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La reazione dentro l’innovazione. Il contratto di mezzadria toscano nel 1928

Preceduto da un nuovo capitolato colonico stipulato dai sindacati fascisti già nel 1926, il contratto di mezzadria toscano del 1928 è uno spartiacque importante nella storia di questo istituto agricolo nel Novecento, rimanendo in vigore – grazie alle resistenze padronali – ben oltre la fine del Regime. Fu infatti soltanto all’epoca dell’epilogo dell’Italia rurale, nel 1964, che si intervenne per via legislativa a riformarlo.

Arrivato dopo una discussione con gli agrari, che avrebbero preferito restaurare la consuetudine dell’accordo individuale, magari non scritto, il contratto fu spinto dallo stesso Gran consiglio del fascismo, che nel 1927 stabilì che la mezzadria doveva essere regolata tramite accordi collettivi siglati con i sindacati fascisti. Nel 1928 fu quindi varato il “Contratto collettivo di lavoro per la conduzione dei fondi a mezzadria nella regione Toscana”, da subito portato a modello per tutta l’Italia come forma fascista preferita per la regolazione dell’agricoltura, con l’istituto mezzadrile, letto in chiave ideologica come “armonioso”, esaltato e promosso. Nei fatti tuttavia, arrivando dopo la grande stagione di lotte ed avanzamenti – ancorché solo sulla carta – del 1919-20, il contratto del ’28 segnava la vittoria di una feroce reazione.

Sul piano generale, il “capoccia” continuava ad impegnare l’intera famiglia, perpetrando così il modello patriarcale. La “disdetta” veniva di fatto mantenuta libera – con tanto di possibilità da parte del concedente di recidere in tronco in contratto senza preavviso – mitigata solo dall’obbligo di convalida presso al Magistratura del lavoro, che si limitava a sanzionare un’azione già avvenuta, e con la previsione di una possibile accordo tra le organizzazioni sindacali fasciste, chiamate a rappresentare tanto i padroni che i mezzadri e vanificando per questa via qualsiasi reale tutela della parte più debole. Il riparto di tutti i prodotti e i redditi delle industrie poderali restavano ripartiti a metà, secondo i canoni classici della mezzadria. La direzione amministrativa e tecnica rimaneva saldamente in mano al proprietario, con l’esclusiva facoltà di decidere in merito alla scelta delle sementi, delle coltivazioni ed alla loro direzione tecnica, così come gli indirizzi zootecnici.

Il Contratto entrava nel merito di tutte le questioni mezzadrili. Il carattere reazionario era evidente anche in queste questioni più dettagliate. Il colono doveva immettere in proprio gli attrezzi e gli utensili. Tutta la famiglia era tenuta a lavorare sul podere eseguendo in maniera intelligente e disciplinata le istruzioni del proprietario, che in caso di rifiuto aveva la facoltà di assumere dei braccianti addebitando la spesa al mezzadro. Al colono era vietato di svolgere qualsiasi lavoro per conto terzi, salvo autorizzazione del proprietario. Erano a carico del mezzadro il mantenimento delle strade poderali e la manutenzione. Il contadino doveva provvedere anche al trasporto dei prodotti alla fattoria padronale o alla stazione ferroviaria. A metà erano divise anche le spese che sarebbero dovute essere a carico del proprietario, come quelle per i citati trasporti e l’assicurazione sul bestiame. Sempre a metà restavano l’acquisto di concimi, sementi, anticrittogramici e insetticidi, anche se il colono non aveva voce in merito a quali e quanti. Laddove le necessità della produzione moderna comportavano l’uso di macchinari, come nella trebbiatura, il colono doveva pagare un canone di affitto al proprietario, o sostenere la metà delle spese, in aggiunta al proprio lavoro, per l’affitto di macchine necessarie alla lavorazione del terreno. In merito alla vendita dei prodotti, le operazioni spettavano al padrone. Nel caso il raccolto di cereali non coprisse le esigenze alimentari della famiglia, il proprietario avrebbe provveduto con una quota della sua parte, ceduta però a prezzo di mercato. Una norma, fra le numerose, rende bene l’idea del permanere di un regime di potere feudale: le castagne venivano divise a metà, ma la raccolta, la ripulitura del bosco e la potatura spettavano al colono.

Si riconoscevano piccoli miglioramenti, quali l’obbligo del proprietario a fornire una casa adeguata al podere ed in buone condizioni, anche igieniche, e provvista in qualche modo di acqua. La manutenzione straordinaria dei fabbricati, le opere di bonifica e soprattutto le nuove piantagioni erano in linea teorica a carico del proprietario, che però di norma profittava della sua posizione di potere per evadere questi obblighi. Per la manutenzione di attrezzi e utensili si riconosceva una compartecipazione del proprietario, che poteva provvedervi con una quota forfettaria. La famiglia poteva poi tenere per i suoi consumi un orto e un pollaio, le cui dotazioni massime di animali da corte dovevano essere stabilite dai patti aggiuntivi.

Questi “miglioramenti” non erano comunque una novità, anzi per la gran parte erano già stati ottenuti durante le lotte precedenti. Venivano mantenuti, in forme attenuate, perché non inficiavano la sostanza della mezzadria, Il sindacato fascista poi doveva salvare almeno un’apparente funzione di tutela. La sostanza del Contratto era però una netta riaffermazione del potere degli agrari e la cancellazione delle conquiste più avanzate delle organizzazioni cattoliche e socialiste. Non va dimenticato poi che i patti aggiuntivi provinciali, con i loro riferimenti alle consuetudini, aggiungevano ulteriori aggravi sulla famiglia mezzadrile.

In conclusione, il contratto era nettamente sbilanciato sia dal punto di vista economico che nella regolazione dei poteri delle parti verso un “assolutismo” padronale. Il suo mantenimento anche in epoca repubblicana segnò un grave vulnus nelle campagne ai diritti nati con la Costituzione, e fu tra i motivi che impedirono una trasformazione democratica degli assetti proprietari dell’agricoltura italiana negli anni della Ricostruzione.

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia, coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro e fa parte del Consiglio dell’Associazione italiana di storia orale. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientale; Una passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923; Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers; La mezzadria nel Novecento. Storia del movimento mezzadrile tra lavoro e organizzazione. Ha curato le due mostre La mezzadria nel Novecento: lavoro, storia, memoria e La chiave a stella. Il lavoro industriale nel ‘900. Insieme a Giovanni Contini ha realizzato il film documentario In cerca della felicità. Storie di immigrati a Pistoia.




MICHELE BARUCH BEHOR: da Cutigliano ad Auschwitz

L’alba del 21 gennaio 1944 fu tragica per la famiglia Baruch, composta da ebrei livornesi sfollati presso la pensione Catilina di Cutigliano, paese posto sulla montagna pistoiese lungo la strada verso l’Abetone. Per quella mattina erano stati convocati nella locale caserma dei carabinieri che li avrebbero inviati a un cupo destino, quello dei campi di concentramento nazi-fascisti.

La famiglia, emigrata a Smirne in Turchia nel 1920 alla ricerca di lavoro, aveva fatto ritorno a Livorno nel 1933 ed era composta da Isacco e Cadina, marito e moglie, rispettivamente di 54 e 44 anni  e dai loro figli, Michele (24 anni), Clara (17 anni) , Susanna (19 anni) e Marco (14 anni).

Erano ebrei sefarditi, discendenti cioè degli ebrei che alla fine del XV secolo i re cattolici di Spagna e Portogallo avevano deciso di espellere dai loro regni, facendo fortuna poi nell’impero ottomano nel quale avevano trovato rifugio. I sefarditi si erano poi diffusi lungo le rive del Mediterraneo e quindi anche in Italia dove si stabilirono soprattutto a Ferrara e Venezia prima e in Toscana poi. I granduchi medicei favorirono con le “Costituzioni leonine” lo stanziamento degli ebrei, in particolar modo a Livorno. Intorno agli anni Trenta del XX secolo la comunità ebraica della città labronica contava su circa 2.300 persone ed era una delle più consistenti della penisola.

Michele, che sarà il solo superstite della famiglia, nel 1933 lavorava alla Società Italiana del Litopone, produttrice di una miscela di solfato di bario e solfuro di zinco che dava il nome all’azienda. Con l’avvento delle leggi razziali, nel 1938, perse il suo impiego e la sua famiglia riuscì a sopravvivere solo grazie all’appoggio della locale comunità ebraica. In una sua testimonianza afferma di aver lavorato anche sotto falso nome per la Todt, un’impresa di costruzioni operante in Germania e poi negli altri paesi occupati che in Italia provvide alla costruzione di parte della linea Gotica, aggiungendo che “dopo una decina giorni i repubblichini, scoperto che ero ebreo, mi consigliarono con tono quasi bonario di abbandonare quel lavoro“.

P.ne Catilina2MG

Foto gentilmente concessa da Simone Breschi e Gianna Tordazzi

Le famiglie di origine ebrea vivevano nella zona del porto, occupandosi di cantieristica e nel centro storico intorno alla Sinagoga, cioè nelle zone più soggette ai bombardamenti alleati della primavera/estate 1943. Diversi gruppi familiari, fra cui i Baruch, decisero pertanto in quei mesi di spostarsi in zone ritenute più sicure. Molti si rifugiarono nell’entroterra fra Livorno e Grosseto e sulle colline pisane, altri andarono più lontano, nelle zone di Firenze, Lucca, Arezzo. Alcune famiglie si recarono in Garfagnana sfruttando la rete di conoscenze acquisite con le donne di servizio che tradizionalmente scendevano a Livorno da quelle zone. Altre decisero di spostarsi nei paesi della Toscana settentrionale, secondo alcuni direttamente su indicazione della Delasem, la Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti, creata nel 1939 dall’Unione delle Comunità israelitiche per favorire la fuga agli ebrei che erano rimasti bloccati in Italia.

Fu in seguito a questo insieme di situazioni che i Baruch giunsero sulla montagna pistoiese e precisamente a Cutigliano. Quel che accadde loro nel piccolo paese dell’Appennino pistoiese lo sappiamo dallo stesso Michele che, a quarant’anni circa da questi fatti decise di far conoscere il calvario della propria famiglia attraverso un breve dattiloscritto, attualmente conservato presso la biblioteca della comunità ebraica di Livorno.

Una volta catturati, i membri della famiglia Baruch furono condotti prima nel carcere di Pistoia e da qui, dopo dieci giorni, alle Murate a Firenze. Nel carcere fiorentino i Baruch rimasero quindici giorni fra atroci sofferenze prima di partire per Fossoli, presso Carpi (MO), dove vissero circa un mese. Da qui, caricati su un carro bestiame assieme ad altre settanta persone circa, furono indirizzati verso una destinazione a loro originariamente ignota, che si rivelerà essere il campo di concentramento di Auschwitz. Per il viaggio di dieci giorni dice Michele nelle sue memorie “ci era stato dato un fiasco d’acqua e dei barattoli di marmellata e di pane“.

All’arrivo i superstiti furono posti in file di cinque davanti alle Kapò e al temuto dottor Mengele. Lavati, depilati con “rozzi rasoi” e cosparsi di creolina, furono condotti all’aperto in attesa del vestiario, cioè la nota divisa a righe e un paio di zoccoli di legno e, come si legge nelle memorie, delle “mutande pidocchiose appartenute a qualche altro deportato deceduto“. Michele ricorda quindi con dolore la marchiatura  sulla pelle del numero di matricola che ha portato sino alla morte, il 174474 e quella, con lo stesso numero, del vestito.

L’autore rammenta chiaramente a distanza di anni le lotte con i prigionieri già presenti nel campo per conquistare un posto nei letti a castello e gli appelli, fatti spesso alle tre del mattino, con accanto ai sopravvissuti le cataste costituite dai  corpi dei compagni deceduti durante la notte, perchè “all’atto della conta, doveva tornare il numero preciso” dei prigionieri.

Il loro lavoro consisteva nel “portare pietroni sulle spalle o con un carrettone o portare via i cadaveri dalle baracche per condurli ai forni crematori“, accompagnati dalle note di  Rosamunda, una polka della cui versione tedesca nel 1938 erano state vendute più di un milione di copie. Colpisce il fatto che questo stesso dettaglio è citato nell’opera “Se questo è un uomo” di Primo Levi.

Il pranzo era costituito da una brodaglia di rape, la cena che arrivava dopo un altro estenuante appello, da un po’ di margarina.

Michele afferma che solo dopo un po’ di tempo scoprì la funzione della ciminiera “le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori“. In quel momento sentì mancargli il terreno sotto i piedi perchè fu solo allora che comprese che i suoi cari, non appena divisi dal dottor Mengele, erano stati destinati alle camere a gas e non alle docce come promesso. Il pezzo di sapone e l’asciugamano che avevano ricevuto erano stati insomma un vile inganno.

Nel suo breve dattiloscritto l’autore cita le baracche destinate all'”ospedale” (in realtà i locali dove venivano effettuati gli esperimenti dei medici nazisti) e fa riferimento alle esecuzioni capitali tramite “fucilazioni e tortura“.

Michele afferma di essere stato scelto, poi tramite il consueto appello, per andare a lavorare in un altro campo, quello di Monovitz, in polacco Oswiecim, a 7 km. da Auschiwitz, dove fu impiegato come manovale per scavare fosse e scaricare sacchi di cemento.

La mattina del 26 febbraio 1945 fu fatta una selezione per individuare gli inabili al lavoro che, si diceva, sarebbero stati destinati a un “lager di riposo“. La reale destinazione dei prescelti erano i forni crematori. Terminato l’appello Michele e altri giovani furono condotti in una fabbrica di armi e pezzi di ricambio per carri armati e autoblinde, la Buna Weke. Per i lavoratori di questa fabbrica i maggiori rischi erano dati dai bombardamenti alleati, quattro complessivamente, che colpirono la struttura e dal fatto che durante questi i tedeschi si recavano nei rifugi chiudendo i prigionieri nei locali con il rischio di rimanere sepolti vivi sotto le eventuali macerie.

L’ultima destinazione di Michele fu Buchenwald, da lui definito un campo di “eliminazione”, dove giunse dopo otto giorni di viaggio sotto i bombardamenti.  Michele, ormai pieno di sporcizia e di “bolle per mancanza di vitamine“, venne adibito a lavorare a un tunnel e riuscì a sopravvivere a diverse epidemie di tifo.

La mattina del 26 febbraio i russi fecero finalmente irruzione nel campo liberando i superstiti. Michele era ridotto a pesare solo 31 chilogrammi. Dopo quattro mesi di cure e una dieta “a base di brodo di carne senza ulteriori aggiunte” per evitare sforzi eccessivi a un corpo estrememamente delibitato, Michele potè tornare nell’amata Livorno dove però non aveva più nessuno che lo aspettasse e soprattutto pochissimi a credere ai suoi racconti. Ritornerà con la moglie nei campi di concentramento molti anni dopo.

Il breve dattiloscritto si conclude con un toccante appello di Michele “Noi scampati lotteremo con tutte le nostre forze perchè tutti si sentano fratelli ed amici, per il progresso che vada sempre avanti nella libertà e nella democrazia, affinchè nessuno abbia più a vivere la triste storia dei campi di sterminio“. Il semplice racconto di Michele si pone quindi nella scia delle testimonianze di molti altri reduci dai campi di sterminio, come ad esempio Primo Levi. Non è solo un resoconto breve, anche se circostanziato dei fatti, ma anche un invito, rivolto a tutte le persone, a fare in modo, attraverso il ricordo e l’impegno quotidiano, che questi tragici eventi non debbano ripetersi più, a far si che certe ideologie, sconfitte dalla storia, non debbano riapparire.

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.




Persecuzione e deportazione degli ebrei sulla montagna pistoiese

LA PRESENZA EBRAICA A SAN MARCELLO

Nel corso del 1938, in seguito al già citato inasprirsi delle sanzioni contro gli ebrei, il Ministero dell’Interno impose ai Comuni, con l’aiuto delle Prefetture, di individuare attraverso “una precisa rilevazione statistica degli ebrei residenti nei vari comuni alla mezzanotte del 22 agosto” (Collotti E., Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI, Carocci Editore, Roma 2007, p. 31 vol. 2, doc. II.2.)

Ovviamente con tale provvedimento si mirava ad individuare gli ebrei da sottoporre successivamente a forme di detenzione ben più dure.

Il comune di San Marcello provvide prontamente a individuare gli ebrei presenti sul proprio territorio e infatti si nota dai fondi della sottoprefettura di Pistoia, busta 199, cartella “Razza, Censimento degli ebrei”, fogli 132-140, che alla mezzanotte del 22 agosto erano presenti sul territorio sette “capo famiglia o capo convivenza”, per un totale di quattordici persone. Si trattava di ebrei presenti solo in modo temporaneo e per questo non registrati presso l’anagrafe comunale ( Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche nel comune di San Marcello Pistoiese,  edizioni C.R.T, Pistoia, 2002, p. 254). E’ da rilevare che la richiesta mirava ad accertare la presenza di ebrei stabilmente residenti e non temporaneamente presenti. Il comune fu in questo caso estremamente “zelante” nel rispondere alla direttiva del Ministero.

I sette capofamiglia erano:

  • Bassani Alessandro, del fu Eugenio
  • Carpi Cividali Olga, del fu Raffaele
  • Corinaldi Mario, del fu Cesare.
  • De Benedetti Clelia, del fu Salomone
  • Fiorentino Mosè, del fu Benedetto
  • Osima Rimini Bianca del fu Alessandro
  • Teglio Carpi Enrica, del fu Alessandro

È interessante notare che delle persone sopraindicate non risultano tracce nè ne Il libro della memoria, che indica le biografie di tutti gli ebrei deportati fra il ’43 e il ’45, nè nei diversi siti già più volte citati in queste lavoro. In parole povere le persone sopra citate non risultano deportate o almeno non lo risultano dall’Italia.

Si può ipotizzare che, presenti solo temporaneamente sulla montagna pistoiese, siano poi riuscite a fuggire altrove, forse in Svizzera, o in un altro paese, dove possano essere state catturate e sfortunatamente uccise o deportate.

Aldilà dei casi sopra esposti emerge che nel comune di San Marcello non ci furono nè arresti nè deportazioni (Cfr. Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche cit…, p. 234). Fra i numerosi atti che Fagioli riporta ve ne è uno particolarmente interessante, la lettera del 20 settembre 1938 inviata dalla direzione didattica dei comuni di Agliana e San Marcello al Podestà nella quale si scrive che:

“Un decreto legge di prossima pubblicazione prevede la istituzione, a spese dello stato, di speciali sezioni di Scuole elementari per fanciulli di razza ebraica in quallunque località dove siano almeno dieci alunni e manchi la scuola mantenuta dalla Comunità isrealitica. Vi prego dunque di farmi sapere, no oltre il 23 c.m., con ogni precisione, il numero dei ragazzi di razza ebraica, residenti in codesto comune.”

Il commissario prefettizio risponde alla lettera tre giorni dopo dicendo che “In relazione al foglio sopra distinto, significo che nessun ragazzo di razza ebraica risiede in questo comune” (Cfr. Fagioli S., Ebrei e leggi antiebraiche cit…, p. 235-237).

Nel 1938 quindi a San Marcello non dimoravano stabilmente persone di razza ebraica in età scolare.

 IL CASO DEGLI EBREI  CONDOTTI SULLA MONTAGNA DA MONTECATINI TERME

Oltre ai già citati casi, risulta che una buona parte degli ebrei presenti sulla  montagna pistoiese provenisse da Montecatini, una delle nove già citate zone di internamento presenti nel territorio pistoiese.

La comunità di Montecatini Terme in seguito all’ordine del 9 settembre 1941 di Italo Balbo di trasferire in Italia gli stranieri presenti in Libia ospitava un consistente numero di stranieri, per la maggior parte anglo-maltesi, alloggiati in diversi alberghi. Molte di queste persone, come affermato anche dal prefetto di Pistoia Francesco Bianchi non godevano di buona salute. In particolare gli sfollati: “appartenenti in genere a classi sociali dal punto di vista economico ed igienico molto modeste, sono arrivati in Montecatini in condizioni igieniche personali pessime per sudiciume della pelle e degli abiti”. La popolazione locale timorosa di contagi (era particolarmente temuto in quel periodo il tracoma), provata dalle dure condizioni della guerra e inasprita dal fatto, vero o presunto, che queste persone potessero godere di sovvenzioni provenienti dai paesi d’origine, spingeva perchè queste persone fossero destinate altrove.

Del resto all’epoca Montecatini Terme era già una località molto frequentata e i timori che la presenza straniera potesse nuocere all’attività turistica era forte. Membri del partito fascista affermavano che ” si rileva a Montecatini Terme fra le condizioni dei nostri connazionali o rimpatriati dall’Africa Italiana e quelle di parecchi ebrei e internati stranieri […]. Questi ultimi, per le sovvenzioni che a loro provengono per tramite della Svizzera e per il largo sussidio loro concesso, tengono un tenore di vita frivolo e agiato” .

Dalle proteste verbali alcuni cittadini erano passati alle minacce, come si evince dal documento sotto riportato.

In seguito alle pressioni della cittadinanza quindi con il marzo 1942 cominciarono i primi trasferimenti.

Nel novembre 1942 erano comunque presenti a Montecatini ancora 89 anglo-maltesi, che ricevono un sussidio dal governo inglese e uno da quello italiano e circa sessanta cittadini stranieri, di varie nazionalità, internati o allontanati da zone militarmente importanti di altre province.

Il prefetto decise, come si nota dal documento riportato, di trasferire alcuni ebrei da Montecatini in piccoli località periferiche.

 Furono pertanto trasferiti a Cutigliano sulla montagna pistoiese:

Nadel Salomone di nazionalità polacca nato a Lwow, l’attuale Leopoli,  il 09/01/1881. Residente a  Genova dal 1938 . Venne prima internato a Guardiagrele (CH) il 27/07/40 e successivamente a Montecatini dal 09/08/41 fino al 31 agosto 1943.

Eckerling Chana (Chane) di nazionalità polacca nata a Hodorenka il 9 gennaio 1896, residente a Genova nel 1940, internata prima a Guardiagrele (Chieti) il 20/07/1940 e poi a Montecatini il 19/08/41.

Kreisling Edith nata a Vienna, nazionalità tedesca ex austriaca, nata il 16/03/1908, internata a Montecatini il 2/07/43

Weiller Alessandro, nato a Prijedor (Iugoslavia), apolide ex italiano, nato il 2/5/1890, residente a Fiume nel 1 1940, internato a Montecatini il 18/08/43.

Mevorah Miriam, nata a Prijedor (Iugoslavia), apolide ed ex italiana, nata il 2/01/1911, presente a Fiume nel 1940 e internata a Montecatini il 2/07/43.moglie di Weiller Alessandro.

 Dai dati disponibili sul portale del CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e sul sito sito www.annapizzuti.it, che raccolgono i dati degli ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, risulta che Salomone Nadel e Eckerling Chana (Chane) furono liberati a Bari il 15 febbraio del 1945, mentre Kreisling Edith e Mevorah Miriam furono liberate a Roma. Evidentemente in qualche modo riuscirono a fuggire alla cattura e a passare la linea del fronte scendendo nel meridione.

Il destino di Alessandro Weiller fu purtroppo diverso perchè come sopra indicato venne deportato e morì in un campo di concentramento a tutt’oggi sconosciuto.

 IL CASO DEGLI EBREI CATTURATI A CUTIGLIANO E PRUNETTA

Un destino molto diverso caratterizzò purtroppo gli ebrei livornesi sfollati a Cutigliano che furono catturati a gennaio 1944 ad opera di militari italiani e tedeschi.

Furono catturati nella località della montagna pistoiese:

– Baruch Behor Michele di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nato a Smirne il 14/1/1920. Deportato a Auschwitz fu l’unico del gruppo a sopravvivere.

– Baruch Clara di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 23/4/28. Morì ad Auschwitz il 15 aprile 1944, dopo la liberazione del campo.

– Baruch Isacco di Baruch David e Benezra Giuditta, marito di Cadina Masriel, nato a Smirne il 20/3/1890.

– Baruch Marco di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nato a Smirne il 27/11/31

– Baruch Susanna di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 21/10/29

– Masriel Cadina di Moise Masriel e Susanna Masriel, moglie di Baruch Isacco, nata a Smirne il 24/12/1900. Uccisa il 26 febbraio 1944

– Pesaro Gualtiero di Leone Pesaro e Argia Piperno, marito di Rosa Cremisi, nato a Livorno il 23/7/1896

– Baruch Behor Michele di Baruch Isacco e Cadina Masriel, nata a Smirne il 14/1/1920

Tutti finirono ad Auschwitz con il convoglio partito da Fossoli il 22 febbraio 1944 e qui, salvo come detto Baruch Behor Michele trovarono la morte.

In un’occasione successiva alla retata del 26 gennaio furono catturati:

– Pesaro Arnaldo di Leone Pesaro e Argia Piperno nato a Livorno il 23/10/1900. Arrestato a Cutigliano, morì nell’eccidio di Ponte alla Lima di cui si parlerà successivamente.

– Tullio Levi di Angelo Levi e Rosilde Ravà, nato a Parma nel 1876, sposato con Elisabetta Nesti. Catturato con alcuni abitanti del luogo venne fucilato presso il cimitero di Pianosinatico (vedi paragrafo successivo)

La cattura del primo gruppo di persone avvenne il 26 gennaio 1944, favorita da spie italiane.  Non fu necessario ricorrere alla ricerca casa per casa perchè la presenza degli ebrei era nota alla polizia locale che intimò agli sfollati di presentarsi in caserma per le cinque del mattino del 26 gennaio. L’ebrea Nina Molco, nel suo diario ricorda che supplicò il locale maresciallo di lasciare stare lei e sua zia Clelia a causa della tarda età (87 anni) di quest’ultima. Il maresciallo la invitò a presentare un certificato medico che attestava le precarie condizioni di salute dell’anziana e così le due donne poterono rimanere a Prunetta fino alla liberazione, vivendo comunque nelle privazioni e con l’ansia di un arresto imminente. Nel maggio ’44 Clelia morì’ e Nina continuò a raccontare nel suo diario della presenza di truppe tedesche e le razzie compiute dagli invasori per procurarsi il cibo nonchè il costante pericolo di rappresaglie. Nina Molco annotò anche che «Tutti quelli che erano qui, e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare». Lo scritto lascia trapelare che quindi a cadere vittima dei nazi-fascisti furono soprattutto gli ebrei appartenenti ai ceti popolari, quelli che non avevano risorse sufficienti a consentire loro di accedere ad eventuali vie di fuga. Si fa presente inoltre, ed è un dato importante, che alcuni, probabilmente temporaneamente residenti e quindi non registrati ufficialmente, riuscirono a fuggire alla cattura.

I Baruch, erano sfollati presso la pensione Catilina, oggi un negozio di abbigliamento, nella piazza principale del paese. Erano fuggiti a Livorno da Smirne nel 1933 dove Michele, l’unico che sopravviverà, lavorava come manovale. Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, aveva perso il lavoro. La famiglia era sopravvissuta solo grazie all’elemosina della comunità ebraica fino al momento della deportazione. Catturato con la famiglia, fu imprigionato per circa un mese presso il carcere delle Murate a Firenze, poi condotto a Fossoli e da lì con un viaggio di quattro giorni in cui potè consumare solo da un panino alla marmellata a Auschiwitz. Subito separato dal resto della famiglia non vide più nessuno. Comprese il destino dei suoi familiari solo in un secondo momento. “…Mentre facevamo l’appello – scrisse quarant’anni dopo Michele – di fronte alle nostre baracche vedevamo un’altra baracca molto grande, con una grossa ciminiera le cui fiamme uscivano dipinte di mille colori. Noi nuovi del campo non sapevamo che cosa venisse fatto là e per appagare la nostra curiosità domandammo a qualcuno più anziano del campo a cosa serviva quella ciminiera e così venimmo a sapere che quello era un forno crematorio. Poi domandai quando potevo incontrarmi con la mia famiglia, me purtroppo seppi la verità e cioè che i miei cari erano stati barbaramente stroncati nelle camere a gas ed i loro corpi fatti scomparire per sempre nel forno crematorio. Mi sentii mancare il terreno sotto i piedi pensando ai miei cari ed a quanto avevano dovuto soffrire… allora per diverso tempo implorai la morte, perché ero rimasto solo ed avevo appena ventiquattro anni” Il Tirreno, ed. Livorno, del 25 maggio 2009).Ad Auschwitz rimase quattro mesi, poi passò per molti campi fra cui Mathausen, Bergen Belsen e Dachau. Fu liberato in un piccolo campo della Germania Orientale il 20 aprile del ’45 dalle truppe russe e rimandato in Italia dopo quattro mesi di cure (Intervista disponibile in http://digital-library.cdec.it/cdec-web/audiovideo/detail/IT-CDEC-AV0001-000209/michele-behor-baruch.html)

A Prunetta, una località ad internamento libero, dove cioè gli ebrei potevano muoversi con una certa libertà, il 26 gennaio furono arrestate le sorelle Gabriella e Vera De Cori, di origine pisana e sfollate con l’anziana madre, Giuseppina Ambron sulla montagna pistoiese. Furono  catturate con l’inganno dal questore Chicca che le aveva invitate a presentarsi in Questura per regolare alcune pratiche. La madre venne rilasciata perchè anziana con la promessa che le figlie sarebbero state liberate entro poche ore. In realtà furono condotte via senza abiti invernali a Firenze prima e a Fossoli dopo, per poi finire la loro esistenza probabilmente a Auschwitz. La madre inviò una supplica al ministro dell’Interno sostenendo che aveva perso il marito e il figlio durante la prima guerra mondiale e sostenendo l’italianità della sua famiglia. Al momento dell’istanza della signora Ambron probabilmente le figlie erano già decedute. Con le sorelle il 26 gennaio 1944 furono catturati da italiani alcuni ebree jugoslavi provenienti da Aosta, originarie della zona di  Zagabria.

Dal sito del Cdec e dal sito annapizzuti.it risultano inoltre catturate a Prunetta:

–                    Fiser Regina, nata il 1/1/1909 da Massimiliano Fiser e Giulia Svez a Nosice (Iugoslavia). Condotta a Fossoli da qui con il convoglio nr. 08 del 22 febbraio partì per Auschiwitz dove giunse quattro giorni dopo. Non è sopravvissuta al campo di concentramento.

–                    Weiss Nada,  nata a Zagabria il 12 aprile 1916, figlia di Norbert Weiss e Giza Haim. E’ sopravvissuta alla Shoah.

Il responsabile della deportazione, il questore di Pistoia, pisano come le sorelle De Cori, non ha mai pagato per il suo crimine, grazie all’amnistia concessa ai collaborazionisti.

 LE STRAGI DEL LANIFICIO TRONCI E DEL CIMITERO DI PIANOSINATICO: LA MORTE DI ARNALDO PESARO E DI TULLIO LEVI

Il fratello di Gualtiero Pesaro, uno delle vittime della retata del 26 gennaio, Arnaldo, morì nella strage del lanificio Tronci, avvenuta in seguito alla vendetta nazista successiva ad un attacco partigiano contro le truppe tedesche che stavano risalendo la penisola. A Casotti fra il 26 e il 27 settembre 1944 le truppe tedesche rastrellarono infatti 35 abitanti e li rinchiusero nel lanificio Tronci, situato lungo il torrente Lima. La situazione già precaria dei prigionieri peggiorò con la fuga di Guido Vasetti, uno dei detenuti. Il comandante tedesco che aveva minacciato in un primo momento di fucilare cinque prigionieri successivamente ritornò sulle sue decisioni e liberò gli ultrasessantenni, fra cui il titolare dell’azienda Raffaello Tronci. Questi, saputo che i tedeschi se ne erano andati, ritorno nel pomeriggio nei pressi del lanificio e udì l’esplosione dei locali che provocarono la morte di cinque persone fra cui il già citato Arnaldo  Pesaro.

In un altro attacco contro un convoglio tedesco compiuto dai partigiani guidati da Ducceschi morirono due soldati ed uno rimase ferito. La ritorsione nazista fu pronta, la zona di Pianosinatico ed il territorio del comune di Cutigliano vennero rastrellati con l’obiettivo di “ripulirlo” dalla presenza partigiana.

Undici prigionieri, in prevalenza ultrasessantenni, vennero condotti presso il cimitero di Pianosinatico a fucilati. Tra essi, anche il professore ebreo Tullio Levi ( cfr. scheda  su http://www.straginazifasciste.it/)

Inoltre, per garantire la ritirata, i tedeschi minarono quasi tutte le abitazioni di Cutigliano.

 Sulla strage furono avviate indagine dalla procura militare di Roma nel 2010. Il 30 giugno fu fissata un’udienza con richiesta di accertamenti sull’esistenza in vita di militari tedeschi sospettati della strage.

 Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.




La persecuzione fascista contro gli ebrei nel pistoiese

CENNI STORICI SULLA PRESENZA EBRAICA A PISTOIA

Le prime tracce delle presenza ebraica a Pistoia risalgono alla fine del XV secolo quando due ebrei di origine pisana, Sabato e il figlio Musetto, chiesero agli Anziani ed al Gran Consiglio di poter “fenerare”, cioè di poter svolgere l’attività di prestatori di denaro o in alternativa di esercitare qualsiasi altro mestiere, risiedendo in città con le loro famiglie e la servitù. Esprimevano nella loro richiesta il desiderio anche di essere considerati cittadini alla pari degli altri e di poter godere della libertà di culto e della immunità da tutti gli oneri, ad eccezione delle gabelle, per un periodo di circa dieci anni, prerogativa di tutti i prestatori di denaro (Andreini, A., Il ghetto degli ebrei a Pistoia, in Bollettino Storico Pistoiese XCI (1989), (terza serie, XXIV), p. 63-73).

L’attività feneratizia, cioè volta al prestito del denaro, continuò anche successivamente, come attestano i capitoli del 1455 tra il Comune e un banchiere per la gestione di un banco di pegno per 6 anni (Capecchi, I. – Gai, L., Il Monte della Pietà a Pistoia e le sue origini, Firenze 1975, p. 69).

In seguito all’obbligo per gli ebrei toscani di trasferirsi nei ghetti di Siena e Firenze a fine XVI secolo la piccola comunità ebraica pistoiese scomparve per riapparire intorno al 1641, anno in cui la presenza ebraica tornò ad essere menzionata quando dopo l’incendio della sacrestia della cattedrale, alcuni ebrei acquistarono i resti degli armadi intagliati da Ventura Vitoni.

Il termine “ghetto” compare per la prima volta nella storia pistoiese nel 1718, quando viene usato nel registro della parrocchia di San Matteo, per designare l’area occupata da quattro famiglie residenti al primo piano di una corte sita nei pressi della piazza dell’Ortaggio (ex piazza del Pesce), ora piazza della Sala.

Il ghetto citato è ricordato fino al 1753, mentre da un documento del 1777 risulta che nel quartiere di Porta Lucchese vi fosse un vicolo “detto del Ghetto” che corrispondeva ad una piccolissima corte dell’odierna via Puccini (Zdekauer, L., L’interno di un banco di pegno nel 1417, in Archivio Storico Italiano Firenze, S.V., XVII, p. 63-104).

E’ possibile inoltre che in città esistessero in quel periodo un cimitero ebraico e una piccola sinagoga.

In alcuni documenti del 1742, relativi a quella che da tempo veniva chiamata “Piazza Ebrea” o Piazza dello Spirito Santo (attualmente Piazza S.Leone), si legge che: Gli agnelli, uccelli, uovi , e altri commestibili proibiti nel tempo della Quaresima, non si vendano né si possano vendersi altrove che sulla Piazza dello Spirito Santo (Andreini, A., Il ghetto degli ebrei a Pistoia, in Bollettino Storico Pistoiese XCI (1989), (terza serie, XXIV), p. 64.

 LA PERSECUZIONE FASCISTA CONTRO GLI EBREI NEL PISTOIESE

Con l’estate del 1938 si scatenò una fortissima campagna anti-giudaica caratterizzata da una serie di leggi volte a perseguitare gli “appartenenti alla razza ebraica” il cui culmine fu l’ordine di arresto e di internamento del 30 novembre 1943 che ebbe tragiche conseguenze anche per gli ebrei “pistoiesi”. Particolarmente negativa per gli ebrei fu la pubblicazione di alcuni testi come “Gli ebrei in Italia” di Paolo Orano in cui si attaccavano addirittura quelli appartenenti al partito fascista o “Sotto la maschera di Israele” di Gino Sottochiesa  (Fornaciari P., L’universo minore. Confino, internamento, concentramento, deportazione degli Ebrei. Le responsabilità italiane ed il caso di Pistoia, Edizioni Erasmo, Livorno, 2014, p. 23-25)

Il testo che più di ogni altro mosse l’opinione pubblica contro gli ebrei fu comunque il “Manifesto della razza” apparso sul Giornale d’Italia con il titolo “Il Fascismo e i problemi della razza”. Apparso senza firma, nei giorni successivi alla prima pubblicazione fu sostenuto, su diretta richiesta del duce, da una decina di medici e professori universitari.

La negativa campagna di stampa e l’emanazione delle leggi razziali colpirono anche la piccola comunità ebraica di Pistoia, composta da alcune “storiche” famiglie fra le quali possiamo ricordare i Corcos, i Piperno, i Coen e i Bemporad, proprietari di una bottega di stoffe e abbigliamento in via del Can Bianco e che avevano fatto costruire nel 1910 la torre “Bemporad”, ancor oggi esistente. La famiglia era anche proprietaria di un mulino presso Serravalle Pistoiese (Cutolo F., La deportazione degli ebrei nel pistoiese)

Israele Bemporad, ad esempio, che si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, nel 1939 in seguito alle leggi razziali fu espulso dall’Università. Successivamente si iscrisse alla formazione partigiana “Fantacci” che operava sulle colline della Castellina e Casore del Monte, presso Serravalle Pistoiese. Partigiano divenne anche Giancarlo Piperno che era stato accolto, avendo la casa distrutta dai bombardamenti, dalla famiglia Bemporad nella villa in località Bacchettone, posta sulla collina fronteggiante la stazione di Serravalle Pistoiese. Giancarlo Piperno anni dopo divenne un famoso radiologo specializzato in radiologia medica oncologica presso l’ospedale di Pistoia (Balleri S., Mario Parri scultore e altri personaggi dell’antifascismo e della resistenza nel pistoiese, Pistoia 2017, p. 111-115.)

Allo scoppio della guerra, il regime fascista decise la costruzione di campi di concentramento in tutto il territorio nazionale per internare i cittadini dei paesi nemici, i prigionieri di guerra, gli oppositori politici, gli omosessuali e gli ebrei stranieri. Con l’8 settembre la situazione degli ebrei peggiorò ulteriormente e quelli che non erano stati internati cercarono di fuggire sparpagliandosi sui monti. Agli ospiti “originari”, dopo il 30 novembre ’43, si aggiunsero nuove vittime, che nonostante si fossero date alla macchia cercando rifugio sui monti per fuggire ai rastrellamenti, erano stati catturati.

Nella provincia di Pistoia, vi erano in tutto nove località di detenzione: Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia, Ponte Buggianese, Prunetta e Serravalle Pistoiese. La tendenza fu quella di adattare  per l’internamento edifici o strutture già esistenti. Gli internati vennero quindi, almeno inizialmente, collocati in ville, case private, conventi, scuole, fabbriche dismesse, addirittura in cinematografi. Gli internati avevano quindi la possibilità di spostarsi, in alcuni casi addirittura di andare e venire dai luoghi d’origine. Spesso la popolazione locale non conosceva, o fingeva di non conoscere, l’origine di questi “stranieri” (Fornaciari P., op. cit, p. 35)

Con l’8 settembre del 1943 la situazione peggiorò decisamente. Polizia e carabinieri confluirono nella guardia nazionale repubblicana (GNR) che venne sostenuta dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, costituita da fascisti della prima ora.

Nel periodo intercorrente fra il 30 novembre 1943 e l’ottobre 1945 in provincia di Pistoia furono arrestati in seguito alle retate dei nazisti e dei fascisti ottantotto ebrei, secondo quanto indicato nei database dei siti www.nomidellashoah.it e www.annapizzuti.it, che vennero uccisi direttamente o deportati nei campi di concentramento di Buchenwald, Auschwitz e Mathausen, dopo essere stati condotti prima nel carcere di Pistoia e poi a Fossoli, nei pressi di Carpi.

La maggior parte degli ebrei che si trovavano nel pistoiese fu catturata al momento del passaggio del nucleo operativo nazista specializzato in “rastrellamenti” guidato da Dannecker, che dopo aver compiuto la retata degli ebrei nel ghetto di Roma (mille persone complessivamente catturate di cui solo quindici tornarono in Italia alla fine della guerra) stava ripiegando (Cutolo F., op. cit., consultabile in in www.toscananovecento.it). Dannecker era uno specialista in questo genere di azioni e proprio per questa sua grande capacità era stato spostato dalla Bulgaria all’Italia. Fu questi a compiare la retata del 6 e 7 novembre a Firenze e a irrompere nella sinagoga fiorentina per catturare circa duecento  persone. A Firenze furono razziati anche i conventi, dove molti perseguitati si erano rifugiati. Al Carmine, dove si trovavano molte donne ebree con i loro figli piccoli, avvenne l’episodio più odioso. Ci fu un’irruzione il 26 novembre e per quattro giorni le donne recluse, prima di essere deportate e uccise ad Auschwitz, subirono inerrarabili violenza da parte dei militi fascisti di guardia, accorsi in aiuto dei tedeschi (Baiardi M., tratto dall’inserto a cura della Regione Toscana “I l giorno della memoria 2002-2009” in La Nazione del 25 aprile 2009). Alle catture contribuirono dunque, in virtù dei provvedimenti emanati dalla RSI alla fine del novembre ’43, anche le forze di polizia locali, compresi numerosi reparti di carabinieri e le unità della GNR. La deportazione avvenne ad opera delle forze armate tedesca, spesso con la collaborazione dei militi della RSI.

La maggior parte degli ebrei fu catturata nelle province settentrionali della regione, perchè qui avevano deciso di fuggire, cercando disperatamente di scendere verso il meridione, o perchè qui erano stati internati in quanto stranieri dopo l’entrata in guerra dell’Italia. La percentuale degli ebrei deportati dall’Italia è stata calcolata intorno al 20 per cento (Sarfatti M., La Shoah in Italia, Einaudi, 2005, p. 109). L’ottanta per cento degli ebrei si salvò dunque, ma è altrettanto vero che molti italiani contribuirono con delazioni, a volte volontarie a volte estorte con la forza, alla cattura. Gli ebrei sfuggiti alla cattura vissero quindi in clandestinità adottando le più disparate strategie di sopravvivenza.

Molti degli ebrei catturati a Pistoia avevano trovato qui ospitalità su indicazione della Delasem (Delegazione per l’Assistenza agli ebrei emigranti), creata dall’Unione delle Comunità Israelitiche nel 1939 per aiutare gli ebrei a espatriare e a sostenere comunque gli internati in Italia. Gli ebrei in questione erano in molti casi originari di Livorno e vivevano prevalentemente intorno alla sinagoga della città labronica. Solo i più ricchi vivevano nella zona dell’Ardenza. La maggior parte di queste persone apparteneva al ceto popolare ed era occupata nel settore cantieristico o svolgeva la professione di venditore ambulante (Orsi P.L., Dal censimento del 1938 alla persecuzione,  la comunità ebraica di Livorno, Belforte, Livorno 1990, p. 210).  Una sostanziale parte della comunità era costituita da ebrei provenienti dalla Grecia e dalla Turchia, giunti a Livorno negli anni Trenta. Con il settembre del ’43 e la occupazione tedesca gli ebrei cercarono rifugio in zone più impervie o comunque note. La famiglia di Nina Molco con la zia si trasferirà ad esempio a Cutigliano dove era solita recarsi per le vacanze estive.

Alla fine del 1943 la Delasem fu purtroppo infiltrata da spie che contribuirono a scoprire i nomi degli ebrei aiutati che, quindi, se non erano riusciti a fuggire, furono perciò catturati (Daghini R., La Shoah a Serravalle e Pistoia, in Microstoria, nr. 52, 2007, p.33.)

In provincia di Pistoia i primi rastrellamenti avvennero a Montecatini Terme il 5 e il 6 novembre 1943. Il resto degli arresti risale al gennaio ’44.

Gli Ebrei catturati nel pistoiese appartenevano dunque alle famiglie “locali” e a quelle “sfollate”.

Degli ottantotto catturati solo cinque saranno i superstiti.  Michele Behor Baruch, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone; una sesta superstite, Gertrude Loeb, pur vedendo la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz (27 gennaio 1945), morì due settimane dopo per le sue pessime condizioni di salute. Fra gli altri periranno nel campo di Auschwitz Carlo e Massimo d’Angeli rispettivamente di 5 anni e 2 anni e 5 mesi, Bruno e Guido Valabra di 11 anni e 7 anni e mezzo, Claudio e Lia Vitale di 7 anni e 2 anni e tre mesi.

La superstite Sol Cittone, apparteneva a una delle famiglie di ebrei turchi di Livorno sfollate a Serravalle per i bombardamenti.

Fu arrestata con tutta la sua famiglia il 12 gennaio 1944 dal maresciallo Luigi Cellai, comandante della stazione dei carabinieri di Serravalle Pistoiese, portata prima nel carcere di Pistoia, poi nel carcere delle Murate a Firenze per circa due settimane, da qui a Fossoli con tutta la famiglia e infine sui vagoni per Auschwitz dove giunse alla mezzanotte del quinto giorno. Venne  liberata dall’esercito russo nel 1945.  Rimpatriata da Auschwitz a Livorno l’anno successivo denunciò il 10 settembre attraverso l’UCEI il maresciallo Cellai usando questi termini «Fatemi il piacere se lo vedete, denunciatelo subito e fategli torture e lavorare peggio deve anche soffrire e deve fare una fine peggio dei cani quel maledetto repubblicano. Nemmeno la cenere ci deve rimanere come lui ha rovinato me e tutta la famiglia». Nel dopoguerra, decise di imbarcarsi per Israele e visse a Haifa. E’ tornata a Serravalle nel 2014. Sol ricordava ancora quei momenti e mostrava ancora disprezzo per il maresciallo Cellai che aveva consegnata la sua famiglia ai nazisti e non aveva mai pagato per i suoi crimini. Della sua famiglia, composta dai due genitori e da cinque fra fratelli e sorelle, una di solo tre anni, lei, all’epoca quindicenne, fu l’unica superstite (Il Tirreno, ed. Pistoia, 16 ottobre 2014.).

Andrea Lottini (Montecatini Terme, 1975) si è laureato in Scienze Politiche nel 2001 con una tesi sulla formazione professionale e in Scienze Religiose nel 2015 con una tesi su Egeria, pellegrina del IV secolo. Attualmente è insegnante di religione presso gli istituti comprensivi di San Marcello Pistoiese e di Agliana.




Ricordando Carlo Onofrio Gori (1949-2017)

Vario e notevole è stato il contributo che il bibliotecario e storico locale Carlo Onofrio Gori, nato a Prato nel 1949, pistoiese d’adozione e scomparso lo scorso 24 ottobre dopo una lunga malattia, ha saputo dare alla storia pistoiese del XX secolo.

Tre sono le direttrici a cui può essere ricondotta la sua attività di storico: la prima, di catalogazione e sistemazione delle fonti, connaturata e favorita dalla sua attività di bibliotecario; la seconda, di studio della storia locale pistoiese, con particolare riguardo al biennio rosso e al ventennio fascista; la terza, di divulgazione al pubblico dei risultati raggiunti.

Fulcro della sua prima attività sono stati, rispettivamente, il censimento delle lapidi, dei cippi e delle targhe pistoiesi e la ricognizione dei periodici giunti al Centro di Documentazione di Pistoia. Il primo, avvenuto nel 1995 con la pubblicazione edita dal Comune di Pistoia Guida ai luoghi della memoria, ha costituito la prima ricognizione sistematica di tutti quei “segni della memoria” che nel corso dei tempi, ma soprattutto nel secolo scorso, le autorità cittadine hanno disseminato nel tessuto urbano.
Il secondo, snodatosi nel corso della costituzione e del radicamento del Centro di Documentazione, ha condotto alla classificazione, tra gli anni ’80 e ’90, delle oltre diecimila riviste accumulate dalla fondazione pistoiese, sorta nel 1970 per raccogliere le testimonianze e le pubblicazioni edite dai movimenti studenteschi, rivendicativi e rivoluzionari italiani e internazionali. La rilevanza della Guida si è quindi esplicata prima di tutto a livello locale e, solo in un senso più lato, a livello nazionale: con uno dei primi censimenti ragionati sulle “memorie di pietra” ereditate dal succedersi di epoche e partiti, Gori si è mosso nella preistoria di uno dei filoni più importanti dell’odierna Public History – ovvero lo studio di come la politica abbia cercato di forgiare, e poi diffondere, una sua peculiare interpretazione dei fatti storici. Più ampie sono state invece la ricezione e la fortuna del Catalogo delle riviste e dei periodici del Centro di Documentazione, diventato ben presto uno strumento di consultazione per tutti coloro che si avvicinino alla ricerca sulla società, la politica e il costume degli anni ’70.

Come storico locale, i suoi numerosi contributi – pubblicati sulle riviste “Farestoria”, “Quaderni di Farestoria” e “Microstoria” – hanno avuto il merito di soffermarsi su personaggi e figure poco conosciute della società e della politica pistoiese. Tra i primi a studiare il biennio rosso, l’instaurarsi del fascismo a Pistoia e le ripercussioni locali delle vicende belliche, Gori è stato tra i primi a dare spazio a due figure quasi dimenticate – ma il cui impatto fu tutt’altro che territorialmente limitato – come il partigiano Pierluigi Bellini delle Stelle.

Bellini delle Stelle, nato a Firenze ma cresciuto a Pistoia, dove studiò al Liceo Forteguerri – e dove si ritrovò in classe insieme a un altro partigiano, Silvano Fedi –, con il nome di battaglia di “Pedro” era il comandante partigiano di pattugliamento sul monte Berlinghera quando Mussolini, travestito da soldato tedesco della Lutwaffe, cercò di varcare il confine dopo l’insurrezione generale. Mobilitando gli abitanti della zona e fingendo di avere a disposizione più armati di quanti non ne avesse realmente, riuscì a impressionare il comandante della colonna, il generale Fairmallen, e a imporgli di poter proseguire verso la Germania solo dopo che l’autoblindo fosse stata perquisita a Dongo – e dopo che Mussolini non fu individuato e arrestato, insieme agli altri gerarchi e all’amante Claretta Petacci, da Bill, il vice di Bellini. Prigioniero del comando di Bellini per alcuni giorni, Mussolini rimase a Dongo fino a quando Walter Audisio, giunto a Dongo per conto del CLN, lo condusse il 28 aprile a Milano per eseguirlo.
A eccezione di un articolo scritto su «L’Unità» pochi giorni dopo e il volume – ormai introvabile – Dongo ultima azione, pubblicato per Mondadori nel 1952, Bellini delle Stelle dopo il conflitto si ritirò a vita privata. Si trasferì a San Donato Milanese, dove sposò Marianna Berio, sorella del musicista Luigi. Grazie all’amicizia con Enrico Mattei, che aveva avuto modo di conoscere durante la lotta partigiana, poté far carriera nell’ENI.

Tutti questi risultati hanno conosciuto poi un’attenta divulgazione che, oltre ai mezzi di diffusione tradizionali, si è rivolta alle nuove tecnologie. Nel 2012 – anno in cui in Italia la Public History godeva di assai ben scarso seguito – Carlo Onofrio Gori inaugurò e aggiornò un blog di storia per poter coinvolgere fette di pubblico fino ad allora ancora trascurate.




11 agosto 1944: insurrezione!

Nell’estate del 1943, lo sbarco degli anglo-americani e la caduta del fascismo fecero sperare nella imminente fine della guerra. La Toscana visse invece un anno di durissima occupazione nazifascista, colpita dai bombardamenti aerei degli Alleati, vessata da ruberie e deportazioni, martoriata da rappresaglie e stragi di civili.
Nell’estate seguente divenne teatro di aspri combattimenti tra l’esercito tedesco in ritirata verso le difese della linea Gotica, approntata sulla cresta appenninica, e gli Alleati che, conquistata Cassino a maggio erano giunti ai primi di luglio fino a Siena e alla Valdichiana. Da lì, fermati alle porte di Arezzo, mossero attraverso il Chianti direttamente verso Firenze.

Per otto mesi la città aveva assistito alla lotta impari quanto cruenta tra i gruppi armati della Resistenza e le forze, anzitutto la feroce banda guidata da Mario Carità, che davano la caccia ai cittadini ebrei, ai resistenti, ai renitenti, a quanti non sottostavano all’occupante tedesco e al governo fascista repubblicano. Anche nelle campagne, le formazioni partigiane si erano consolidate, passando all’offensiva.
In giugno, il Comitato toscano di liberazione nazionale, guida politica della Resistenza, chiamò per la prima volta in Italia all’insurrezione armata, che cacciasse i tedeschi dalla città già prima dell’arrivo degli Alleati, per affiancarne apertamente l’azione militare e così affermare la propria capacità di autogoverno. Un progetto tanto chiaro quanto difficile da realizzare.

I timori diffusi per i rischi notevoli, le preoccupazioni delle forze più moderate, le lusinghe di chi propugnava un ritiro concordato sotto le insegne della “città aperta”, guadagnarono campo con il forzato rallentare degli Alleati. Mentre i fascisti più compromessi abbandonavano la città, ma lasciandovi molte decine di “franchi tiratori” pronti a colpire nascostamente gli avversari e gli stessi civili, l’incertezza cresceva: i tedeschi si sarebbero ritirati o avrebbero atteso il nemico dentro la città d’arte? Gli Alleati avrebbero accettato lo scontro? E i partigiani, dotati di coraggio più che di uomini e armi, quale ruolo avrebbero potuto giocare?

Foto 1 fronteInterrogativi travolti infine dagli eventi. A fine luglio, sgomberate le rive dell’Arno, i tedeschi si attestarono su quella settentrionale e distrussero i ponti e una vasta area attorno al Ponte Vecchio, l’unico risparmiato, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, giorno in cui gran parte delle forze partigiane e le prime pattuglie Alleate entrarono nei quartieri d’Oltrarno, subito aggredite dai “franchi tiratori”.

L’insurrezione fu proclamata soltanto l’11 agosto, quando i tedeschi lasciarono il centro cittadino e i partigiani poterono finalmente guadare il fiume. Dovettero subito impegnarsi in intensi combattimenti contro gli avversari, attestati da est a ovest lungo il passante ferroviario e il corso del Mugnone. Affiancati alcuni giorni dopo da pattuglie Alleate, ne contennero le controffensive e, attorno al 18 del mese, li respinsero sulle alture collinari. Ma solo alla fine di un lunghissimo agosto riuscirono a liberare i quartieri più settentrionali della città.
Foto 2 fronteOltre duecento morti e molte centinaia di feriti furono il prezzo pagato dagli uomini e dalle donne della Resistenza nella battaglia di Firenze. Un prezzo oltremodo elevato, giacché i partigiani giunti in città furono meno di millecinquecento e le squadre cittadine ne contavano pochi di più e nemmeno per metà armati. Ancor di più furono le vittime civili, notevolissimi i danni agli edifici e i disagi conseguenti per gli sfollati.

Eppure, l’insurrezione fu anche e soprattutto una festa, per la libertà riconquistata con le proprie forze e il proprio sacrificio e per la dimostrata capacità – legittimata anche dagli Alleati – di fondare sull’assunzione di responsabilità democraticamente condivise il diritto e il potere di governare la città e gli istituti della sua vita civile, economica e sociale.




19 luglio 1944: gli alleati liberano Livorno, “città fantasma”

«L’opposizione e la resistenza [sono] costrette dentro un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile»; questa frase, scritta da Cesare Ciano, rende meglio di tante descrizioni le terribili condizioni in cui si trovava Livorno nel 1944. Parole simili si ritrovano nella descrizione fornita da un soldato americano, al suo ingresso in città: «a ghost town, lying in ruins, pulverised by Allied bombing» («una città fantasma, che cade a pezzi, polverizzata dai bombardamenti alleati»). Non è un caso se quando Luigi Comencini diresse il film Tutti a casa, nel 1960, molte scene furono girate a Livorno, che ancora in pieno boom economico era lo scenario adatto per fingere di essere ancora in guerra.

Il 1943 era stato un anno particolarmente funesto per la città: luogo di imbarco per il materiale bellico che doveva servire all’esercito italiano e a quello tedesco per sostenere le battaglie contro gli Alleati nell’Africa settentrionale, oltre che principale centro logistico per gli spostamenti delle truppe da e per la Corsica e la Sardegna, il porto di Livorno fu sottoposto a una serie di bombardamenti devastanti per l’intera città, in particolare quello del 28 maggio. Le vicende successive non fecero che aggravare la situazione: i combattimenti successivi all’8 settembre con il tentativo di resistenza all’occupazione tedesca da parte delle truppe italiane (e l’uccisione tra gli altri del maggiore Gamerra a Stagno), così come l’istituzione da parte dei comandi nazisti della “Zona nera” il 12 novembre, che imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e del centro urbano, contribuirono ad annichilire la vita nella città portuale. La strategia militare degli Alleati mirava a far mantenere sulla costa toscana un grande quantitativo di truppe tedesche, facendo credere all’imminenza di uno sbarco navale che avvenne invece ad Anzio, nel gennaio 1944. I bombardamenti continui nell’area labronica si devono spiegare anche con questa funzione di ‘diversivi’, per quanto la cosa possa suonare paradossale.

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Piazza Grande, un cumulo di macerie (Raccolta Giancarlo Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Quando poi si realizzò l’avanzata di terra, tra il giugno e il luglio 1944, i combattimenti furono durissimi. Mentre procedeva l’avanzata alleata, l’importanza della Resistenza divenne sempre più evidente: i partigiani furono decisivi nelle azioni di contrasto ai tedeschi e nel mostrare il territorio alle truppe alleate per accelerare il processo di liberazione. Dopo la battaglia di Rosignano del 12 luglio, l’obiettivo per gli angloamericani divenne Livorno, la cui liberazione fu preceduta da un accerchiamento della corona di paesi che vanno dal Castellaccio a Collesalvetti. Il contributo alla liberazione di Livorno venne proprio dai partigiani del 10º Distaccamento: dopo aver fatto alcuni sopralluoghi nei giorni precedenti, il 19 luglio 1944 entrarono a Livorno insieme alle truppe americane.

La storia della liberazione di Livorno non può prescindere da questi elementi, dalla vicenda di un tessuto urbano devastato dalle bombe e dalle truppe tedesche. Il valore della Resistenza sta anche in questo, nella capacità di rinascere dalle rovine provocate dal fascismo e dalla tragedia bellica, creando un nuovo tessuto connettivo a partire dai germi diffusi dell’antifascismo. Quest’aspetto si coglie molto bene in un brano scritto da Mario Lenzi, uno dei primi a entrare nella Livorno liberata: «Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato. Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato. Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta. Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più. […] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso. Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni. Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato. Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo».

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.




La liberazione di Siena

Il mattino del 3 luglio 1944 i soldati del corpo di spedizione francese entrarono a Siena da Porta S. Marco, mentre gli ultimi reparti tedeschi uscivano, in direzione opposta, da porta Camollia. Paolo Cesarini, giornalista e letterato, se ne accorse affacciandosi alla finestra della sua abitazione su Piazza del Campo. Da lì, in un silenzio quasi irreale, vide una camionetta tedesca allontanarsi e, poco dopo, una jeep alleata arrivare. Paolo Goretti , un ragazzo che abitava a pochi passi da Piazza Salimbeni, percepì che qualcosa era cambiato sentendo passare per strada una fila di soldati le cui calzature non faceva quasi rumore, a differenza degli scarponi chiodati della Wehrmacht.

Quella di Siena fu dunque una liberazione dolce, senza scoppio di cannonate, crepitio di mitragliatrici, fucilate di cecchini. Ciò dipese da almeno tre fattori. I tedeschi decisero di non difendere la città, perché inadatta a costituire il perno di una delle linee di contrasto che predisposero laddove la topografia le consigliava, dall’Amiata al torrente Farma, dal fiume Merse ai Monti del Chianti. Il CLN, nel quale prevalse la componente favorevole ad un compromesso con le autorità fasciste – il podestà Luigi Socini Guelfi promosse, con il CLN, la costituzione di una guardia civica – contrastò l’ipotesi di un’insurrezione, peraltro inficiata da un forte rastrellamento germanico nella zona di Tegoia ai danni di un distaccamento della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini che aveva ricevuto l’ordine di avvicinarsi al capoluogo. Infine, la ventura volle che il comandante delle truppe francesi che si apprestavano all’assalto fosse un estimatore del gotico senese e desse ai suoi subalterni l’ordine impossibile di tirare cannonate soltanto al di là del XVIII secolo, confortato, in questa sua decisione, da un ufficiale del Raggruppamento patrioti Monte Amiata, il quale, attraversate le linee, lo informò che i tedeschi se ne stavano andando.

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Il 3 luglio 1944 a Siena (Archivio ISRSEC)

Ma questo epilogo della guerra a Siena – peraltro in linea con una lotta antifascista sfociata in azioni armate molto tardi, nella seconda metà di giugno, con la liberazione dei prigionieri politici del carcere di S. Spirito, l’uccisione di alcuni fascisti e uno sfortunato attacco alle retroguardie tedesche proprio nella giornata del 3 luglio – non deve trarre in inganno. Anche Siena aveva infatti conosciuto la sua parte di violenze: la deportazione di cittadini ebrei catturati dai fascisti locali, il processo e la fucilazioni di alcuni partigiani, la distruzione di infrastrutture civili e il saccheggio di negozi per mano dei soldati germanici. Neppure i bombardamenti aerei le erano stati risparmiati – il tentativo del capo della provincia Giorgio Alberto Chiurco e dell’arcivescovo Mario Toccabelli di farla dichiarare città aperta, in virtù dei suoi numerosi ospedali, non aveva avuto esito presso gli alleati perché tedeschi e fascisti non avevano proceduto alla sua completa smilitarizzazione – e soltanto l’ubicazione periferica della stazione ferroviaria, obiettivo principale delle incursioni aeree, bastevolmente distante dagli insediamenti più densamente abitati, aveva fatto sì che il numero di vittime civili fosse stato inferiore rispetto ad altre città toscane.

Se nel capoluogo l’attività partigiana combattente fu esile, robusta e intensa si manifestò invece nel territorio provinciale, evidenziando un marcato dualismo città-campagna su cui la storiografia ha riflettuto a lungo. Nel corso di nove mesi di lotta, a partire dall’8 settembre del 1943, i partigiani combattenti nel senese arrivarono ad oltre millecinquecento e ad oltre mille i patrioti della rete informativa e logistica. Di essi, più di trecento rimasero uccisi in centinaia di azioni, fra sabotaggi, agguati, occupazioni temporanee di centri abitati, combattimenti e rastrellamenti. Sul fronte opposto, i morti fra i fascisti superarono i duecento e anche le perdite tedesche furono consistenti.

Protagoniste di una guerriglia così diffusa furono numerose bande che, superando spontaneità e isolamento, vennero man mano inquadrate nella Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, nella Brigata Garibaldi Guido Boscaglia, nel Raggruppamento patrioti Monte Amiata e nella SiMar, quattro grosse formazioni di differente orientamento politico – comuniste le prime due, monarchiche le altre due – che operarono a cavallo con le province di Grosseto, Pisa, Arezzo, Perugia.

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Soldati alleati sotto il monumento della Lupa a Siena (Archivio ISRSEC)

L’apporto militare della Resistenza senese, tutt’altro che trascurabile, accelerò il collasso dell’apparato militare e politico fascista – già nel mese di aprile il questore annotava che la GNR non aveva più il controllo di molte zone -, impegnò forze fasciste e tedesche che avrebbero potuto confluire al fronte, favorì in vario modo un’avanzata degli alleati per nulla agevole.

Truppe sudafricane dell’esercito inglese, truppe algerine e marocchine del corpo di spedizione francese e truppe americane si affacciarono ai confini meridionali della provincia di Siena alla metà di giugno. Schierate rispettivamente ad est, al centro e ad ovest, si mossero verso i centri abitati della Val di Chiana con direzione Chianti, verso quelli dell’Amiata, Val d’Orcia, Val d’Arbia con direzione Siena e verso quelli delle Colline Metallifere con direzione alta Val d’Elsa. Il contrasto tedesco, spesso così forte da originare sanguinosi combattimenti di più giorni – Radicofani, Chiusi, Brolio, per limitarsi a tre soli esempi -, fu causa di una nutrita serie di cannoneggiamenti in cui rimase pesantemente coinvolta la popolazione civile. I primi comuni liberati furono Piancastagnaio e Abbadia S. Salvatore, il 18 giugno, l’ultimo Radda in Chianti, il 20 luglio. Più di un mese fu dunque necessario agli alleati per coprire una distanza di poco superiore ai cento chilometri, a ulteriore dimostrazione dell’asprezza dei combattimenti.

La fine dei quali non segnò tuttavia il termine della lotta per oltre ottocento partigiani, i quali si arruolarono nei gruppi di combattimento del rinato esercito italiano – in maggioranza nel Cremona – per continuare la guerra al di là della linea Gotica.