dei corpi portati ai cimiteri, dei bambini testimoni di morti tragiche di persone carissime, il tutto legato a un cielo azzurro, a una giornata di sole, a una presenza delle messi e dei lavori agricoli.  La pioggia compare nella strage di Monte Sole, quando era cominciato l’autunno e il fronte si era spostato più a Nord.

Così anche i racconti dei bambini che trasportando in delle carriole i corpi dei loro cari improvvisamente prendevano velocità e si rincorrevano, e ridevano, e così finivano per far rientrare il  gioco dentro la morte.

I fatti, i ‘nudi fatti’ sono ora – asciutti ma capaci di suscitare ancora interpretazioni – nella scheda su Civitella della Chiana dell’Atlante delle Stragi naziste e fasciste in Italia. Meno di una pagina.  Che senso ha allora questa mia riflessione?

Il vecchio marinaio

Ho spesso raccontato ai miei studenti, ma anche in conferenze esterne all’Università, e di recente anche con un Power Point, questa esperienza di ricerca. E – nel tempo – la ho sentita sempre più attuale. Le morti dei civili si sono moltiplicate nelle guerre che hanno caratterizzato il mondo dopo la caduta del muro. Quel che appariva un episodio ai margini della Resistenza italiana, è diventato paradigmatico delle guerre nel mondo. Mi colpisce che ancora qualcuno parlando pubblicamente dica che bisogna tenere memoria  perché non succeda più. Succede ancora e più di prima. Ma, soprattutto andando a presentare a  Crespino sul Lamione  il libro sulla strage scritto da Valeria Trupiano nel quadro della nostra ricerca,  in quel piccolo centro di montagna[4], dove i riti della memoria si sono radicati in un ambito fortemente religioso, mi parve evidente che gli eredi del dolore e della morte di quella terra di confine dell’Appennino, erano più vicini al dolore del mondo per le stragi dei civili di quanto fossi io, vissuto dentro la guerra ma a distanza di sicurezza. E pensai che ricordiamo per sperare, per non perdere il filo con il passato, per dare senso ai morti e al futuro, per capire meglio il dolore degli altri, non perché non succeda più.

La lettura  che feci di Civitella in una chiave ‘demartiniana’[5] in termini cioè di lutto, di cordoglio, di memoria  e di lamento funebre,  oltre la storia dei fatti, mi apriva ai temi della pietà, del perdono, che hanno traversato la filosofia postbellica ( Paul Ricoeur, su Francia e Germania; Nelson Mandela sulla riconciliazione in Africa Australe etc…) e alla comprensione dei traumi legati alle guerre vicine (in specie quella che ha fatto esplodere la Yugoslavia) , alla possibilità di comprensione e di conciliazione . Mi pareva così di animare la memoria partigiana togliendola da fondamenta un po’ invecchiate e aprendola a nuove implicazioni. Ci sono due temi che ancora mi piace ricordare, ma che chiedono un racconto ulteriore.

Leonardo

Leonardo Paggi è uno storico del quale ho avuto ammirazione già dagli anni ’70 quando tentò una analisi gramsciana della società toscana e del rapporto tra passato e presente in questa regionesulla rivista Critica Marxista , ho poi collaborato al progetto Civitella, e ancora in seguito a delle iniziativa ad esempio dedicate al film di Giorgio Diritti,  L’uomo che verrà  (2009),  sulla strage di Monte Sole, ma mi è piaciuto anche il libro Il popolo dei morti, nelle sue scritture ci sono sempre tentativi di  trovare un senso generale ai processi, di aprire varchi diversi da quelli consueti alla storia – ormai nota nei fatti e nei documenti – dell’Italia nella seconda guerra mondiale, quella in cui lui ed io siamo nati.

Ma a Civitella venni a sapere che lì era stato ucciso dai tedeschi anche suo padre, medico a Firenze, resistente di famiglia ebraica, che era andato a visitare la famiglia e aveva creduto di essere al sicuro dove la famiglia era sfollata. La famiglia ne fu fortemente segnata. Paggi Gastone 37 anni  è nella lista dei morti  della strage. Le liste dei morti sono tra le cose più emotivamente significative di queste memorie.

Una testimonianza locale  dirà:

“Il Dott. Paggi di Firenze, … viene sorpreso nella sua camera matrimoniale. La Signora ed i bambini furono visti uscire ancor seminudi, con le vesti insanguinate mentre la casa bruciava. I resti del Dott. Paggi, ridotti in cenere, furono pietosamente raccolti in una bacinella”.

Leonardo, che dirigeva il nostro gruppo di ricerca aveva fatto quella esperienza in prima persona. Forse fu questo a farmi sentire, piuttosto che un ricercatore-interprete- divulgatore,  un sopravvissuto. Ho all’incirca la stessa età di Paggi, e quando Civitella della Chiana fu messa a ferro e fuoco io avevo appena compiuto i due anni ed era il giorno del mio onomastico. Ma stavo in Sardegna, dove certo era una bella giornata di sole come a Civitella, ma dove la furia della guerra era lontana.  Ed è in questa veste che mi sono idealmente connesso alle pagine di Primo Levi de I sommersi e i salvati, in cui richiama l’obbligo di testimoniare con un brano della a Ballata del vecchio marinaio di Coleridge :

Since then, at an incertain hour

That agony returns:

And till my ghastly tale is told

This heart within me burns.

Da allora, a ora incerta/ quell’ansia ritorna/ e finchè il mio terribile racconto non è concluso/ il cuore dentro il mio petto  brucia.

Si scrive per contagio dell’orrore ed obbligo a raccontarlo.

Innocenti

Forse sono innocenti i morti dei campi di sterminio, come i morti di Civitella, forse lo sono i civili morti di tutte le guerre. Ed il cordoglio per la morte che li accomuna nella tragedia della guerra mondiale  non è poca cosa. Ormai sembra proprio una sciocchezza separare i mondi delle memoria dolorosa, tanto più che essa è diventata sempre più attuale, sempre più capace di farci capire le guerre del mondo. Dal 1994 qualcosa è cambiato. La storia del lutto di Civitella e quella delle formazioni partigiane sono state rilette nel tempo e sono ormai oggettivamente sullo stesso fronte di memoria. Oggi è possibile più che allora, quando scrissi un testo Il ritorno dall’apocalisse[6], immaginare una memoria resistenziale che possa essere rappresentata come la Madonna degli Innocenti, con un grande manto in cui tutti le vedove e gli orfani e i dolori della guerra possano essere accolti sotto il suo mantello, come nella immagine quattrocentesca dell’Istituto degli innocenti di Firenze.

L’estate toscana del 1944, che ho scoperto nella memoria dei sopravvissuti  venendo dalla Sardegna, la ho ritrovata come un segnale forte di memorie bellica in tante storie di vita dei nonni dei miei allievi fiorentini. Cercando di iniziare i giovani antropologi alle interviste e a raccogliere storie di vita facevo intervistare i nonni, e ce ne erano pochi che non erano stati contadini e non avevano avuto i tedeschi in casa.

La memoria della guerra, abbiamo visto, non serve a che la storia non si ripeta, ma a renderci sensibili al mondo in guerra, a fare vivere con noi il ricordo dei morti, a vivere avendo vicina la loro testimonianza, perché , come scrisse Berti Arnoaldi in un passo fulminante, forse il nostro compito fondativo e comune come studiosi e come cittadini di un paese che ha una Costituzione antifascista, è quello di trasformare i cadaveri  in antenati, che è il senso profondo del cordoglio.

Pietro Clemente è attualmente Presidente dell’Istituto storico senese della Resistenza e dell’età contemporanea

[1] P.Clemente, Il passato imprevedibile, in  Primapersona, 2, 1999
[2]  Ora Civitella è ben rappresentata nell’ Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia 2016 ; http://www.straginazifasciste.it/wp- content/uploads/schede/CIVITELLA%20IN%20VAL%20DI%20CHIANA%2029.06.1944.pdf
[3] P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,
[4] V.Trupiano, A sentirle sembran storielle. Luglio 1944. La memoria della strage di civili nell’area di Crespino del Lamone, Pisa, Pacini,
[5] E.De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 1958
[6] Apparve poi nei primi anni 2000 sul sito della Regione Toscana nella pagina dedicata alle stragi, e nle volume che concluse la seconda ricerca, generalizzata a tutta la Toscana e condotta in collaborazione con Fabio Dei : P.Clemente, F.Dei, Poetiche e politiche del ricordo. memoria pubblica delle stragi nazifasciste in Toscana, Roma, Regione toscana, Carocci, 2005,




Aspettando Hitler: la seduzione della bellezza e l’allontanamento da Firenze dell’ebreo Castelfranco.

Di tutti i luoghi che Hitler avrebbe desiderato con forza visitare anche semplicemente da turista, Firenze era la meta più agognata. Ci riuscì, accolto con inquietante bellezza e sfarzo imperiale, il 9 maggio 1938, ottanta anni fa esatti. Hitler, dalla stazione di Firenze, attraversò con l’auto scoperta il centro cittadino addobbato con sequenze ininterrotte di svastiche e bandiere gigliate, per poi dirigersi come prima tappa a Palazzo Pitti e alle sue collezioni artistiche. Quando l’auto varcò il cortile interno della reggia, probabilmente il Führer mai avrebbe immaginato che l’artefice della risistemazione di tanta magnificenza fosse stato proprio un ebreo.

La Toscana e Firenze erano la terza e ultima tappa programmata nella visita ufficiale in Italia, dopo Roma e Napoli, dopo un tour che, dal 3 al 9 maggio, avrebbe fatto fermare l’Italia per una settimana, convogliando energie e masse per salutare al meglio l’alleato nazista. In molte città fu decretata festa nazionale, gli esercizi commerciali furono chiusi, gli alberghi furono attrezzati per accogliere giornalisti e operatori cinematografici. Per Roma e provincia furono confezionate ben 13.000 bandiere tricolori con croce reale e fascio littorio, mentre i monumenti più emblematici della Capitale furono illuminati dalla luce di migliaia di fiaccole e fari, con suggestive e imponenti scenografie che riecheggiavano gli antichi fasti imperiali. Anche Napoli non fu da meno. La suggestiva visione del Golfo di Napoli, con lo sfondo del Vesuvio e della collina del monte Echia, si aprì a Hitler con la gigantesca scritta “Heil Hitler”, mentre di lì a poco avrebbe assistito alla sfilata di 200 unità navali a bordo del transatlantico Rex, con tanto di radiocronaca in italiano e in tedesco sullo sfondo.

Ogni città, in base alla sua vocazione storica e agli intenti del Duce, doveva impressionare il Führer per alcune sue peculiarità intrinseche. A Firenze era stato riservato il compito di sedurre l’alleato con la sua bellezza e armonia rinascimentale, con tanto di Ranuccio Bianchi Bandinelli, tra i maggiori archeologi di tutti i tempi, nel compito -per lui odiatissimo- di Virgilio dell’arte per i due dittatori.

Vorace collezionista e pittore mancato, Hitler amava Michelangelo, Leonardo, Raffaello, il rinascimento fiorentino e i ponti artistici che si erano creati all’epoca con il rinascimento d’Oltralpe. Legami artistici e spirituali che rinascevano nuovamente con l’alleanza dell’Asse: non a caso in una sala degli Uffizi erano stati collocati dipinti fatti arrivare direttamente dalla Germania a dialogo con la collezione di artisti tedeschi già presenti nei musei cittadini.

In questo gioco di seduzione, sotto il controllo di Alessandro Pavolini da Roma e dell’apposito ufficio festeggiamenti istituito in Comune, si erano adoperati schiere di architetti, fotografi, giovani artisti che diedero vita ad apparati effimeri degni di una corte cinquecentesca. Ma soprattutto e suo malgrado si era adoperato Giorgio Castelfranco, lo storico dell’arte ebreo direttore di un luogo altamente significativo per la visita fiorentina, un luogo dove bellezza e regalità si sposavano perfettamente: la Reggia di Palazzo Pitti.

Giorgio Castelfranco, figura di primo piano nel panorama della cultura italiana del Novecento, sia come funzionario della Soprintendenza che come critico militante e mecenate di artisti quali De Chirico e Savinio, nel 1936 era stato promosso a direttore della Galleria di Palazzo Pitti. La meritata carica sarebbe durata pochissimo: dopo aver alacremente lavorato per il riordino e la risistemazione della galleria e degli appartamenti dove il Führer, nel pomeriggio del 9 maggio, avrebbe riposato per un breve tempo le stanche membra, Castelfranco nell’aprile del 1938 fu allontanato dalla città e dal suo museo. Nella studiatissima macchina scenografica del grand tour hitleriano l’ebreo Castelfranco doveva momentaneamente scomparire.

Furono le inquietanti prove generali di disposizioni messe in atto con le successive leggi razziali. Così Castelfranco, all’inizio del 1944, in una relazione all’allora Ministro dell’Educazione Nazionale ricordava quei momenti:

È curioso che riuscii ad avere mezzi abbondanti nella primavera del 1938 sui fondi per le trionfali accoglienze fatte in Italia a Adolfo Hitler; avendo già da tempo studiato le questioni relative, potei, rapidamente, in poche settimane, realizzare un riordino parziale, che diede nei suoi limiti ottimi risultati. Mi occupai io anche del restauro del passaggio tra Pitti e Uffizi e del riordino delle collezioni di ritratti ivi esposte. Durante la visita di Hitler fui mandato con ridicoli e finti pretesti a Modena a reggere la R. Galleria Estense; avevo comunque accelerato i lavori intrapresi, che lasciai oramai terminati. Dall’estate del 1938 in poi la mia attività fu, per ovvie ragioni, ridotta; curai però ancora qualche piccolo lavoro ai locali di Pitti. Da allora cessarono anche le mie pubblicazioni e in genere, debbo dirlo, la mia attività di studi ebbe una brusca interruzione.

Nel settembre 1938 lo storico dell’arte siglò uno degli ultimi documenti, se non l’ultimo, come direttore di Palazzo Pitti, ovvero la relazione di tutti i lavori condotti tra il gennaio e il maggio 1938 nella Galleria Palatina. Il grande cantiere d’accoglienza aveva previsto il tappezzamento in seta delle sale di Marte, Apollo e Venere, la pavimentazione o il restauro di essa in tutte le sale, l’apertura di finestre sul giardino, l’abbellimento con pastelli -cari al Führer- dell’ambiente tra Palazzo Pitti e Corridoio vasariano. Niente era stato lasciato al caso: “sistemate adeguatamente  anche le latrine nell’ammezzato del Rondò di destra del palazzo” chiosava Castelfranco nella sua relazione conservata negli archivi della Soprintendenza fiorentina.

Il 20 gennaio 1939, dieci giorni prima del suo definitivo licenziamento per l’applicazione del R.D. del 15 novembre 1938, sarebbe giunto a Castelfranco, dal Ministero dell’Educazione Nazionale, il diploma a Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, prestigiosa e beffarda onorificenza.

Alessia Cecconi (Prato, 1981), storica dell’arte, è direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica, Vaiano, Prato); collabora inoltre da molti anni con la Fondazione Memofonte di Firenze. Le sue ricerche e pubblicazioni sono dedicate alla letteratura artistica di età moderna, alla storia della tutela del patrimonio, al rapporto tra arte e memoria. Ha coordinato per la Regione Toscana il progetto ”Resistere per l’arte: guerra e patrimonio artistico in Toscana”, tema al quale ha dedicato le sue ultime pubblicazioni e mostre. Da sempre interessata all’educazione al patrimonio, è co-autrice del manuale di storia dell’arte per la scuola media inferiore Arte e Immagine (Gruppo RCS-Fabbri editore, 2014). 




Lavoro, fiori e lambrette.

La festa del lavoro in Italia non rinacque, dopo la seconda guerra mondiale, solo come momento politico e istituzionale, ma assunse significati più ampi e partecipati, diventando la rappresentazione di uno spaccato della società nelle sue diverse epoche. Da giornata di astensione dal lavoro e di mobilitazioni si andò allargando, includendo la socialità ed eventi capaci di “mettere in scena” la stessa “cultura” dei lavoratori, assumendo al suo interno eventi sportivi e ludici come i balli, la musica, la cucina. Una festa popolare dunque, come le sagre e feste di paese, da cui trasse forza e ramificazioni. Agli aspetti prettamente rivendicativi e a quelli politici si andò col tempo affiancando una ritualità, un farsi “tradizione”, attraverso un percorso di adattamento e mutamento che ci ha lasciato in eredità un complesso di consuetudini, come la distribuzione dei garofani rossi, radicate nell’immaginario di larghe fasce sociali.

1946: 1 Maggio a MarescaNel secondo dopoguerra i sindacati furono all’opera per rimettere in campo la celebrazione, abrogata dal fascismo. Con la Repubblica il 1° maggio si prendeva un posto, sancito anche dal carattere di festa nazionale attribuitogli dalle istituzioni.
Nel pistoiese si giunse a una prima messa a punto sistematica del suo svolgimento negli anni successivi alla rottura dell’unità sindacale del 1948. Fu un’opera portata avanti dalla CGIL, a partire dal biennio 1950/51, ed in particolare dal sindacato dell’agricoltura, la Confederterra. Il momento centrale si andò articolando attorno al corteo del capoluogo, Pistoia, senza però tralasciare la diffusione locale, esplicata nelle tante più piccole manifestazioni degli altri centri, che andavano da cortei e comizi veri e propri alle “veglie” nell’aia, politicizzando un’antica tradizione del mondo mezzadrile.

Il corteo di Pistoia, salvo qualche minimo cambiamento di percorso, è da sempre lo stesso, una sfilata per le vie del centro cittadino con l’arrivo finale nella piazza del Duomo. La partenza è sempre stata davanti alla sede della Camera del Lavoro. Fin dagli anni ’50 emerse una sua strutturazione interna, a tutt’oggi immutata. La prima parte del corteo riservata alle rappresentanze istituzionali, con i loro gonfaloni, e alla banda comunale, segnale della piena cittadinanza dentro allo Stato conquistata dal “popolo lavoratore” con la Repubblica, seguita da uno “spezzone” più politico, con gli striscioni contenenti messaggi di stringente attualità, ed a ridosso le rappresentanze dei lavoratori, a partire da quelle delle aziende o fattorie in lotta.
Già in quel decennio si fece strada con forza la pratica di non far sfilare solamente i lavoratori e le lavoratrici, ma anche i simboli del loro lavoro, i trattori per le campagne e gli autobus prodotti nella fabbrica cittadina, la Breda. All’unità dei lavoratori, simboleggiata dall’alleanza tra contadini e operai, i “mezzi meccanici”, come venivano chiamati, aggiungevano altri significati simbolici. Erano cioè una dimostrazione di modernità, utili per attirare i giovani e a mostrare con orgoglio il prodotto della fatica e della professionalità dei lavoratori. Sempre a quegli anni risale l’organizzazione della distribuzione dei garofani rossi da parte delle donne, una presenza mai venuta meno.

1969A partire dalla seconda metà degli anni ’50, e con sempre più forza negli anni ’60, intorno al corteo sorsero una miriade di eventi collaterali, dalla lotteria al torneo sportivo, dalle mostre di pittura alla gara di ballo, con il corollario di cene e feste, nel capoluogo organizzate nel parco di Monteoliveto. La data penetrava in profondità nella società locale, divenendo un riflesso delle trasformazioni dell’Italia e degli italiani, con le loro passioni politiche.
Nelle cronache della festa si ritrovano i segnali della Storia, dall’operaio che in una riunione nel 1968 chiedeva maggior attenzione agli studenti alle diatribe tra i vecchi sindacalisti e i più giovani, che nel 1969 pretendevano di sfilare nel corteo con le loro lambrette “smarmittate”, una nota che può sembrare di costume ma che ci racconta, con una battuta, il cambiamento epocale, sociale e culturale, che affrontava l’Italia in seguito al miracolo economico.
Emergevano nuovi attori e nuovi oggetti. E sempre su questa scia vanno lette le preoccupazioni per le infiltrazioni degli autonomi, se non del terrorismo, ma soprattutto il prepotente ingresso del femminismo in piazza del Duomo nel 1977, quando un gruppo di donne dette fuoco al manichino di una strega, danzando in cerchio, dando vita a reazioni impreviste e inaspettate, come quelle della CISL che si schierò dalla loro parte a differenza del PCI che le contestò.

Manifesto CGIL 1 Maggio 1967 Un’altra costante è stata la sempre presente spinta all’unità dei lavoratori. La ritroviamo nei discorsi preparatori tutti gli anni, unita a un’attenzione a far si che fosse il lavoro, con le sue rivendicazioni, il vero protagonista della giornata, prima e sopra la politica. Da qui le continue attenzioni e cure contro le strumentalizzazioni, da qui una costante e lunga ricerca di una celebrazione unitaria tra le organizzazioni sindacali. Una ricerca che a fine anni ’60 era sempre più pressante, all’alba di una grande stagione di lotte e di riforme, tale da suscitare anche l’intervento delle Istituzioni a suo favore.
L’unità nelle celebrazioni fu raggiunta a piccoli passi e faticosamente, dapprima con l’adesione delle ACLI al corteo della CGIL nel 1970, seguita l’anno dopo da quella della CISL, mentre la UIL ancora se ne teneva fuori, duramente criticata, mentre si cercava di allargare la spinta unitaria anche agli studenti, invitati ufficialmente a prender parte al corteo con una lettera del 1971. Solo tra il 1972 ed il 1973 aderiva anche la UIL, dapprima con alcune categorie e poi con tutta la confederazione. Ma l’unità è sempre stata un risultato da tener stretto, rimesso in discussione nel decennio dopo dalla CISL, che nel 1984, in seguito al decreto di San Valentino, sfilava via nonostante fosse duramente criticata dalla Chiesa locale, che dal 1979 aderiva alla giornata organizzando la santa messa nella cattedrale. Una ferita che fu sanata solo quattro anni più tardi, nel 1988, quando nuovamente il primo maggio tornava ad essere celebrato in maniera unitaria.

Tra gli anni ’80 e ’90 iniziavano i primi interventi di rinnovamento della festa nel solco di quella che ormai era la tradizione. Nel 1989 veniva inserita una festa per i bambini, e molti interventi nelle riunioni preparatorie rimarcavano che i trattori non erano solo folklore ma racconto ed espressione del lavoro, di quel mondo agricolo 30 anni prima ancora così importante e presto dimenticato, mentre altri proponevano una nuova popolarizzazione della festa, con feste, pranzi e balli, pratiche di socialità andate perse nel decennio delle grandi passioni dei ’70. Iniziava timidamente a muovere i suoi passi una nuova forma di diffusione territoriale, accanto a quella sindacale, affidata alle strutture che il movimento dei lavoratori nei decenni aveva costruito sui territorio, a partire dai circoli ARCI, che nel passaggio di secolo radicavano una “nuova” tradizione di feste e pranzi. La socialità di nuovo legata al lavoro, alla politica e alle comunità locali, espressione della vitalità di una giornata che ha sempre travalicato i suoi stessi confini.

Le notizie relative alla storia del 1° maggio nel pistoiese sono state tratte dall’Archivio storico della Camera del Lavoro di Pistoia.




Liturgie laiche e religiose nella Livorno del 1948

Il 7 novembre 1948 a Livorno fu una data molto particolare. Nel medesimo giorno si “fronteggiarono” in città due grandi manifestazioni, l’una cattolica, l’altra comunista. Seguendo un’evidente strategia di contrasto, i vertici ecclesiastici livornesi avevano fatto cadere la solenne chiusura della Peregrinatio Mariae – il pellegrinaggio della Madonna di Montenero che, partito il 20 ottobre, aveva compiuto, come scrisse «Il Tirreno», il suo «viaggio trionfale per tutti i paesi della diocesi» [Un’immensa folla, 4 novembre 1948] – nella data in cui le sinistre celebravano con grande dispiegamento organizzativo l’anniversario della rivoluzione d’Ottobre. I cattolici livornesi avevano del resto ancora nella memoria l’imponente manifestazione dell’anno precedente, 30° anniversario della rivoluzione, celebrato con un grande concorso di popolo per le vie della città e conclusasi al teatro Politeama, alla presenza del presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini e del deputato socialista Alberto Cianca [Terracini e Cianca, 10 novembre 1947].

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Ingrao e Togliatti nel 1946

La mattina dl 7 novembre dunque i comunisti sfilarono lungo i quartieri nord della città, quelli popolari e ad alta densità di operai, concludendo il loro corteo nella piazza S. Marco, massimo simbolo risorgimentale di Livorno, teatro della gloriosa resistenza dei livornesi contro la cattolica Austria dell’11 maggio 1849. Quello stesso pomeriggio la processione dei cattolici si snodò sul lungomare e tra i quartieri sud, quelli dei livornesi più benestanti, fino al colle del Santuario di Montenero. Due itinerari separati, come se fosse esistita una ideale cortina di ferro che divideva la città, ma che ebbero come tappa centrale obbligata la sosta al Cantiere navale, simbolo del mondo operaio. Il Cantiere infatti in quel 7 novembre viene “benedetto” due volte: la mattina dal comizio del direttore dell’«Unità» Pietro Ingrao; il pomeriggio dal vescovo di Livorno, Giovanni Piccioni, alla presenza del presidente della Camera Giovanni Gronchi, nell’ambito della cerimonia di chiusura della Peregrinatio. Davanti agli operai Ingrao, come riportò la stampa, aveva parlato degli enormi progressi compiuti «in ogni campo dalla Russia sotto il regime sovietico, ponendoli in contrasto con le terribili crisi che affliggono gli Stati occidentali», definiti potenze «guerrafondaie capitaliste e affamatrici del popolo» (Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 887) . Il pomeriggio l’immagine della Madonna di Montenero era stata invece benedetta davanti al Cantiere dal vescovo e dal nunzio apostolico dell’Honduras, il livornese Federico Lunardi, dopo che la processione aveva attraversato Borgo Cappuccini, la via nella quale abitava la gran parte degli operai del Cantiere, in cui, annotava «La Gazzetta», quotidiano comunista, era stato «offerto uno spettacolo folgorante di luci e di addobbi considerati i più belli delle varie parrocchie» [Ristori, 1948]. Pochi giorni dopo Gronchi, in una sua nuova visita a Livorno, parlando alle donne livornesi di Azione Cattolica, aveva affermato significativamente che il pellegrinaggio mariano aveva dimostrato come a Livorno il sentimento religioso del popolo fosse «soltanto sopito». «Si è visto – affermava – nella recente “Peregrinatio Mariae” nei quartieri in cui nessuno avrebbe creduto esistesse tanta fede, il popolo degli umili e dei lavoratori rende devoto omaggio alla Madonna. Ora dovete voi entrare nella vita di quella gente, dovete cercare di riportarla sulla via che Cristo ha tracciato per il trionfo del bene e per la salvezza dell’umanità» [Archivio di Stato di Livorno, Fondo Questura, b. 880].

I fatti appena descritti, nei suoi macroscopici simbolismi, ben raccontano come il 1948, anno in cui si addensarono in Italia le più tumultuose contrapposizioni scatenate dalla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, significò anche una vera e propria lotta per la supremazia dei rituali identitari. Una contesa che aveva trovato il suo acme per le elezioni politiche del 18 aprile e che assunse le forme di una competizione tra i rispettivi repertori liturgici e iconografici, indirizzata anche verso l’occupazione dei luoghi in cui più forte si avvertiva il simbolismo delle identità concorrenti [Guis0, 2006; Cavazza, 2002; Avagliano, Palmieri, 2018]. Come hanno fatto emergere molti studi negli ultimi anni, questa contrapposizione tra diverse “liturgie” assecondava anche rivalità identitarie meno immediatamente percepibili relative alla memoria della guerra e della Resistenza e ai miti fondativi della Repubblica [Gabusi, Rocchi, 2006; Schwarz, 2010]: le sinistre occupate nel tentativo di fondare una religione civile basata sull’antifascismo, viceversa la Democrazia cristiana, e in qualche misura anche le istituzioni ecclesiastiche, impegnate in un’azione di pacificazione nazionale. Riguardo al caso livornese non sfugge, ad esempio che all’interno delle due settimane di Peregrinatio Mariae si toccasse una data carica di simbolismi come il 4 novembre. Siamo all’interno di quel progetto di «riconquista cattolica dell’italianità» [Gentile, 1997, p. 224] che vide in questi anni impegnate le istituzioni ecclesiastiche e che si connetteva direttamente all’impegno della Dc nell’ottica della pacificazione nazionale. L’intento dichiarato dei governi Dc era di stimolare una rinnovata concordia, che superasse le divisioni di una guerra fratricida. Ecco perché, è stato detto, che in questi anni calò una sorta di «silenzio istituzionale» sul 25 aprile, mentre appunto gli sforzi si concentrarono sulle manifestazioni del 4 novembre in cui si celebrava la fine della prima guerra mondiale. A questo proposito va notato che la festa del 4 novembre fino al 1944 veniva definita «festa della vittoria», mentre dal 1944 al 1949 divenne la «festa dell’unità nazionale» nella quale dunque si puntava a celebrare un patriottismo astorico che trascendesse la dimensione politica, nel tentativo di un recupero dell’armonia nazionale. La Peregrinatio Mariae livornese rientrò pienamente in questa prospettiva e difatti il 4 novembre, nel quadro delle celebrazioni, fu officiata una «Santa Messa in suffragio dei Caduti per la patria» a cui intervennero le rappresentanze delle Forze Armate e le associazioni combattentistiche e a cui partecipò  monsignor Trossi, vicario generale dell’Ordinario Militare [Programma dei festeggiamenti, 31 ottobre 1948]. È da evidenziare come, per l’occasione, il settimanale diocesano trasformasse la Madonna di Montenero nella «Madre della pace». Scrisse il giornale: «La Madonna è la grande Pacificatrice. […] Regina della pace perché la devozione a Lei, che agisce sul profondo dei popoli, rimane forse l’unico punto di contatto tra i due mondi che oggi si contendono il dominio della terra: ed è possibile che la Provvidenza – che guida la storia – si serva della Madre comune per rappacificare i suoi figli» [Angeli, 1948].

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La “Peregrinatio” nella Chiesa di S. Maria del Soccorso a Livorno nel 1948

Anche sul fronte contrapposto è facile riscontrare quanto le cerimonie della liturgia laica si ponessero al servizio di precisi obiettivi politico-identitari. Diversi mesi prima della manifestazione del 7 novembre, nell’estate del 1947, una grande cerimonia funebre, seguita di poco alla rottura di Alcide De Gasperi con le sinistre, si caricò di potenti simbolismi che esularono dal mero episodio di cronaca. Nel luglio 1947 dentro il Cantiere navale di Livorno, un operaio, Alvaro Folena, venne ucciso da una guardia giurata durante un alterco. Il funerale si trasformò così in un’imponente liturgia civile contro il governo con un corteo che attraversò le vie della città e a cui parteciparono, secondo le cronache comuniste, circa 60mila livornesi (in una città che in quel momento contava circa120mila abitanti). «La Gazzetta» chiariva qual era il vero significato da attribuirsi alla celebrazione: l’atto di quel «fascista» – così veniva definita la guardia giurata – altro non era che «una fra le più dolorose conseguenze della scelta dell’on. De Gasperi»: la scelta di aver rotto l’unità antifascista, con l’uscita del Pci dal governo. «Promuovendo la formazione di un governo destinato all’impopolarità – continuava il giornale del Pci – ha suscitato in ogni parte d’Italia un’atmosfera di lotta e di guerra civile dalla quale traggono alimento le forze cripto fasciste o apertamente fasciste per rivelare la loro sostanziale natura antidemocratica» [Comi, 1947]. Appaiono evidenti i caratteri di quella retorica antifascista dell’eroismo partigiano che era funzionale allo sforzo di accreditare la Resistenza come mito fondativo della Repubblica. Così come sono chiari i segni della volontà dei comunisti di stimolare una militanza e una disponibilità continua alla lotta contro i germi perduranti del fascismo. L’articolista della «Gazzetta» aggiungeva infatti che «la proibizione verificatasi in molte città di affiggere manifesti antigovernativi, il divieto della propaganda a mezzo di impianti sonori, e tanti altri piccoli fatti più o meno caratteristici hanno creato in Italia l’impressione, tutt’altro che ingiustificata, di una polizia al servizio di un partito (quello governativo) e di certe classi (quelle rappresentate al governo) anziché del paese». E concludeva: «Si aggiunga che a Livorno di notte si canta impunemente “giovinezza” per le strade e che il titolare della Questura si chiama comm. Pennetta, già distintosi in altra epoca nella stessa città, per aver con fazioso accanimento applicato le leggi razziali, e si avrà un’idea dell’ambiente in cui si è maturato il tristo fatto di sangue avvenuto ieri» [Comi, 1947].

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Furio Diaz con gli ufficiali alleati (Fondo Diaz, Biblioteca Labronica Livorno)

Sotto altri aspetti questa cerimonia funebre mise in chiara evidenza il tentativo da parte comunista di elaborare una liturgia alternativa attingendo ai riti, alle simbologie e agli apparati della tradizione cristiana, rielaborati in chiave laica. È evidente lo sforzo di conferire grande solennità e un carattere simbolico all’evento: la bara di Alvaro Folena venne così avvolta in una enorme bandiera rossa, dietro il feretro sfilarono più di cento bandiere e corone di fiori di partiti e associazioni. Il quotidiano comunista parlava di una «dimostrazione dignitosa, severa, degna di un popolo civile ed elevato»; il cronista aggiungeva enfaticamente di non ricordare «di aver veduta cosa di simile nei lunghi anni di carriera professionale» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947]. Nella retorica comunista si intuisce la chiara volontà di restituire l’evento con una carica simbolica che superasse per fasto e livello di partecipazione l’ultimo grande evento funebre di massa celebrato a Livorno: quello del suocero di Mussolini, il conte Costanzo Ciano, officiato alla presenza del duce e di tutte le più alte gerarchie fasciste e cattoliche alla vigilia della guerra. La grande fastosità ricreata per un funerale di un semplice operaio, figlio del popolo, accendeva ancor più il contrasto col rito funebre del nobile gerarca, evidenziando l’urgenza di dare la massima espressione pubblica alla riconquistata sovranità popolare fondata sul mito della Resistenza. Nella descrizione dell’evento si attingeva al vocabolario usato dalla tradizione cattolica: si diceva così che nella camera ardente allestita all’Arena Astra, davanti al Cantiere Orlando, attorno al feretro erano «fiori e paludamenti rossi» e che «una guardia d’onore di lavoratori vegliava la salma», accanto alla quale «fu un continuo, ininterrotto pellegrinaggio». Il funerale civile si trasformò in un evento cui attribuire la più alta solennità possibile: un momento in cui partiti e associazioni del mondo laico e massonico profusero il massimo sforzo nella costruzione di una liturgia laica capace di competere con quella cattolica. È sufficiente osservare come la «Gazzetta» descrisse il corteo funebre.

Precede la bara, avvolta da un drappo rosso e portata a spalla, il gagliardetto del plotone ciclisti della Soc. Volontaria di Soccorso con la scorta. La bara è fiancheggiata da militi della Soc. Volontaria di Soccorso e dal plotone ciclisti e da una squadra d’onore del P.C.I. e della Camera del Lavoro. Ai lati un duplice cordone di ciclisti disciplina il movimento del corteo. Lungo le strade percorse dal silenzioso, grandioso corteo, la folla si assiepa a centinaia, a migliaia. Specialmente agli incroci, ai quadrivi la ressa è imponente.

Dietro la bara che raccogliere il corpo martoriato di Alvaro Folena, i congiunti della vittima, gli amici intimi, i dirigenti e componenti la commissione interna dell’Oto. Vediamo il Prefetto, il Sindaco, il Presidente della Deputazione provinciale, il direttore, de «La Gazzetta», il Questore, il Vice Questore, il Comandante del Porto, il rappresentante del Comando Marina, i rappresentanti della Magistratura, professionisti, industriali, commercianti, i rappresentanti dei vari enti cittadini, le rappresentanze dell’Udi, quelle degli stabilimenti industriali della provincia [Ibid.].

Il giornale non mancava di sottolineare l’assenza al corteo di una rappresentanza della Democrazia cristiana: il fatto, annotava «La Gazzetta» era «stato notato non soltanto dai dirigenti della manifestazione, ma dalla stragrande maggioranza dei cittadini che hanno assistito alla imponente manifestazione di cordoglio e di lutto» [=Un’assenza notata, 5 luglio 1947]. Significativa poi appare la scelta di compiere alcuni gesti simbolici nei luoghi della tradizione massonico-risorgimentale: così nella via intitolata a Garibaldi, le popolane comuniste accolsero il corteo con mazzi di garofani rossi. Il grande fascio di fiori venne posto sul feretro e le donne che lo avevano donato seguirono la bara fino a S. Marco: qui nella piazza XI Maggio che evoca la resistenza risorgimentale il corteo si scioglieva, non prima di aver ascoltato le parole del sindaco comunista Furio Diaz il quale mise in guardia i cittadini rispetto ai «pericoli della mostruosa attività di elementi reazionari, avvisando la necessità di proteggere con ogni sforzo la libertà, la repubblica e la democrazia» [Sessantamila persone, 5 luglio 1947].

 




“Tesori in guerra. L’arte di Pistoia tra salvezza e distruzione”

Il salvataggio e la distruzione del patrimonio artistico pistoiese durante la seconda guerra mondiale sono i protagonisti di questa inedita e singolare ricerca a cura di Alessia Cecconi, storica dell’arte, direttrice della Fondazione CDSE (Centro di Documentazione Storico Etnografica) della Valdibisenzio, e di Matteo Grasso, storico, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia.

La ricerca delle vicende pistoiesi è confluita in una mostra svoltasi a Pistoia nel Chiostro di San Lorenzo, dall’8 al 20 settembre 2017, e in una pubblicazione edita nel novembre 2017 da Pacini Editore.

Dagli archivi storici della Soprintendenza fiorentina, dai numerosi archivi pistoiesi e dall’Archivio nazionale di Washington sono emersi documenti, registri, carteggi e minute che hanno permesso di ricostruire le vicissitudini accadute alle opere d’arte dei musei e degli edifici religiosi, la loro messa in sicurezza, le protezioni in muratura, i trasferimenti nelle ville di campagna e le distruzioni causate della guerra.

Tra le principali novità della ricerca c’è la ricostruzione, per la prima volta, del ruolo della villa di Pian di Collina a Santomato di proprietà Beretta. Nel 1942 la Soprintendenza individuò tra Firenze, Arezzo e Pistoia una ventina di nuovi rifugi per le opere d’arte in modo da proteggerle dalle offese aeree: tra queste la villa di Pian di Collina. Nell’estate 1943 le sale della villa videro arrivare il primo camion di opere con i dipinti, provenienti dagli Uffizi, di Filippo Lippi, Beato Angelico, Luca Signorelli, Rosso Fiorentino, Parmigianino. Una ventina di capolavori ai quali si erano aggiunte altre casse ritirate dalla villa di Poggio a Caiano contenenti i sette capolavori medievali di Pistoia ricoverati nel 1940 alla Villa Medicea, fra cui il Crocifisso di Giovanni Pisano e l’imponente Crocifissione di Coppo e Salerno di Marcovaldo.

Ampio spazio è stato dedicato ai bombardamenti alleati su Pistoia, colpita pesantemente fra il 1943 e il 1944, a causa della presenza di vie di comunicazione e di numerosi obiettivi industriali e militari, che provocarono oltre centocinquanta vittime, distruzioni pesantissime e il completo sfollamento della città. Nel territorio della Diocesi dodici chiese furono rase al suolo, cinquantuno risultarono gravemente lesionate e sessantatré leggermente danneggiate.

Per la prima volta è stato fatto il punto su tutte le distruzioni del patrimonio monumentale pistoiese, una ferita profonda e da cui però partì un’opera di ricostruzione eccezionale. Nel centro storico fu distrutta la chiesa di San Giovanni Battista e buona parte del Conservatorio, con il suo immenso patrimonio, e furono seriamente danneggiate le chiese di San Domenico e di San Giovanni Fuorcivitas. Alcune bombe cadute sulle città rimasero inesplose, altrimenti oggi non potremmo ammirare in tutta la loro bellezza il palazzo del Tribunale, la chiesa di Sant’Andrea, i faldoni più preziosi dell’Archivio di Stato e il Medagliere Gelli.

Altra importante novità emersa nel corso della ricerca è la requisizione da parte dell’esercito tedesco di importanti opere artistiche fra cui le robbiane dell’ospedale del Ceppo e il quattrocentesco Stemma del Comune che erano state riposte dai funzionari della soprintendenza alla villa di Poggio a Caiano.  Vennero trasferite in Alto Adige insieme a migliaia di opere fra cui alcune sculture di Donatello e Michelangelo custodite nel Museo del Bargello. Furono recuperate nel luglio 1945 grazie al lavoro degli uomini della soprintendenza fiorentina e dei “monuments men”, la task force americana messa in campo per la protezione delle opere d’arte, con l’intervento di vari personaggi tra cui l’arcivescovo fiorentino Elia Dalla Costa e monsignor Giovan Battista Montini, segretario di Stato del Vaticano e futuro papa Paolo VI.

Oltre settanta fotografie accompagnano la mostra e il libro. Provengono da collezioni private e dagli archivi fotografici delle Gallerie degli Uffizi, della Soprintendenza di Firenze Prato e Pistoia, dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, della Fondazione Conservatorio di San Giovanni Battista in Pistoia.

Fra le immagini inedite vi sono quelle del trasporto delle opere artistiche dal Palazzo Comunale, dei camion della Soprintendenza a Pistoia, della protezione al pulpito di Giovanni Pisano nella chiesa di Sant’Andrea, dei danneggiamenti in piazza della Sala con la semi distruzione del pozzo del Leoncino, della distruzione di San Giovanni Battista, delle rovine all’interno di San Giovanni Fuorcivitas, e la Visitazione di Luca della Robbia smembrata per essere portata in sicurezza.

Matteo Grasso, laureato in storia, svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti della storia contemporanea. E’ direttore dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia dal luglio 2016. Ha pubblicato alcuni saggi riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale sui Quaderni di Farestoria, periodico quadrimestrale dell’ISRPt. 




La guerra aerea in provincia di Lucca 1943-1945

Durante il secondo conflitto mondiale la guerra aerea giunse tardi in provincia di Lucca, concentrandosi prevalentemente tra il novembre del 1943 e il settembre dell’anno successivo. Solo nelle aree rimaste sotto controllo tedesco – alcune porzioni dell’Alta Versilia e della Garfagnana settentrionale – essa sarebbe proseguita fino alla primavera del 1945, quando le forze alleate sfondarono definitivamente la Linea Gotica, dilagando nella Pianura Padana e ponendo fine alla sanguinosa campagna d’Italia. La provincia era a lungo apparsa come un santuario, tanto che fin dal 1940 erano giunti numerosi profughi dalle aree bombardate della penisola, in cerca di una nuova, provvisoria sistemazione o di un luogo più sicuro in cui vivere. Questa illusoria immunità fu dovuta soprattutto al fatto che durante i primi anni di guerra la Lucchesia rimase al di fuori del raggio d’azione dei bombardieri che decollavano dalla Gran Bretagna. Anche dopo l’ottobre del 1942, quando la strategia britannica virò verso quell’area bombing che veniva già impiegato sul Reich, la provincia continuò a rimanere al sicuro dagli attacchi aerei. In questa fase i bombardamenti non miravano più a bersagli puramente militari, quanto piuttosto al morale dei civili. I vertici della Royal Air Force ritenevano – correttamente – che le difese attive e passive delle città italiane fossero più labili rispetto a quelle tedesche, rendendo quindi la popolazione particolarmente vulnerabile. Lo scopo era quindi soprattutto politico e volto ad accelerare l’uscita italiana dal conflitto, minando, attraverso i bombardamenti, la già traballante fiducia che gli italiani nutrivano nei confronti del regime. In questo contesto la scarsità di obiettivi appetibili – fondamentalmente grandi centri abitati o importanti complessi industriali – giocò a favore della Lucchesia, che riuscì ad evitare anche le pesanti incursioni compiute a partire dall’estate del 1943 nell’ambito dell’Operazione “Pointblank”.
La provincia di Lucca non riuscì però a rimanere completamente estranea alla guerra aerea. A partire dall’autunno del 1943 il suo territorio era ormai nel raggio d’azione dei velivoli alleati ed era inevitabile che la sua rete stradale e ferroviaria venisse inclusa tra i bersagli da colpire. Fin dall’inizio della guerra, anche se a fasi alterne, le ferrovie e gli scali di smistamento erano infatti stati in cima alla lista degli obiettivi, per quanto ad essi fossero stati spesso privilegiati i centri cittadini, quelli industriali o le basi dei sommergibili tedeschi. Dopo almeno 65 allarmi aerei scattati tra settembre e ottobre, e un bombardiere pesante B-24 “Liberator” abbattuto sui cieli di Lucca il 1° ottobre, la prima incursione degna di nota fu compiuta sull’area ferroviaria di Viareggio la sera del 1 novembre 1943. La città era illuminata e la reazione antiaerea quasi nulla, quindi il bombardamento compiuto dai 19 bimotori inglesi Vickers “Wellington” risultò molto preciso. Il raid successivo del 30 dicembre, sempre sullo scalo viareggino, fu eseguito da bombardieri medi B-26 “Marauder” statunitensi ed ebbe conseguenze più tragiche. Il bersaglio non era ben visibile e molte bombe caddero sulle abitazioni adiacenti, causando 19 morti e 51 feriti: il bombardamento risultò così disperso che alcuni ordigni finirono a diversi chilometri di distanza, colpendo il territorio del comune di Massarosa.

8 gennaio 1944: bombe alleate sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

8 gennaio 1944: bombe alleate cadono sulla stazione di Lucca. (Fonte: sito Ferrovia Lucca-Aulla)

Il nuovo anno vide invece la stessa Lucca nel mirino delle forze aeree alleate, colpita dai B-26 durante il “bombardamento di Befana” del 6 gennaio e in quello di due giorni dopo. Gli obiettivi erano la stazione ferroviaria e le industrie del vicino quartiere di San Concordio, dove morirono almeno 24 persone, mentre altre decine rimasero ferite. Per molti lucchesi i due bombardamenti del gennaio del 1944 furono la prima esperienza diretta della guerra, nonostante il paese vi fosse impegnato da quasi quattro anni. Non stupisce quindi che quegli eventi si siano fissati nella memoria dei testimoni oculari, come Giovanni Bucci, che durante l’attacco si trovava in casa con il fratello più piccolo:

[…] subito una casa vicino a noi crollò con le macerie che ci sfiorarono. Ricordo cadere giù la macelleria di Fioravante Paoli, detto nel quartiere “Fiore”, che venne estratto dalle macerie e che ebbe problemi alle ginocchia per tutto il resto della sua vita […].

Nei mesi successivi fu soprattutto la Versilia ad essere presa di mira dai velivoli alleati, con Viareggio che da sola, tra gennaio e aprile, subì almeno 17 attacchi sull’area portuale e su quella ferroviaria. Particolarmente distruttivo si rivelò il bombardamento del 13 marzo, quando 27 B-26 colpirono un treno in sosta carico di passeggeri, causando 62 morti e 79 feriti.
L’aprile del 1944 vide l’inizio dell’Operazione “Strangle” (strangolamento), all’interno della quale sono state a volte erroneamente inserite le incursioni avvenute sulla Lucchesia nei mesi precedenti. “Strangle”, come il nome suggerisce, mirava all’interdizione delle vie di comunicazione del Centro e del Nord Italia, così da ostacolare i rifornimenti che giungevano alle forze tedesche in difesa della Linea Gustav, a sud di Roma. Anche se in provincia di Lucca la tipologia delle azioni non subì drastici cambiamenti, in quanto i velivoli alleati si erano sempre concentrati su questi obiettivi, gli attacchi iniziarono ad avere un respiro più ampio. In precedenza erano state soprattutto le stazioni e gli snodi a finire nel mirino, adesso tutta la rete viaria e ferroviaria divenne bersaglio delle incursioni, che in alcuni casi assunsero dimensioni considerevoli. È il caso del bombardamento del 12 maggio su Viareggio, una delle rare occasioni in cui i bombardieri pesanti B-24 della 15ª Air Force statunitense vennero impiegati sui cieli della Lucchesia. Furono sganciate circa 125 tonnellate di bombe, che colpirono lo scalo ferroviario, la linea Lucca-Viareggio e la zona portuale. Fu però nell’accanimento contro il ponte stradale e quello ferroviario di Ponterosso, nel comune di Pietrasanta, che la Versilia sperimentò appieno l’operazione Strangle. A partire dal 18 maggio 1944 la piccola frazione subì quindici attacchi, che tuttavia fallirono nell’abbattere il doppio ponte sul fiume Versilia a causa delle usuali difficoltà di puntamento e delle dimensioni relativamente piccole dei bersagli. Danni più pesanti subirono invece l’abitato di Ponterosso e le frazioni limitrofe. Ironia della sorte, furono i tedeschi alla fine a far saltare i ponti per ostacolare l’avanzata alleata.

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

19 luglio 1944: bombardieri medi B-25 americani attaccano Ponterosso di Seravezza. (Fonte: Alberti, Bombe sulla Linea Gotica, p. 81)

La differenza più marcata con i mesi invernali fu però l’impiego relativamente diffuso di piccoli gruppi di cacciabombardieri. La quasi totale assenza di aerei tedeschi (o della Repubblica Sociale Italiana) permetteva l’utilizzo massiccio dei caccia alleati in missioni di attacco al suolo, armati con bombe e con le armi di bordo, per lo più mitragliatrici pesanti. Impiegati in modo flessibile e senza ordini troppo rigidi, ai piloti veniva data ampia discrezione sull’attacco di “bersagli occasionali” dopo aver portato a termine la missione principale. Queste rapide, spesso improvvise incursioni, causavano danni molto meno gravi rispetto a quelle dei bombardieri medi e pesanti, ma tenevano sotto costante pressione le truppe tedesche in movimento allo scoperto nelle ore diurne. Erano anche fonte di continua preoccupazione per la popolazione civile perché a volte era proprio quest’ultima a farne le spese, o come danno collaterale o per essere stata confusa con i tedeschi. Attacchi di questo tipo resero ogni luogo della Lucchesia potenzialmente a rischio, tanto che diversi territori rimasero del tutto al sicuro dai bombardamenti per essere però saltuariamente oggetto di incursioni da parte di questi agili velivoli. Un caso tipico in Versilia è quello del comune di Massarosa, dove esse causarono la morte di almeno dieci persone – tra le quali un soldato tedesco – e il ferimento di altre cinque. Gli attacchi aerei proseguirono per tutta l’estate fino a ridosso dell’arrivo delle forze alleate, che entro la fine del settembre del 1944 avevano respinto i tedeschi da quasi tutto il territorio provinciale.
Le aree più settentrionali dell’Alta Versilia e della Garfagnana, colpite anch’esse fin dall’estate, rimasero in mano tedesca, continuando di conseguenza ad essere martellate dagli aerei alleati, che miravano, oltre che alle solite vie di comunicazione, a depositi, magazzini e concentramenti di truppe. In una di queste azioni, compiuta su Castelnuovo Garfagnana il 13 febbraio 1945, alcuni cacciabombardieri, probabilmente nel tentativo di colpire una postazione di artiglieria tedesca, centrarono invece un rifugio antiaereo, provocando la morte di 30 persone. Si calcola che tra il luglio del 1944 e l’aprile dell’anno successivo la zona attorno al capoluogo garfagnino fu interessata da circa 70 incursioni. Altre colpirono il territorio del comune di Minucciano, mentre durante l’estate erano state prese di mira le aree di Camporgiano e Piazza al Serchio.
Da questa rapida carrellata è evidente la sproporzione con cui le bombe colpirono il suolo lucchese. Se nell’entroterra la Garfagnana soffrì considerevolmente, i comuni limitrofi a Lucca – su cui però abbiamo meno dati – furono meno interessati dall’offesa aerea. Nel caso specifico della Mediavalle del Serchio, la distribuzione degli attacchi seguì di fatto solo la linea ferroviaria Lucca-Piazza al Serchio. La stessa Lucca, fatta eccezione dei già citati bombardamenti del 6 e 8 gennaio 1944, venne attaccata solo sporadicamente e, nelle settimane che precedettero e seguirono l’arrivo degli Alleati, fu danneggiata più dal fuoco dell’artiglieria che dalle bombe aeree. La fascia costiera della Versilia rimase nel centro del mirino a lungo e fu colpita duramente, ma anche nel suo caso la geografia delle incursioni è peculiare della diversa importanza data dagli Alleati a determinati obiettivi. Viareggio, con il suo porto e il suo scalo ferroviario che fungeva da collegamento con Pisa, dove nell’estate del 1944 il fronte rimase fermo per alcune settimane, fu colpita almeno 47 volte – 70 secondo altre fonti -, con la frequenza dei bombardamenti che aumentò a partire dal maggio del 1944. La città ebbe un bilancio finale di 125 morti, a cui si deve aggiungere un numero più alto di feriti. Anche la minuscola Ponterosso, per via del suo doppio ponte, fu interessata da quasi 20 attacchi. Viceversa, Massarosa e Camaiore, avendo infrastrutture meno importanti, subirono solo poche incursioni, anche se quest’ultima fu oggetto di due bombardamenti piuttosto pesanti il 22 e il 28 luglio 1944.

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta durante un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Viareggio: macerie della chiesa di Sant’Antonio, distrutta da un’incursione angloamericana. (Fonte: sito Territori del ‘900)

Si tratta comunque di numeri quasi insignificanti nel contesto generale della guerra aerea, soprattutto se raffrontati con quelli di altre aree della penisola, per non parlare del Nord Europa. Anche i bombardamenti più massicci – quelli di Lucca del gennaio 1944 e quelli di Viareggio – videro l’impiego di poche decine di velivoli e il costo complessivo in vite umane, per quanto tragico, fu tutto sommato contenuto. Tuttavia, per chi si trovò suo malgrado sotto le bombe, l’esperienza non era dissimile da quella di decine di migliaia di altre persone – civili e militari – che subirono attacchi aerei durante la guerra. Al senso di impotenza e di terrore provato durante le incursioni si sostituivano la disperazione e la rabbia una volta appurati i danni e fatta la conta dei morti e dei feriti. Così Silvio Basile ricorda il bombardamento di Camaiore del 22 luglio, uno dei pochissimi subiti dalla città:

Quei criminali avevano fatto strage di povere donne venute lì (nella piazza del mercato) da tutta la vallata a prendere il sacchetto di grano distribuito dall’annona. I muri, o quel che ne restava, erano ricoperti di pezzetti di cervello. Era tutto un lamentarsi di feriti e un urlare di gente accorsa. Un giovane correva fra le buche aperte dalle bombe invocando sua madre a perdifiato […].

A fianco di commenti come questo, del tutto comprensibili date le circostanze, vi sono ricordi sorprendentemente favorevoli nei confronti degli aviatori alleati. Così ricorda Giovanna Davini, che si trovò sotto le bombe a San Concordio il 6 gennaio 1944:

[…] La considerazione verso gli Alleati rimase immutata nonostante queste bombe del giorno di Befana. Il fascismo, almeno nella nostra famiglia, dopo le leggi razziali e l’entrata in guerra, non godeva più di alcun consenso.

Del resto, lasciando in questa sede da parte le lunghe, spesso aspre, diatribe attorno al bombardamento strategico, nate già durante la guerra e proseguite fino ad oggi, da questa disamina appare chiaro come gli obiettivi presi di mira in Lucchesia dai velivoli alleati fossero completamente legittimi. Le azioni aeree mirarono quasi esclusivamente all’interdizione delle vie di comunicazione e, in misura minore, a colpire concentramenti di truppe. Inevitabilmente, a causa della cronica difficoltà nell’identificare i bersagli e dell’intrinseca imprecisione delle bombe e degli strumenti di puntamento dell’epoca, in molti casi a farne le spese fu anche la popolazione civile. Vittima, quest’ultima, di una guerra fortemente voluta dal regime fascista, gestita e combattuta malamente, che portò alla distruzione del paese e alla morte di quasi mezzo milione di italiani, almeno 70.000 dei quali caduti sotto le bombe sul suolo nazionale.




Strumenti antichi per nuovi fini

Tutti conosciamo Ferdinando Martini, giornalista, scrittore di teatro e soprattutto politico liberale, Ministro dell’Istruzione, delle Colonie e viceré d’Eritrea, le cui carte, acquistate e conservate dalla Biblioteca Nazionale di Firenze e dalla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, ci sono giunte fino a noi. Molto meno conosciuta è invece la moglie Giacinta Marescotti, una delle prime suffragiste italiane, il cui coinvolgimento nella battaglia per l’ampliamento del suffragio si coniugò a un altrettanto intenso impegno nella filantropia e nell’assistenza ai bambini con disabilità intellettiva: una figura radicalmente e fieramente autonoma dal marito ma di cui ben poca traccia ci è giunta perché nel 1928, con la morte di Ferdinando Martini, tutte le sue carte andarono distrutte.

Nata a Monsummano nel 1844 da una famiglia di nobiltà antica e consolidata, crebbe insieme ai fratelli minori Alessandro (morto a soli 18 anni) e Teresa. Nel 1866 sposò Ferdinando Martini, che dal padre Vincenzo aveva ereditato tanto il titolo nobiliare quanto le disastrate finanze familiari, vincendo anni di resistenze e preoccupazioni familiari. Nel 1872, al termine di alcuni anni di peregrinazioni (prima a Vercelli, poi a Pisa), la coppia – che aveva ormai due figli: Alessandro e Teresa – si trasferì a Roma, dove già viveva la sorella minore di Giacinta, andata nel frattempo in sposa al principe Ignazio Boncompagni Ludovisi.

Nel suo salotto di Palazzo Simonetti, Giacinta tessé relazioni con ambienti vicini all’Estrema (come allora erano chiamati i gruppi parlamentari ed extra-parlamentari vicini a radicali, repubblicani e socialisti), dando vita a un ambiente ben più radicale di quello di cui si circondò il marito, dal 1878 al 1918 deputato per la Sinistra storica. Nel turbinio dei personaggi convocati e abbandonati dalla vulcanica contessa, i più costanti e assidui furono il meridionalista Giustino Fortunato, il politico socialista Andrea Costa e Sibilla Aleramo.

Si dedicò, insieme alla sorella e all’amica Lavinia Taverna, a patrocinare l’infanzia abbandonata: in questa veste si avvicinò al medico e deputato Clodomiro Bonfigli, prossimo a fondare, nel 1898, la “Lega nazionale per la difesa del fanciullo deficiente”, la prima associazione specificatamente destinata alla tutela e all’educazione dei disabili intellettivi. Membro del consiglio direttivo della Lega, qui conobbe una giovane Maria Montessori, che nel 1899 raccomandò al Ministro Guido Baccelli perché ottenesse la cattedra di Pedagogia generale e speciale nella nuova Scuola magistrale ortofrenica – creata per formare i maestri dei bambini con disabilità intellettiva.

Sociabilità nobiliare e impegno nell’associazionismo benefico, se da un lato potevano configurarsi come un comportamento in linea con un ruolo femminile tradizionale e ampiamente consolidato, dall’altro lato consentirono alla Marescotti di collaudare e strutturare tutta quella rete di relazioni, interessi, contatti che seppe poi riutilizzare nella sua battaglia suffragista. In questo senso, gli strumenti antichi del salotto e della beneficienza trovarono ragione nei nuovi fini dell’emancipazionismo e della costruzione di un “partito femminile”, una formazione politica che riunisse tutte le donne in un’ottica interclassista e interpartitica. Le donne, infatti, tanto per Marescotti quanto per molte altre sue collaboratrici, erano viste come le uniche depositarie di valori – la compassione, l’attenzione verso i più deboli, l’interclassismo – che, con il loro ingresso in politica, avrebbero rinnovato la compagine sociale e nazionale. Questa fiducia quasi palingenetica nel contributo femminile motivò la continua mediazione della contessa monsummanese tra l’anima radical-socialista del femminismo e le correnti moderato-conservatrici, che trovavano il loro riferimento in Maria Pasolini e in Gabriella Spalletti Rasponi, presidente del CNDI (il Comitato Nazionale delle Donne Italiane).

Il coinvolgimento della Marescotti nell’associazionismo femminista, nazionale e internazionale, è documentabile già negli ultimi anni dell’Ottocento, quando aveva ospitato a Palazzo Simonetti Emmeline Pankhurst, leader delle suffragiste inglesi. La discesa in campo fu però compiuta nel 1904, quando il parlamento decise di discutere il disegno di legge per il suffragio femminile presentato dal deputato dell’Estrema Sinistra Roberto Mirabelli. Nell’ottobre 1905 Marescotti fondò a Roma il Comitato pro-suffragio, che in breve tempo, attraverso il collegamento con la sezione lombarda, attecchì in tutte le principali città italiane. Solito riunirsi nei locali di Palazzo Simonetti, il comitato presentò nel febbraio 1907 al Parlamento una Petizione (già depositatavi nel marzo 1906) per richiedere il diritto di voto alle donne che sapessero leggere e scrivere. Frutto di un lungo e complesso lavoro di mediazione tra le anime più radicali e quelle più moderato-conservatrici del movimento, la petizione sembrava concretizzare la possibilità di un “partito femminista”.

L’allestimento, durante il primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane (tenutosi a Roma dal 23 al 28 aprile 1908), di una sessione plenaria sul suffragio femminile, sembrava confermare il rilievo assunto dall’organizzazione e dalla sua presidente, che, nonostante i problemi di salute (i non meglio precisati “mali di petto” che la condussero alla morte il 9 marzo 1912), riuscì a presiedere la seduta. Tuttavia, il tentativo di mediazione della Marescotti e la fiducia nelle istituzioni erano destinati a infrangersi: il primo, sugli scogli delle differenti visioni politiche, sociali e culturali dell’eterogeneo movimento femminista, che, sempre durante i lavori della conferenza romana, si divise durante le discussioni sull’emendamento Malnati per la laicità della scuola elementare; il secondo, nel maggio 1912, poco dopo la morte della contessa, quando la Commissione parlamentare incaricata di studiare l’allargamento alle donne del voto politico diede alla questione un parere negativo.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in Storia contemporanea, con una tesi sull’istruzione professionale nell’Italia liberale, nel 2015, presso l’Università di Firenze. Ha lavorato alla biblioteca del Consiglio dell’Unione Europea e attualmente insegna a Pescia. Dal 2013 è membro del Consiglio direttivo dell’I.S.R.Pt. Con il Comune di Monsummano e l’ISL Montecatini Monsummano ha curato una mostra documentaria su Italia Donati e Giacinta Marescotti, di cui sta per uscire il catalogo. Tra le ultime pubblicazioni: Da “conquista sociale” a “selezione innaturale”: le illusioni perdute delle classi differenziali in Italia, «Italia contemporanea», 289 (2017); Schools for workers? Industrial and artistic industrial schools in Italy (1861-1914), in P. Gonon, E. Berner (a cura di), History of Vocational Education in Europe, Lang, 2016; Branding of technical Institutes by the State: Italy 1861-1914, in A. Heikkinen, P. Lassnigg (a cura di), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015.