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“L’energicissima lezione” del 1937: la ripresa dello squadrismo contro gli antifascisti grossetani

Incitata o tenuta a bada a seconda delle convenienze, la violenza è sempre stata un fondamento dell’ideologia fascista. Già all’epoca dello squadrismo e prima della presa del potere, i fascisti propagandarono la propria fede con la pratica della violenza «mitizzata e sublimizzata come manifestazione di virilità e di coraggio, strumento necessario per liberare la nazione dai suoi dissacratori. L’offensiva armata dello squadrismo contro il proletariato, per i fascisti, era una santa crociata dei veri credenti per annientare i profanatori della patria, redimere il proletariato dalla idolatria dei falsi dèi dell’internazionalismo, riconsacrare i simboli e i luoghi santi della nazione, riportando la patria sugli altari della devozione civile[1]». Il tutto si tradusse in minacce, intimidazioni, saccheggi, devastazioni, incendi e uccisioni di avversari politici, negli anni più bui dello squadrismo. Neppure la presa del potere da parte del fascismo valse a porre fine alla violenza. Una lettura più recente di questo fenomeno ha sottolineato come anche negli anni centrali della dittatura mussoliniana squadrismo e violenza non vennero mai meno, tanto che il primo non può esser considerato un residuo anacronistico o un effetto collaterale del percorso ventennale del regime, quanto un elemento imprescindibile nella definizione del fascismo. Stando a questa interessante interpretazione, nonostante la necessità di normalizzazione il regime non rinunciò mai alla violenza, poiché normalizzazione governativa e illegalismo squadrista erano due piani di un’unica strategia politica che perseguiva lo stesso obiettivo di conquista integrale della società e di creazione di una nuova Italia e di un nuovo italiano da conseguire innanzitutto attraverso l’eliminazione di ogni forma di opposizione[2].

L’analisi dei contesti locali durante il Ventennio conferma il perdurare di una situazione di tensioni e violenze, che riguardarono perfino il campo fascista dove si combattevano le lotte di fazione per la conquista del potere locale. D’altronde, sin dalle origini e al di là delle differenti realtà politiche ed economiche, il fascismo fu una precaria alleanza tra interesse e ideologia, tanto che «agli occhi di molti fascisti il movimento era stato uno strumento di avanzamento sociale ed economico[3]».  Dallo studio della documentazione delle Federazioni provinciali del Pnf è emerso come, nel corso degli anni, la componente dell’interesse prese il sopravvento su quella dell’ideologia. La priorità data dai gerarchi di provincia al perseguimento dei propri interessi privati e materiali sconfinò in frequenti casi di affarismo, corruzione e malcostume che ebbero conseguenze sull’opinione popolare, provocando atteggiamenti di distacco, apatia, disaffezione nei confronti del partito e del regime. Fu soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta che si moltiplicarono i rapporti dalle province volti a illustrare tale situazione: nel grossetano, oggetto di questa indagine, vi furono riscontri non solo nel capoluogo di provincia ma anche in altri paesi quali Massa Marittima, Civitella e Pitigliano[4]. Soffermandoci proprio sul contesto maremmano nella seconda metà degli anni Trenta, parallelamente al malcontento verso i gerarchi notiamo una netta ripresa degli atti di intimidazione e violenza verso gli antifascisti, in particolar modo nel 1937, in concomitanza ad eventi internazionali di notevole importanza in quegli anni (la guerra civile spagnola e la nascita dell’Impero nell’Africa orientale italiana) e al massimo sforzo profuso dal regime nel tentativo di fascistizzare la società e ampliare il consenso, grazie anche al ruolo svolto dal Partito nazionale fascista, il custode della fede e “grande pedagogo”. Il protagonista assoluto di questa nuova ondata di squadrismo fu proprio il segretario federale del Pnf, Angelo Maestrini, un geometra nato a Gavorrano nel 1902, squadrista e iscritto antemarcia, già consigliere comunale e poi podestà e segretario del fascio dello stesso Comune fino alla sua nomina alla guida del partito in provincia, che tenne dal maggio 1934 al febbraio 1938. Perfetto esempio dell’incrocio già descritto di “fede e fortune” e di quei ceti medi delle professioni in ascesa, formatisi nelle file del partito e destinati a rappresentare la nuova classe dirigente del fascismo, Maestrini ebbe un ruolo di primo piano durante il Ventennio in Maremma e si contraddistinse per il fenomeno del cumulo di cariche, i casi di affarismo e il facile interscambio tra gli incarichi politici e quelli statali, poiché dopo l’esperienza di federale fu nominato podestà di Grosseto.

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, [...], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (pHOTO CREDITS: a.- bANCHI, sI VA PEL MONDO)

Antifascisti grossetani nel 1928. Da sx in piedi: Attilio Vitali, Gino Franchi, Paolino Ancarani, Luigi Franchi, […], Artino Meconcelli, Ferdinando Nardini, Adamo Tonini, Augusto Boschi,. Da sx seduti: Dino Berti, Pietro Ginanneschi (photo credits. A. Banchi, Si va pel mondo)

Nella seconda metà degli anni Trenta la federazione provinciale fascista dispose un aumento delle attività di vigilanza sugli antifascisti e incitò alle spedizioni punitive nei confronti degli elementi sospetti. Le bastonature riguardarono il capoluogo maremmano (dove si contarono circa 20 azioni violente) ed anche altri centri della Provincia, quali Orbetello, Follonica, Scarlino e Porto Santo Stefano. Il 5 aprile 1937 il federale Maestrini aveva comunicato al segretario nazionale del Pnf Starace di aver notato già da tempo una certa riorganizzazione da parte degli antifascisti locali[5]. Dal servizio di vigilanza da lui disposto era emerso che individui ritenuti sovversivi tendevano a ritrovarsi in gruppo per le vie cittadine, commentando la situazione grossetana e i fatti politici in generale. La ripresa delle azioni punitive su invito dello stesso federale aveva però trovato una netta contrarietà da parte della Prefettura, della Questura e dei carabinieri, che invitarono ripetutamente Maestrini a sospenderle, non risultando loro alcun indizio di attività sovversiva. «Da tali esortazioni non sono estranee preoccupazioni per la propria personale responsabilità», aggiunse polemicamente il federale. Nonostante tali inviti, la federazione provinciale fascista proseguì le attività di vigilanza e continuò ad incitare le azioni violente. Questa nuova ondata squadrista, promossa dal partito locale ma osteggiata dalle autorità statali in provincia, mal si conciliava però con quei compiti di “mediazione” a tutti i livelli a cui ormai il Pnf doveva adempiere. Significativo il fatto che lo stesso Starace girò la lettera di Maestrini al sottosegretario agli Interni Buffarini Guidi per gli avvertimenti del caso. Il radicalismo del federale che minava la stabilità in provincia non poteva più esser tollerato e fu, come vedremo, uno dei motivi principali dell’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e del suo insediamento alla guida comunale. Qui fu chiamato a sostituire il podestà Ezio Saletti, fratello del “martire” fascista Ivo, caduto nel corso della spedizione punitiva su Roccastrada del 24 luglio 1921, che pur essendo stato chiamato a svecchiare e spersonalizzare la carica podestarile dopo la lunga gestione Scaramucci, aveva deluso tutte le aspettative, mancando in quegli attributi giudicati fondamentali dal regime per la figura del podestà, quali la “fattiva operosità”, l’efficienza, la moralità e la capacità di accattivarsi la stima della popolazione[6]. Ennesima dimostrazione delle difficoltà del regime di garantire stabilità in provincia e di promuovere una nuova classe dirigente giovane, dichiaratamente fascista ed espressione dei ceti medi, che fosse preparata ed efficiente, nonché del malaffare dei gerarchi, che comprometteva il consenso della popolazione al regime.

Tornando al tema dell’ordine pubblico e delle violenze sui presunti sovversivi nel 1937, le forze dell’ordine grossetane nel corso dell’anno non avevano rilevato attività ostili al regime, in relazione anche agli avvenimenti spagnoli, tali da giustificare le spedizioni punitive promosse dal partito. Ne è un esempio questa relazione stilata dai carabinieri di Grosseto il 13 aprile 1937, avente ad oggetto la repressione della propaganda sovversiva.  « […] Si comunica che, l’11 detto, alcuni fascisti in Roselle, frazione di Grosseto,  percossero senza conseguenze tali Sandri Ippolito, Tenti Giuseppe, Capitoni Angelo, Doveri Cesiro, Scheggi Priamo, i quali pur non avendo militato nei partiti sovversivi, ad eccezione dello Scheggi di idee comuniste, mantengono un contegno non favorevole al Regime. Ieri, 12 corrente, verso le ore 19,30, altri fascisti percossero in Grosseto tali Bellucci Albo e Fanteria Giuseppe perché nutrono idee contrarie al fascismo. Solo il Bellucci riportò contusioni guaribili in giorni sei. Pur trattandosi di elementi infidi in linea politica, sui quali gli organi di polizia esercitano il dovuto controllo, il ripetersi di azioni punitive da parte dei fascisti, sta dando luogo a commenti poco favorevoli, specie perché in questa provincia non si sono verificati fatti tali da giustificare reazioni fasciste[7]». Già nel 1936 era stata segnalata una ripresa dell’attività sovversiva fra gli operai disoccupati, che aveva portato però semplicemente a un aumento delle attività di vigilanza senza particolari rilievi di sorta[8]. L’anno successivo vi furono varie segnalazioni di scritte sovversive sui muri (ad esempio “Abbasso Franco = Abbasso il fascismo = Impero di fame” con la sigla della falce e del martello nei bagni comunali di Roccastrada, “Abbasso il Duce, Viva il pane” sul muro esterno del palazzo del sindacato dei lavoratori dell’industria a Grosseto, “Viva la Russia, abbasso l’Italia” sul lavatoio pubblico di Orbetello ecc.), oltre che di invio di stampa sovversiva (il negoziante Giuseppe Barni di Roccastrada, caposquadra della milizia ed ex vice-segretario politico del fascio di Roccastrada, si vide recapitare da Pas de Calais due manifestini contenenti frasi contro l’intervento fascista in Spagna, mentre a Sassofortino giunsero cartoline del soccorso rosso per i bambini spagnoli firmate con la falce e il martello). I carabinieri di Grosseto segnalarono che in vari esercizi pubblici di Orbetello, nei quali erano installati apparecchi radio, venivano captate le comunicazioni della stazione comunista di Barcellona, oggetto di ascolto da parte degli operai dei vari stabilimenti industriali locali[9]. Nel complesso si trattava di una situazione con qualche tensione nelle aree minerarie o a vocazione più industriale, che poteva però esser tenuta sotto controllo con azioni di vigilanza.

L’allarme principale della federazione provinciale fascista era legato principalmente proprio ai fatti della guerra civile spagnola, che avevano riacceso le speranze degli antifascisti locali. Furono ben 25 i volontari della provincia, su un totale di 395 dell’intera regione Toscana, che si trasferirono nel paese iberico per difendere la Repubblica e combattere Franco[10]. Prevalentemente comunisti e appartenenti alle classi popolari, in gran parte erano già espatriati all’estero quali esuli politici, mentre cinque di loro (Vittorio Alunno, Angelo Rossi detto Trueba, Luigi Amadei, Pietro Aureli e Italo Giagnoni) riuscirono a raggiungere la Spagna dalla Maremma con un’impresa temeraria che rappresentò un vero e proprio smacco per le autorità fasciste. Acquistata una piccola imbarcazione a remi grazie alle sottoscrizioni degli antifascisti maremmani, il 21 agosto 1937 elusero i controlli e dalla spiaggia delle Marze, nei pressi di Castiglione della Pescaia, approdarono in Corsica, prima tappa della loro travagliata e avventurosa esperienza in Spagna. Questi episodi e la propaganda sovversiva interna accentuarono il radicalismo all’interno della federazione provinciale fascista, insofferente a qualsiasi forma di dissidenza nel periodo di ricerca massima del consenso e dell’inquadramento totalitario dei giovani. A tal fine il 29 ottobre 1937 nacque la Gioventù italiana del littorio, sorta dalla fusione dell’Opera nazionale balilla e dei fasci giovanili di combattimento e posta alle dirette dipendenze del segretario del Pnf, per la formazione politica e alla preparazione sportiva e militare dei giovani d’ambo i sessi dai 6 ai 21 anni. Di fronte a tali sfide, il partito grossetano non esitò a giocare la carta della violenza per reprimere qualsiasi opposizione. Dopo la fuga dei cinque in Spagna, il comunista e poi partigiano Aristeo Banchi (Ganna) scrisse nelle sue memorie che «le camicie nere grossetane  (Ragno, Catone e tanti altri delinquenti), infuriate per lo smacco subito, erano da evitare come la peste, ogni pretesto era buono per pestaggi malvagi e per “lezioni” che potevano costare la salute a chi le subiva, le provocazioni erano all’ordine del giorno, l’aria per noi oppositori era gravida di minacce[11]».  Lo stesso Banchi ricorda nel 1937 tafferugli e aggressioni a carico di antifascisti (tra di loro Aladino Fumi), che solevano andare in giro per la città ostentando provocatoriamente le cravatte rosse che acquistavano dai cinesi venditori per strada di oggetti e merci varie.

Elvino Boschi

Elvino Boschi

Il caso più eclatante della ripresa della violenza contro gli antifascisti nel 1937 riguardò l’aggressione compiuta nella notte tra il 31 ottobre e il primo novembre dallo stesso federale Maestrini ai danni di Elvino Boschi (classe 1906), un impiegato socialista all’epoca dei fatti disoccupato, noto alle forze dell’ordine e già sottoposto a periodi di vigilanza per la sua attività di ascoltatore delle radiodiffusioni comuniste sulla guerra civile spagnola. Originario di Livorno ma residente da tempo a Grosseto, nel suo fascicolo personale nel Casellario politico centrale era descritto come individuo irascibile e prepotente ma di discreta intelligenza e cultura, assiduo lavoratore di fede socialista, che frequentava elementi sospetti in linea politica, figlio di un impiegato ferroviere collocato in pensione nel 1931, già attivo propagandista delle idee socialiste prima dell’avvento del fascismo. Padre di due figli e coniugato con Licena Rosi, Boschi era il cognato di un altro volontario grossetano nella guerra civile spagnola, Siro Rosi, un militare di leva che nel 1937 si arruolò con i fascisti destinazione Cadice, con l’obiettivo di passare nelle file repubblicane, cosa che fece il 18 aprile 1937, quando passò le linee per dirigersi a Campillo[12]. Poco dopo la diserzione di Rosi, Boschi fu oggetto di prima una violenta aggressione. Come si evince dalla testimonianza della moglie Licena, il 22 maggio 1937 Elvino si trovava a passeggio per le Mura medicee quando, all’altezza del Parco della Rimembranza, l’archivista della federazione fascista Ferruccio Malandrini e altri tre fascisti (Giuseppe Tamburini, Carlo Faenzi e Mario Caciai) lo picchiarono selvaggiamente, provocandogli un’escoriazione all’occhio e una menomazione permanente alla gamba sinistra, che lo costrinse a un periodo di degenza a letto di due mesi e mezzo[13]. Questo triste episodio, che gli valse una diffida da parte della Questura, fu solo il prologo di quello che sarebbe successo pochi mesi più tardi. La notte del 31 ottobre 1937, Boschi stava girando per le vie del centro in compagnia di Guglielmo Marconi, un manovale schedato come anarchico. Dopo essersi ritrovati con alcuni amici (Bruno Bruni, Celso Checcacci, Adamo Innocenti, Gaspare Minucci Aristide Burroni), all’altezza di via Corsica il primo fu riconosciuto e chiamato dal segretario federale Maestrini, insospettito dal girovagare notturno di questo presunto gruppo di sovversivi. Il capo del partito grossetano passò immediatamente alle vie di fatto: Boschi fu preso per i capelli e schiaffeggiato e, dopo aver reagito, pesantemente bastonato e colpito a calci anche dagli altri gerarchi lì presenti[14]. Nella violenta lotta corpo a corpo, così come fu descritta dai carabinieri, Boschi fu spalleggiato da Marconi e Checcacci e alla fine perse i sensi e riportò lesioni alla testa guaribili in quattro giorni. Dopo questo incidente le autorità fasciste locali procedettero a una lunga serie di arresti e perquisizioni. Non mancarono altri atti di violenza da parte dei fascisti decisi alla resa dei conti coi sovversivi: solo per citarne uno, il 2 novembre fu violentemente percosso anche il calzolaio socialista Aldo Ginanneschi. Intanto, Maestrini trovò modo di rinfocolare la polemica con le forze di pubblica sicurezza, accusandole di eccessiva indulgenza verso gli antifascisti e riportando tutto a Starace:

«[…] Il Boschi era sorvegliato dai fascisti e nel mese di aprile ebbe una severa lezione (S. R.); fu poi arrestato ma quasi subito rilasciato perché secondo la Questura non vi erano colpe sicure da addebitargli. Noi sapevamo invece che poteva essere pericoloso perché avvicinava sempre operai fra i quali, sembra facesse propaganda antifascista. Si rende necessario che almeno questa volta le autorità di P.S. agiscano energicamente e senza pietà e non si trincerino nel dire che noi fascisti esageriamo nel considerare le cose. I fascisti fanno sempre il loro dovere e come l’animo squadrista ha loro insegnato».

Nella seconda lettera inviata a Starace in giornata (1° novembre 1937), Maestrini faceva presente che l’identificazione, il fermo e la relativa energicissima lezione degli individui che avevano ammesso di aver partecipato al fatto (tutti consegnati alla Questura e associati alle locali carceri giudiziarie)[15], era stato possibile per il solo intervento della milizia e dei fascisti. «Credo opportuno far presente all’E. V. che S. E. il Prefetto si è limitato a dichiararmi il suo dispiacimento per l’incidente accadutomi, invitandomi alla calma per il timore di altre complicazioni. Ho avuto poi la netta impressione che la Questura voglia considerare la cosa come un fatto di ordinaria amministrazione, felice che i colpevoli siano tutti assicurati alla giustizia e di aver potuto ringraziare chi ad essa si è sostituito con intuito e con prontezza fascista a rintracciare questi delinquenti. Non si sono fatte le indagini, almeno per ora, che la gravità del fatto richiedeva, tanto che fino alle ore 19 non era stato neppure ordinata la perquisizione domiciliare degli arrestati né si era allargato il campo delle indagini verso individui sospetti di sovversivismo, limitandosi, se mai, ad intralciare l’opera di giusto risentimento che i Fascisti della Città stanno esplicando», le sue polemiche parole[16]. Le violenze seguenti al fatto sono ancora ben descritte da Banchi:

«La mattina dopo i “neri” organizzarono, in grande stile, una battuta di caccia al “sovversivo”, durante la quale molti oppositori vennero bastonati per strada e persino nelle loro case, alla presenza dei familiari. Con delle tavolette chiodate fu percosso a sangue il compagno Memmo [Guglielmo, ndr.] Marconi […]. Negli stessi giorni i “salvatori dell’Italia” aggredirono Ettore Tognetti, soprannominato il Bèco, mentre stava giocando in un caffè. Tognetti, che aveva rinunciato a partire per la Corsica con Alunno perché la barca non dava, a suo giudizio, nessun affidamento, fu trascinato fuori dal locale e percosso con spranghe di ferro, finché non perse i sensi. […] Da quella bastonatura – la più grave fra le molte da lui subite – Tognetti non si riprese più: dopo esser passato da un sanatorio all’altro, morì qualche anno dopo per le conseguenze di quella terribile giornata. Le aggressioni dei fascisti proseguirono anche nei giorni seguenti: al bar della Posta, nel corso, Albo Bellucci venne ridotto a uno straccio a furia di manganellate, e in via Amiata lo stesso trattamento fu riservato a Lio Lenzi, un corniciaio comunista, venuto da Livorno, che i “neri” detestavano perché nel suo laboratorio si incontravano gli antifascisti grossetani. Anche a Lenzi, che sarebbe divenuto dopo la Liberazione il primo sindaco della nostra città, i medici negarono qualsiasi certificato sugli effetti dell’aggressione[17]».

Livornese classe 1898, Lenzi era stato uno dei fondatori del Pci e aveva militato negli Arditi del Popolo. Perseguitato dai fascisti e schedato, fu costretto a lasciare il suo lavoro per divenire agente di commercio e nel 1929 si trasferì a Grosseto. Nel capoluogo maremmano stabilì subito dei contatti proprio con Elvino Boschi – originario livornese come lui nonché cugino del noto comunista labronico Ilio Barontini, volontario in Spagna e poi partigiano in Etiopia, Francia e Italia – che lo introdusse nell’ambiente antifascista locale[18].

Il 19 novembre 1937, la commissione provinciale per i provvedimenti di polizia assegnò Boschi e Marconi al confino, rispettivamente per la durata di quattro e tre anni, mentre gli altri furono ammoniti. Tutto ciò nonostante lo stesso Boschi fosse considerato incapace di tenere conferenze, dirigere riunioni e svolgere lavori organizzativi e non avesse mai collaborato a giornali o riviste sovversive. Il 16 dicembre 1938 il segretario federale Elia Giorgetti espresse parere sfavorevole ad un atto di clemenza nei suoi confronti «in considerazione della responsabilità diretta da lui avuta nell’episodio e dei precedenti di irriducibile antifascista». Boschi scontò la pena ad Acerenza, Locri e Pisticci e fu prosciolto dai vincoli del confino per fine periodo il 19 agosto 1941. Successivamente fu trattenuto in arresto per altri tre mesi per contravvenzione agli obblighi del confino. Una volta liberato fu assunto dalla Società Anonima “Il Lavoro”, che aveva in appalto il servizio di facchinaggio nella stazione di Grosseto. Marconi scontò la pena alle Tremiti e a Toro e rimpatriò a Grosseto il 25 dicembre 1938, in seguito al proscioglimento condizionale disposto dal duce. [19] Per uno strano e beffardo destino, i due amici che avevano condiviso la fede antifascista e subito violenze e anni di confino, rimasero uccisi per “fuoco amico” nel corso del primo bombardamento alleato su Grosseto del 26 aprile 1943. Era il giorno di Pasquetta, quando 48 fortezze volanti americane scaricarono quasi 400 bombe da 300 libbre e circa 2000 bombe a frammentazione sulla città. L’obiettivo era la messa fuori uso dell’aeroporto militare e la distruzione della scuola di addestramento per piloti di velivoli aerosiluranti, ma la pioggia di fuoco colpì in particolar modo la zona fuori Porta Vecchia nel centro cittadino, dove erano state allestite le giostre per il giorno di festa[20]. 134 furono le vittime, tra cui molti bambini e i due sovversivi, che magari stavano trascorrendo insieme la giornata discutendo sulla crisi di quel regime da loro così odiato e che sarebbe caduto esattamente tre mesi dopo.

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Angelo Maestrini, federale del PNF grossetano, poi podestà di Grosseto (photo credits: V. Guidoni, Cronache grossetane)

Il caso Boschi e le violenze sugli antifascisti furono uno dei motivi che portarono poi all’allontanamento di Maestrini dalla guida del partito e al suo insediamento come podestà (21 marzo 1938), in un ruolo statale comunque prestigioso ma più defilato politicamente, dove si pensava avrebbe potuto metter da parte il suo radicalismo. Come si ricava da un promemoria e da altra documentazione, la sostituzione dal comando della federazione provinciale del partito fu dovuta anche alla sua forte rivalità con il primo vero capo del fascismo maremmano, Ferdinando Pierazzi, ed al fatto che non lo si riteneva adatto a tal compito, ora che il partito doveva provvedere all’inquadramento totalitario dei giovani con la nascita della Gil [21]. Pensiamo inoltre che a suo carico continuasse a pesasse la grave crisi del partito verificatasi alla fine del 1935, quando varie ispezioni e la stessa corrispondenza del segretario amministrativo del Pnf dell’epoca, Giovanni Marinelli, avevano rivelato il suo malfunzionamento, l’impreparazione del personale addetto, gravi irregolarità amministrative e spese non giustificate, come ad esempio quelle relative all’utilizzo dell’auto del federale[22]. Anche nel ruolo di podestà, Maestrini continuò a distinguersi per i conflitti d’interessi, il cumulo delle cariche (fu nominato presidente e direttore tecnico del Consorzio maremmano delle cooperative di produzione e  lavoro e successivamente segretario provinciale dell’Ente nazionale fascista della cooperazione), nonché per l’affarismo, essendo tra l’altro uno dei perni locali di quel sistema di potere vischioso e votato all’illegalità retto esternamente da Biagio Vecchioni, ex federale di Grosseto divenuto poi deputato e infine presidente dell’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Infail)[23]. Protagonista anche al tempo della Repubblica sociale italiana, Maestrini fu tenente colonnello della 98ª Legione Guardia nazionale repubblicana (Gnr) di Grosseto, partecipò a diversi rastrellamenti e dopo la Liberazione del capoluogo maremmano fuggì al nord, dove trovò la morte per mano partigiana nei pressi di Recoaro Terme (Vi)[24]. Boschi e Marconi, vittime della sua violenza, erano già morti. Non fecero in tempo a vedere l’occupazione tedesca e il ritorno del fascismo nella veste della Repubblica sociale italiana, né a prender parte alla guerra di Liberazione nelle file della Resistenza. Ma il coraggio di chi osò disobbedire al regime negli anni del consolidamento della dittatura merita di esser ricordato come un atto di Resistenza.

NOTE:
[1] E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 47-48
[2] M. Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Viella, Roma, 2014
[3] P. Corner, L’opinione popolare e il fascismo negli ultimi anni trenta, “Storia e problemi contemporanei”, n. 46, 2007, p. 17.
[4] M. Grilli, Il governo della città e della provincia in V. Galimi (a cura di), Il fascismo a Grosseto. Figure e articolazioni del potere in provincia (1922-1938), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2018.
[5] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto. Lettera del federale Maestrini al segretario nazionale del Pnf Starace. Oggetto: situazione politica, 5 aprile 1937.
[6] Sulla sostituzione di Saletti vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, bb. 692, 861; ACS , fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[7] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[8] ASGR, fondo R. Prefettura, b. 664. Circolare del prefetto Palici di Suni al questore e al Comando dei CC.RR. di Grosseto. Oggetto: risveglio di attività sovversiva, 9 marzo1936.
[9] Tutte queste segnalazioni sono riportate in ASGR, fondo R. Prefettura, b. 677.
[10] Sui volontari toscani nella guerra civile spagnola vedi: I. Cansella, F. Cecchetti (a cura di), Volontari antifascisti toscani nella guerra civile spagnola, Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2012, E. Acciai, I. Cansella, Storie di indesiderabili e di confini. I reduci antifascisti di Spagna nei campi francesi (1939-1941), Isgrec-Effigi, Arcidosso, 2017.
[11] A. Banchi, Si va pel mondo: il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, a cura d F. Bucci e R. Bugiani, ARCI, Grosseto, 1993, p. 75.
[12] Condannato a morte in contumacia, una volta terminata l’istruzione militare Rosi si arruolò nella Brigata Garibaldi e fu ferito in combattimento. Internato in Francia dopo il ritiro dal fronte delle Brigate internazionali, fu partigiano nel paese transalpino e poi in Italia settentrionale dall’inizio del 1944. Un suo profilo è nel portale Isgrec: Volontari antifascisti toscani tra guerra di Spagna, Francia dei campi, Resistenze, all’indirizzo http://gestionale.isgrec.it/sito_spagna/ita/grossetani/rosi_ita.htm.
[13] ASGR, fondo Questura, b. 429, f. Malandrini Ferruccio. La denunzia a danno dei quattro fu prodotta da Licena Rosi ved. Boschi nell’agosto 1945. Mario Caciai e Carlo Faenzi erano deceduti in Albania in seguito a ferite di guerra, Ferruccio Malandrini fu amnistiato con sentenza del pretore di Grosseto del 25 luglio 1946. Quale iscritto al Partito fascista repubblicano (Pfr) aveva preso parte anche a diversi rastrellamenti antipartigiani. Nel dopoguerra risultava titolare dell’ufficio viaggi e turismo “Avet” e del locale ufficio affissioni, nonché fiduciario del CONI per la riscossione delle giocate effettuate in provincia per il totocalcio. Fu radiato dal Casellario politico centrale il 28 marzo 1955.
[14] Gli altri gerarchi erano il vice-segretario federale Emilio Bertocci, il segretario amministrativo della federazione Guido Chelli, il centurione della milizia Eraldo Ugo Lazzeretti e il segretario del fascio di Arcidosso Carlo Beoni. Nell’interrogatorio in carcere dell’8 novembre 1937 Boschi ricordò così l’accaduto: «La sera del 31 ottobre scorso, in compagnia di Marconi Guglielmo mi diressi alla palestra dell’Onb per assistere alla riunione pugilistica. Poiché il denaro che possedevo non era sufficiente per l’acquisto del biglietto d’ingresso, col Marconi mi misi a passeggiare per la città. In Via Bertani, nell’uscire dal Bar Dopolavoro Maremma, il Marconi si fermò a chiacchierare con un gruppo di conoscenti suoi […] in tutto eravamo sei o sette. Solo conosco il Checcacci, mentre gli altri erano da me conosciuti di vista. Non ricordo chi del gruppo propose di consumare un pollo al Giappone. Siccome detto ristorante ne era sprovvisto, dato anche l’ora tarda, circa le 24, si pensò di recarsi al moderno in Via Corsica. Nel transitare detta Via fu da noi notato il Federale con altri suoi amici, in tutto 4 o 5. Avendo trovato il Moderno chiuso, ritornammo verso la città. Giunti presso il gruppo predetto, fui chiamato dal Federale, al quale io mi avvicinai con ogni riguardo. Il Federale, prendendomi per i capelli, essendo io senza cappello, mi disse: “Che fai a quest’ora in giro” ed io gli risposi “non ho fatto nulla di male, e quindi ho diritto di girare”. Al che fui colpito al viso dal Federale con uno schiaffo. Io reagii. Fu allora che le persone che si accompagnavano al Federale intervennero. Ai colpi di bastone alla testa e di pedate, caddi privo di sensi a terra. Successivamente fui accompagnato, appena rimesso in qualche modo, nella Caserma dei CC. RR. Il Maresciallo Comandante la Stazione, visto il mio stato, mi condusse all’ospedale. Appena si verificò l’incidente vidi i compagni del mio gruppo darsi alla fuga. Non ho mai fatto politica ed ignoravo che qualcuno del mio gruppo fosse sovversivo». ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico.
[15] Oltre a Boschi e Marconi (classe 1905) vi erano i maglianesi Bruno Bruni (classe 1905) e Celso Cecchacci, terrazziere nato nel 1910, i grossetani Adamo Innocenti (classe 1909) e Gaspare Minucci (classe 1908), entrambi facchini, e Aristide Burroni, nato a Montemerano nel 1896, anche lui facchino.
[16] La corrispondenza tra Maestrini e Starace è in ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto.
[17] A. Banchi, Si va pel mondo, cit. pp. 75-76.
[18] L. Rocchi, La Liberazione di Grosseto. Storia di una Resistenza breve e di un lungo antifascismo nel primo capoluogo toscano liberato, www.toscananovecento.it.
[19] Per i procedimenti giudiziari a carico di Boschi e Marconi vedi: ASGR, fondo R. Prefettura, b. 659, f. Boschi Elvino, perseguitato politico; Ibidem, fondo Questura, Cpc, b. 461, f. Marconi Guglielmo.
[20] Sul bombardamento del 26 aprile 1943 vedi: Silvio Ghiara, Guido Scarlini, Grosseto 26 aprile 1943. Operazione “Uovo di Pasqua”, Innocenti Editore, Grosseto 2003, La ricerca di Giacomo Pacini sul bombardamento del Lunedì di Pasqua del 1943, www.grossetocontemporanea.it. I documenti su questo episodio provenienti da fondi archivistici esteri son conservati presso l’archivio dell’Istituto grossetano della Resistenza e dell’Età contemporanea (Isgrec).
[21] ACS, fondo Pnf, situazione politica ed economica delle province, b. 2, f. Grosseto
[22] ACS, fondo Pnf, servizi vari e carteggi con le federazioni, b. 731.
[23] M. Grilli, Affarismo, corruzione e lotte di fazione: le difficoltà della riforma podestarile in Maremma (1926-1940) in M. Celuzza, E. Vellati (a cura di), La grande trasformazione. Maremma tra epoca lorenese e tempo presente, Isgrec-Effigi, Arcidosso – Gr, 2019, pp. 186-190, 198-202.
[24] ASGR, fondo Questura, b. 429 Cpc, f. Maestrini Angelo.



Cesare Lodovici direttore di «Alalà!» settimanale del Fascio carrarese di combattimento

La ricorrenza del centenario dei fatti di Sarzana è stata un’occasione importante per rileggere e fare il punto (si veda il convegno di studi Resistenza ante litteram. 1921-2021. A cent’anni dai “Fatti di Sarzana”, Sarzana, 16-17 luglio 2021) su un episodio significativo, quasi una momentanea battuta d’arresto, nell’ascesa e nell’affermazione del fascismo in Italia e in particolare nella zona di confine tra Liguria e Toscana dove – proprio a Sarzana – il movimento tardò a prendere piede. Episodio che gli squadristi si affrettarono a definire “eccidio” ma che fu piuttosto un’opposizione ferma delle forze dell’ordine intervenute in quell’occasione e di resistenza popolare, poi, di fronte all’ennesimo assedio che i fascisti tentarono sulla città, questa volta per liberare dal carcere Renato Ricci arrestato il 17 di quello stesso mese.
Tra le tante testimonianze che i giornali si affrettarono a pubblicare nei giorni successivi agli scontri, restava tuttavia parzialmente inedita una lunga e dettagliata cronaca dello scrittore Cesare Vico Lodovici (Carrara, 18 dicembre 1885 – Roma, 24 marzo 1968) e allo stesso modo restava quasi del tutto sconosciuta la sua partecipazione allo squadrismo apuano e all’azione del 21 luglio di cui è, appunto, testimone oculare.
Quasi del tutto perché già nel 1992 lo storico tedesco Roger Engelmann nel libro, mai tradotto in italiano, Provinzfaschismus in Italien. Politische Gewalt und Herrschaftsbildung in der Marmorregion Carrara 1921-1924 (R. Oldenbourg Verlag, Munchen, 1992) indica Lodovici tra i membri del Fascio di Combattimento di Carrara e caporedattore di «Alalà!», settimanale ad esso collegato, che lo scrittore dirige per poco più di due mesi tra il 30 luglio e l’8 ottobre 1921.
Ed è proprio sul numero di «Alalà!» del 30 luglio 1921 che esce il suo resoconto su Come si svolsero i fatti di Sarzana, (ripreso subito dopo da «L’intrepido: settimanale del Fascio di combattimento lucchese» del 14 agosto 1921) a quasi dieci giorni di distanza dagli scontri, sul numero 2 anno I del periodico dove il suo nome figura nell’ultima pagina in basso a destra, nel ruolo di direttore insieme con quello di Lodovico Canepa che ne è gerente responsabile, mentre sul numero precedente del 16 luglio 1921, che corrisponde dunque alla prima uscita del settimanale, il titolo di direttore era affidato al solo Canepa; ed è forse questo il motivo per cui nel regesto di Massimo Bertozzi, La stampa periodica in provincia di Massa Carrara, nella scheda sintetica su «Alalà!», Lodovici non è menzionato (Pacini, Pisa, 1979, pp. 170-171).
Eppure, come emerge dai suoi interventi, il ruolo dello scrittore all’interno del Fascio di combattimento di Carrara non deve essere stato affatto secondario, pur non avendo ricoperto particolari posizioni di comando; né può dirsi anonima l’impronta che la sua direzione imprime al giornale in questo brevissimo ma cruciale lasso di tempo.

Lodovici_La_donna_di_nessunoAllo stesso modo non è trascurabile il ruolo di Lodovici negli ambienti letterari e culturali di quel primissimo scorcio degli anni ‘20 soprattutto per l’eccezionalità delle relazioni che seppe intrecciare e la singolarità della sua scrittura teatrale grazie alla quale il suo nome è ancora citato nelle storie del teatro del Novecento. Amico di Pirandello, di Montale e di Gobetti (solo per citarne alcuni) seppe promuovere presso l’editore torinese, insieme con Sergio Solmi, la pubblicazione del volume degli Ossi di seppia, libro d’esordio di Montale, uscito nel 1925. Del resto Gobetti fu anche editore de L’idiota (1923), uno dei testi teatrali più conosciuti di Lodovici insieme con La donna di nessuno (1920). Infine, bisogna ricordare che ancora oggi è sua la traduzione più accreditata di tutto il Teatro di Shakespeare pubblicato da Einaudi (1965).
Forse a causa di una certa settorialità degli studi, dunque, o forse perché lo stesso Lodovici fin dal 1935, anno in cui si trasferisce a Roma per lavorare come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro, visse appartato con un’accettazione silente ma sofferta del regime fino a quando, nel secondo Dopoguerra, assunse l’incarico di critico teatrale per il quotidiano «La Giustizia», organo del Partito socialista democratico italiano.

La sua adesione al Fascio di combattimento di Carrara e al Partito fascista è comunque facilmente inquadrabile e presenta caratteristiche per certi versi comuni a quella di molti altri intellettuali dell’epoca: reduce dalla Prima guerra mondiale, nella quale aveva perso il fratello minore Vico e guadagnato due medaglie al valore dopo essere stato vittima dei gas asfissianti, nel 1917 Lodovici aveva scontato un anno di prigionia nel carcere di Theresienstadt, in Boemia; laureato in legge, ma scrittore e autore teatrale per vocazione, alle idee liberali univa un forte spirito antiborghese; a ciò si aggiunga, a chiudere il quadro, l’appartenenza a una famiglia di industriali del marmo che a Carrara, come molte altre e più potenti famiglie del comprensorio apuano, Lodovici_L'Idiotapartecipavano strategicamente alla vita politica cittadina aderendo all’una e all’altra organizzazione per mantenere inalterata la propria influenza intorno al tema cruciale del possesso degli agri marmiferi. Negli anni di cui ci stiamo occupando, la crisi politico-sociale del dopoguerra aveva infatti accentuato le aspirazioni delle masse popolari e dei cavatori verso la riappropriazione delle cave, anche in seguito alla proposta di legge mineraria presentata alla Camera dall’on. Eugenio Chiesa il 22 marzo del 1920.
A Carrara il sindaco Edgardo Lami Starnuti non seguì la politica del Ministro, anch’esso repubblicano, e la lotta politica per il possesso delle cave passò nelle mani della Camera del Lavoro di cui in quegli anni era segretario Alberto Meschi. Quest’ultimo, in una Lettera aperta a Benito Mussolini individuava negli esponenti delle famiglie proprietarie degli agri marmiferi i sostenitori e gli aderenti allo squadrismo: Ghino Faggioni e Gualtiero Betti fra tutti e poi quelli che ruotano intorno a questo sistema socio-politico: i Corsi, i Giorgi, i Lodovici, gli Ascoli, i Salvini, i Gattini, i Dell’amico, tutti nomi di famiglie già presenti e poi elette nel Direttivo del Partito liberale a partire dal maggio del 1921.

Ritratto di Lodovici

Ritratto di Lodovici

A gennaio di questo stesso anno, anche Renato Ricci era rientrato in città da Fiume e, iscritto inizialmente al fascio di Pisa, dopo aver fondato l’Associazione dei Reduci fiumani, esordisce nella politica locale all’interno della già menzionata Associazione Democratica Liberale Carrarese che si stava organizzando, appunto, in vista delle elezioni politiche indette per il 15 maggio, dopo lo scioglimento della Camera voluto da Giolitti a fine febbraio. Oltre a Ricci, il «Giornale di Carrara» del 9 aprile 1921, organo di stampa del partito, indica nel nuovo consiglio direttivo liberale anche Tommaso Lodovici, fratello maggiore dello scrittore, poi eletto nel Consiglio comunale presieduto dal sindaco repubblicano Lami Starnuti.
Le elezioni politiche passeranno però in secondo piano dopo che lo stesso Ricci, il 12 maggio di quell’anno, fonda a Carrara la sezione locale dei Fasci di combattimento in cui confluiscono sia gli ex-legionari fiumani sia alcuni membri dell’appena rinnovato Partito liberale.
Nei mesi successivi i giornali locali iniziano il racconto degli scontri e delle violenze che da quel momento in poi furono all’ordine del giorno, così come gli atti provocatori e le vendette che lo squadrismo locale organizzò nel territorio apuano contro socialisti e anarchici e, all’inizio dell’anno successivo, all’interno dello stesso movimento fascista provocando la fine dell’alleanza tra liberali e repubblicani e la conseguente caduta dell’amministrazione Lami Starnuti a gennaio del 1922: a questo punto la spaccatura tra squadristi intransigenti e normalizzatori fu insanabile.
Lodovici appartiene chiaramente alla seconda delle due, all’ala moderata del partito come si deduce dai suoi interventi sulle colonne di «Alalà!»: favorevole ai Patti di pacificazione, egli conferma più volte la sua posizione statalista e pubblica accorati appelli alla disciplina in cui chiede con forza la fine della violenza.
La sua fiducia nel capo, anche dopo le dimissioni di Mussolini, non verrà mai meno – almeno in questo periodo – ed egli tenta più volte di riportare all’unità le divergenze interne al movimento, per cui fu uno dei sostenitori della necessità di trasformare il movimento dei Fasci di combattimento in un vero partito politico, cosa che accadrà a Roma il successivo 8 novembre.
L’azione politica del nuovo partito dovrà basarsi, secondo Lodovici, su un programma di rinnovamento civile e sociale a partire dalla questione che, più di ogni altra a Carrara, aveva scatenato gli scontri tra fascisti, socialisti e anarchici: il controllo degli agri marmiferi e il commercio del marmo che non potevano essere separati dal controllo della Camera del Lavoro. Ai primi di settembre, infatti, i fascisti annunciano la costituzione della Camera Carrarese dei Sindacati Economici invitando gli operai ad associarsi e a ritirare le tessere.
Lo scontro allora fu inevitabile: alcuni industriali iniziarono ad esigere la tessera fascista e a licenziare chi, invece, continuava ad avere quella della Camera del Lavoro. Nel mese di settembre la violenza, mai veramente cessata, diventò di nuovo lo strumento principale della politica fascista e fu diretta ancora più apertamente contro i rappresentanti del sindacato.

Lodovici in auto [1923]

Lodovici in auto [1923]

Ad ottobre Renato Ricci concedeva ad Alberto Meschi due ore di tempo per lasciare la città e sgomberare l’edificio in cui aveva sede la Camera del Lavoro.
A questo punto Lodovici pubblica su «Alalà!» ancora un paio di articoli: il 20 settembre partecipa alla manifestazione per la Solenne Consegna del Gagliardetto al Fascio Carrarese di Combattimento e prende la parola con Ricci, Faggioni e Dino Perrone Compagni per ricordare i termini della lotta tra il Sindacato e la Camera del lavoro.
Sarà uno dei suoi ultimi contributi perché l’8 ottobre del 1921 pubblica il suo Congedo in una lettera in cui saluta Renato Ricci, defilandosi così dall’esperienza squadrista e dalla direzione del giornale.
Sul numero successivo, del 15 ottobre 1921, Lodovici non è più indicato come direttore del settimanale, la grafica del periodico è completamente cambiata e l’unico gerente responsabile è di nuovo Lodovico Canepa. Anzi il 29 ottobre, quando Lodovici interviene con un ultimo articolo, una nota della direzione precisa che quell’articolo non impegna alcun fascista a dover condividere tutte le idee esposte.
Nel 1923 Lodovici tentò ancora una volta, ma senza successo, di riconciliare le due correnti del fascismo carrarese quando Ricci si scontrò con il nuovo sindaco di Carrara, Bernardo Pocherra, costringendo alle dimissioni lui e l’ala liberal-conservatrice del partito.
Probabilmente, già a questa altezza cronologica, la fiducia che Lodovici poteva ancora riporre in una possibile svolta liberale del fascismo doveva essere minima e ciò spiega in qualche modo sia la solidarietà e l’amicizia dimostrata a Piero Gobetti sia il suo impegno nella direzione del «Quindicinale», rivista da lui fondata a Milano nel 1926 con Enrico Somarè, che non fu certamente su posizioni filo-fasciste.
È significativa, in questo senso, una lettera da Viareggio del 9 giugno 1923 in cui Lodovici esprime a Gobetti la sua solidarietà: «Ho sentito le sue disavventure; in parola d’onore io non capisco più il mondo – come quel legnaiolo di Hebbel nella Maria Maddalena. Ma: passerà. Io sono convinto che il liberalismo illuminato sarà l’erede del fascismo
Il 19 luglio del 1930 è ancora di Lodovici la firma in calce alla Vibrante e commossa rievocazione dei fatti di Sarzana pubblicata su «Il popolo apuano», organo della federazione provinciale fascista, per commemorare i morti del 21 luglio; ma già nell’autunno del ‘21, quando si congedava da Ricci, Lodovici doveva aver compreso che il liberalismo illuminato sarebbe arrivato probabilmente solo dopo la fine del fascismo.

Le foto pubblicate in questo articolo sono del prof. Gualtiero Magnani di Carrara, che ringraziamo per la gentile concessione. Ogni altro uso, condivisione con terzi e riproduzione non sono consentite.




Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza».

Il 1938 è un anno di svolta per il fascismo di Mussolini, questa data rimane ancora oggi un simbolo di immodificabile cambiamento che ha dato un identificabile e mostruoso volto legislativo all’antesemitismo fascista, al razzismo rivolto verso i popoli di colore e alla xenofobia subita dalle popolazioni considerate inferiori. Il fascismo italiano con una retorica ambigua e molto spesso contraddittoria dovette fare i conti con la propria intrinseca incapacità di creazione di una forte e chiara ideologia che non riuscì mai ad avere mai nitidi punti fermi e basi teoriche riconosciute e forti o create ad hoc su cui fondare una forte dottrina di regime. Il fascismo appare così un totalitarismo imperfetto, una dittatura in continuo mutamento caratterizzata da un tenace opportunismo che le permetteva di modificarsi e di conseguenza modificare idee e ideali continuamente vivendo e diffondendosi in una realtà di forte contraddizione e ambiguità.

Copertina 20 marzo 1940La Rivista divulgativa «La Difesa della Razza» diretta dal giornalista siciliano Telesio Interlandi e pubblicata per la prima volta nell’agosto 1938 aiutò in questo senso il fascismo di Mussolini, essa accentuò cristallizzandoli gli stereotipi viventi tra la popolazione italiana cercando di creare in questo modo una forte ideologia che non ammettesse sfumature e potesse giustificare così le scelte antisemite e razziste che in quel momento la dittatura aveva il bisogno e l’opportunità, per rafforzarsi, di promulgare[1].
La Rivista pertanto nasce in quel fatidico 1938 diventando il filo rosso che accomuna diverse azioni politiche operate dal regime nel corso degli anni: la dichiarazione della nascita dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana nel ’36, la divulgazione del Manifesto degli scienziati razzisti il 14 luglio 1938 e infine la promulgazione delle Leggi Razziali nell’ottobre del medesimo anno. Il periodico, dal 5 agosto ’38 data di pubblicazione del primo numero al giugno del ’43 quando uscirà l’ultimo numero, sotto gli auspici del Ministero della Cultura Popolare diretto da Dino Alfieri ebbe il preciso scopo di elaborare una dottrina scientifica che trovasse una logica giustificazione alla politica coloniale fascista e all’antisemitismo diventato di Stato e di conseguenza la biologia e le Leggi di Natura diventarono una sorta di lasciapassare per la dimostrazione dell’esistenza di razze inferiori e superiori; logica questa supportata da leggi pseudoscientifiche intrise da secolari pregiudizi razzisti.
La categorizzazione e quindi la discriminazione non si fermarono però al livello della suddivisione biologica delle razze, interesse che aveva caratterizzato “l’antropologia scientifica” in tutta l’Europa settecentesca[2]; questi due elementi riescono ancora a scavare, fino a raggiungere gli strati più deboli che vivono in una determinata società e creare, se è ancora possibile, differenze e alterità. Mi riferisco alla misoginia e al sessismo intrinseci anche nelle pagine della Rivista: il genere femminile viene sempre discriminato e sentito come una minoranza debole da tutelare e da modificare a seconda dell’esigenza. Il disagio provocato dai rapidi cambiamenti che caratterizzarono l’Italia del primo dopoguerra vennero sfogati sulla dimostrazione di come le donne con la “D” maiuscola dovessero essere e dovessero comportarsi; esse divennero l’ago della bilancia su cui misurare la sostanza e l’essere di un determinato paese.

«La Difesa della Razza» si fa così portatrice e in un certo qual modo protagonista della svolta senza ritorno del regime nella diffusione del razzismo di Stato; diventando la divulgatrice ufficiale della dottrina scientifica della divisione dell’umanità in razze e della stereotipizzazione del ruolo dei diversi universi femminili all’interno della società. Elemento caratterizzante della Rivista è la crudezza, la crudeltà, la ripetitività di alcuni temi sviscerati fino all’esasperazione; essa fu il risultato di un radicale cambiamento nell’Italia del 1938, quando si passò infatti da un razzismo frammentario e disorganico a un razzismo di Stato, diventando così uno degli organi principali di propaganda del regime. Il linguaggio utilizzato ai fini della sensibilizzazione è infatti semplicistico e divulgativo per poter arrivare così a un più ampio e stratificato pubblico, ecco perchè sono soprattutto le immagini scelte ad avere un ruolo fondamentale: una iconografia razzista, violenta, con un intenso impatto emotivo; immagini che parlano da sole senza dover per forza leggere gli articoli fin troppo scontati e grotteschi.

CiprianiIl periodico trae linfa vitale dal Manifesto degli scienziati razzisti pubblicato alcuni mesi prima, il 14 luglio del ‘38, sul «Giornale d’Italia»: il Manifesto è redatto, sotto ordine di Mussolini in persona, dal giovane antropologo romano Guido Landra il quale è influenzato e in linea con le tesi di razzismo biologico di derivazione tedesca[3]. Il Manifesto diventerà così il punto di partenza della Rivista, la base ideologica a cui riferirsi e in cui credere ciecamente. I firmatari del famoso decalogo furono quasi tutte personalità affermate e conosciute nella società italiana degli anni Trenta; questi ricoprivano infatti ruoli fondamentali e prestigiosi nelle varie università e istituti di ricerca, come, ad esempio, l’antropologo fiorentino Lidio Cipriani (1892-1962). Quest’ultimo schierato nelle file dei razzisti biologici entrò fin da subito a far parte del comitato di redazione della rivista pubblicando per sei anni consecutivi articoli e resoconti dei suoi viaggi di studio nel continente africano e riportando così dettagliate descrizioni “antropologiche” razziste e sessiste riguardanti le varie popolazioni da lui studiate e incontrate[4]. Cipriani, infatti, in quanto professore universitario di antropologia e direttore del Museo Nazionale di Antropologia e di Etnologia dell’Università di Firenze[5], già nel 1938 è conosciuto, non solo negli ambienti accademici, ma anche al di fuori di essi per i successi dei testi da lui pubblicati come resoconti dei propri viaggi all’estero e precisamente in Africa[6]. L’antropologo rappresenta un punto di rottura con la precedente tradizione di studi antirazzisti mantegazziana caratterizzante l’essenza dell’Università di Firenze[7]; Cipriani infatti è a tutti gli effetti allineato con la logica razzista di regime e già nei suoi testi e articoli “scientifici” dimostra questa peculiarità; lo studioso fu fortemente convinto che la mescolanza e quindi il meticciato, portassero ad una inevitabile degenerazione razziale e che le popolazioni africane non rappresentassero uno stadio evolutivo primitivo ma che fossero i risultati di processi di regresso fisico e culturale dovuti all’unione di razze civilizzate con quelle inferiori. In realtà la crudezza di questo pensiero si palesa non tanto nella lettura dei testi e degli articoli prodotti dall’antropologo quanto dal corpus di fotografie da lui scattate durante i suoi viaggi, che lo ritraggono accanto a uomini, donne e bambini africani presentati come cavie. Il fondo fotografico è composto da oltre ventottomila negativi[8], tutti organizzati e selezionati dal Cipriani stesso, il quale utilizza con rigorosa precisione, delle didascalie esplicative che inducono ad una lettura sempre razzista della fotografia. I soggetti fotografati hanno infatti pose prestabilite che danno chiaramente indicazioni sul perchè essi debbano essere considerati come appartenenti ad una razza inferiore, ed espressioni costantemente timorose e rassegnate che testimoniano la violazione della loro libertà da parte dell’occhio indiscreto dell’antropologo (Fig. 1).

Donna di colore con bambinoMolte di queste foto che determinano il modus operandi dello studio sul campo di Cipriani sono infatti riprodotte, con nota alla fine di ogni articolo, su tutti gli scritti dell’antropologo pubblicati su «La Difesa della Razza». Le donne in particolar modo, vengono usate per diffondere la tesi di una degenerazione razziale insita nei popoli africani; concetto questo veicolato mettendo in rilievo negativamente la differente concezione della maternità africana rispetto a quella europea, o meglio italiana. Le madri africane, a parte rarissimi casi, sono ad esempio fotografate con i propri figli avvolti da un tessuto legato dietro la schiena, il pagne, e perciò criticate aspramente all’interno degli articoli come madri degeneri. Cipriani sa bene dove battere il colpo e sovverte così i valori tradizionali di maternità e famiglia per ribadire e ripetere ancora una volta l’idea di una troppo netta distanza tra “noi e loro”.

Le fotografie utilizzate dal periodico fanno quindi parte, per lo più, della collezione prodotta dallo stesso Lidio Cipriani che guarda le donne nere con gli occhi dello “studioso” indiscreto e le fotografa di conseguenza come delle povere cavie, nude e irrigidite. L’universo femminile nero, costituisce adesso una diversità, una alterità, rispetto alla popolazione italiana; esso è diverso per razza e per cultura, i loro usi e costumi non hanno  nessun punto di contatto con quelli dei colonizzatori. Le immagini utilizzate sono quindi efficaci e suggestive, vengono riprodotte spesso a tutta pagina e mostrano i volti eretti in posizioni innaturali, che con l’aiuto della luce e di posizioni artefatte riescono a risultare brutti e sgradevoli.

Le donne ricoprono un ruolo fondamentale all’interno delle pagine della Rivista poiché esse, come già accennato, diventano l’ago della bilancia con cui i collaboratori del periodico, legittimati da una cultura secolare di patriarcato e sessismo, possono giudicare attraverso i diversi universi femminili analizzati la moralità e quindi l’essenza, positiva o negativa, delle varie nazioni prese in esame. La maternità delle donne nere, in questo caso descritte dal lavoro del Cipriani, diventa il terreno più fertile su cui poter creare ad hoc il contrasto e l’alterità con l’universo femminile italiano. Un altro chiaro esempio della costruzione di un controtipo negativo di donna rispetto a quella italiana era stato quello di mostrare le indigene, nel rapporto con la propria prole, in azioni lontane, animalesche, rispetto al canone normativo vigente nella cultura europea. I figli vengono trasportati sulla schiena, quasi mai presi in braccio, e allattati allungando, almeno secondo i razzisti biologici, il seno della madre fino al bambino. Questi gesti andavano a creare, come abbiamo già avuto modo di vedere, una cesura netta con quell’universo normativo tradizionale e ormai integrato da secoli nella mentalità e nella storia della nazione italiana.

Anche i riti e le superstizioni propri della cultura indigena, diventano il simbolo di separazione netta tra noi e loro. Nell’articolo Riti eDonna bianca con bambino superstizioni dei popoli africani [9], vengono elencati tutti i casi in cui un bambino appena nato rischia la vita con «un nonnulla per effetto di superstizioni»[10]; ad esempio il neonato, nella cultura del Rhodesia, sarà ucciso, attraverso soffocamento o annegamento, se vagirà prima di essere completamente partorito; tutto questo per il bene della comunità, poiché la malasorte portatrice di malattie e sciagure si è già, in quel modo, manifestata alla nascita del piccolo. Le madri, sempre secondo Cipriani, non sono devastate da questo tipo di approccio, anzi esse «condannano i propri figli senza pensarci»[11] e continuano a perpetuare malsane usanze, sulla loro prole, come quella, vigente tra le tribù del Congo, di deformare «artificialmente la testa ai bambini dei due sessi onde assicurare loro una ricercata bellezza da adulti»[12]. Le immagini utilizzate, sono ancora più eloquenti quando vengono messe a confronto nel numero XI dell’anno 1940[13], due madri di “razza” diversa con dei piccoli in braccio: la donna africana è disturbata dal figlio che piangendo le avvicina la mano alla bocca, creando così in lei una smorfia che la rende poco gradevole alla vista, in più è a seno scoperto e decorata da gioielli tradizionali; al contrario la bella e bionda madre occidentale guarda invece verso il lettore sorridendo, con la testa appoggiata in modo premuroso su quella del figlio che stringe tra le braccia (Fig. 2).

Questa breve analisi chiarisce che anche uno studioso come Cipriani poteva inserirsi a pieno titolo, nonostante le sue smentite e autodifese durante i processi post 1945, nel gruppo degli intransigenti razzisti biologici; l’affermato antropologo infatti negò fin da subito l’accusa di essere, sebbene fosse presente il proprio nome, co-firmatario del decalogo e di conseguenza egli fu colpito solo superficialmente dalle leggi di epurazioni del secondo dopoguerra proseguendo indisturbato la sua carriera scientifica. Cipriani riuscì quindi anche a costruire un controtipo negativo di donna, in questo caso riguardante le donne africane, rispetto al contesto femminile italiano.

Gli esempi riportati nell’articolo cercano di indagare e di conseguenza illustrare al lettore come gli stereotipi sessisti e maschilisti riguardanti l’universo femminile italiano e non solo propagandati dalla rivista «La Difesa della razza» possano essere ancora oggi scovati e identificati nella nostra società di appartenenza, la quale vive nel mantenimento di quelle strutture culturali e normative ereditate e mai realmente modificate o eliminate dalla dittatura fascista e che hanno permesso ad un «fascismo eterno»[14] di influenzare e controllare ancora oggi la nostra società. Tutte le donne analizzate dal quotidiano anche se appartenenti a realtà o culture diverse da quella italiana si trasformano nei diversi numeri dei fascicoli in un universo rigido e monolitico poiché tutte, nessuna esclusa, vengono intese, concepite e qualificate esclusivamente dal loro ruolo/missione primaria che è quella di diventare prima delle buone ed esemplari mogli e poi delle brave madri capaci per natura di mantenere la stabilità familiare con il loro stoicismo e con il loro amore. Il luogo comune riguardante la prova del sacrificio e del dolore, due elementi biologicamente caratterizzanti tutte le donne, ancora oggi vive e prospera nel nostro immaginario collettivo; «La Difesa della razza» marcia su questo stereotipo utilizzandolo come giustificazione, come espediente alla reclusione forzata a cui costringe le proprie donne nella sfera domestica. La casa è l’ambiente naturale dell’universo femminile dove esso si realizza e dove più si sente a suo agio. Tutte quelle donne appartenenti invece a nazioni nemiche o estranee alla cultura della penisola italiana andranno a rispecchiare e diventare un controtipo negativo di femminilità saranno descritte e così concepite da «La Difesa della razza» come delle cattive mogli e delle madri degenerate.

Questo articolo è tratto dalla tesi di laurea magistrale in storia contemporanea intitolata Le donne delle «razze inferiori» secondo «La Difesa della razza»: un’analisi intersezionale di genere, discussa dall’A. nell’a.a. 2020/2021 presso l’Università di Pisa.

Note:
[1] Segretario di redazione della «Difesa della razza» fu Giorgio Almirante, nel secondo dopoguerra leader del MSI.
[2] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 37.
[3] Cfr. F. Cassata, La Difesa della Razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008.
[4] G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, p. 178.
[5] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, in Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Bologna, Grafis, 1994, p. 91.
[6] Aveva pubblicato nel 1936 il libro dal titolo Un assurdo etnico: l’impero Etiopico, Firenze, R. Bemporad & F.o., 1936.
[7] P. Chiozzi, Autoritratto del razzismo: le fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, p. 92.
[8] Ivi, p. 93.
[9] L. Cipriani, Riti e superstizioni dei popoli africani, in «La Difesa della razza», 20 marzo 1941, pp. 18-21. Testo nella sezione FONTI.
[10] Ivi, p. 18.
[11] Ivi, p. 20.
[12] Ibid.
[13] «La Difesa della razza», 5 aprile 1940, pp. 24-25.
[14] Cfr. U. Eco, Il fascismo eterno, Milano, La nave di Teseo, 2017.




Il governatore, il prefetto e il delegato.

Il tema delle sanzioni contro il fascismo è stato ampiamente studiato nel corso dei decenni scorsi, mettendo in risalto soprattutto gli elementi di continuità organica e istituzionale dello Stato italiano, oltre al sostanziale fallimento dei vari provvedimenti di legge adottati, privilegiando uno sguardo dall’alto e di ricostruzione politica degli eventi[1]. Nell’arco degli ultimi anni l’attenzione degli storici si è spostata sull’analisi dei soggetti attivi e passivi di questo passaggio fondamentale per la storia italiana, oltre che sul loro bagaglio culturale e sulle modalità performative del fenomeno, con l’obbiettivo di uscire dalle secche storiografiche della cosiddetta “epurazione” quale il vulnus originale del sistema democratico italiano[2]. Se ci accostiamo ad un caso esemplificativo come quello della provincia di Livorno è piuttosto immediato cogliere le ragioni di questo cambio di rotta nei lavori sul tema, a dimostrazione che la transizione non fu affatto solo, e fin da subito, una «burletta»[3]. Alla luce di tutto ciò prenderò in esame le tre figure che gestirono, con tempi e modi diversi, la defascistizzazione livornese: il tenente colonnello statunitense John F. Laboon, governatore alleato della provincia di Livorno tra l’estate del 1944 e la primavera 1945; il prefetto di carriera Francesco Biagio Miraglia, inviato a Livorno direttamente da Roma nell’agosto del 1944; e il delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano.

Il tenente colonnello Laboon era un ingegnere civile militarizzato all’indomani dell’invasione dell’Italia, col preciso compito di doversi occupare della riorganizzazione logistica e amministrativa delle provincie appena liberate. Le sue presunte capacità nel settore derivavano dal fatto che aveva occupato diversi incarichi di responsabilità manageriale sia all’interno del sistema ferroviario della Pennsylvania sia come dirigente regionale della Work project administration, l’agenzia più importante per l’assistenza ai disoccupati e la rimessa in ordine dell’economia americana nell’ambito del New Deal. Prima di giungere a Livorno era stato brevemente governatore della città di Foggia e della provincia di Pescara, ripristinando in breve tempo le funzionalità del porto della città adriatica. Cattolico particolarmente devoto – dei 6 figli ben 4 abbracciarono la vita religiosa[4] – cercò di ostacolare in tutti i modi i partiti di sinistra orbitanti nel Comitato provinciale di Liberazione Nazionale (Cpln) di Livorno, accusandoli di essere la causa di ogni genere di disordine sociale presente sul territorio di sua competenza[5]. Questo dato è fondamentale da tenere in considerazione poiché il suo arrivo a capo del territorio toscano corrispose ad una netta inversione di tendenza da parte della Commissione Alleata di Controllo (Acc) in materia di defascistizzazione. Secondo gli Alleati, visti i pessimi risultati dei loro tentativi di bonifica dell’amministrazione pubblica nell’Italia meridionale, questo tema doveva essere gestito dal governo cobelligerante italiano, quello di Roma per intendersi, con un supporto esterno da parte degli enti di governo degli Alleati[6]. In prima battuta, quindi, la questione relativa all’allontanamento degli ex fascisti dai posti di lavoro doveva passare dalle mani dei prefetti, figure istituzionali gradualmente reinsediate al vertice delle province dal governo italiano nelle settimane successive alla liberazione dei capoluoghi. Inoltre Laboon si trovò a doversi confrontare con la defascistizzazione livornese all’indomani della pubblicazione del Decreto Legislativo Luogotenenziale (Dll) 27 luglio 1944, n. 159, quello che è stato giustamente definito la «Magna Charta delle sanzioni contro il fascismo»[7]. Per cui, rispettando le indicazioni che ricevettero in agosto i governatori militari alleati delle province italiane liberate, egli fece completo affidamento sul prefetto Miraglia, ammonendolo di iniziare con «urgenza»[8] l’epurazione amministrativa, al fine di tenere a bada l’ordine pubblico[9].

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Il prefetto Francesco Biagio Miraglia

Miraglia giunse a Livorno nemmeno un mese dopo la liberazione della città, il 12 agosto 1944, toccando con mano il profondo stato di distruzione materiale e morale dell’intero territorio labronico. In un appunto per un collega di poche settimane più tardi espresse tutta la sua rassegnazione per la realtà nella quale era stato catapultato, lui che aveva trascorso quasi tutta la carriera tra gli uffici del Ministero dell’Interno. Miraglia era nato nel 1894 a Castrovillari (Cs), aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e si era laureato nel 1919 in giurisprudenza. L’anno dopo era risultato vincitore del concorso per vicecommissari di polizia, salvo transitare quasi subito alla carriera prefettizia. Svolse i primi incarichi da consigliere di prefettura nelle sedi di Voghera, Cosenza e Reggio Calabria. Nel 1927 fu chiamato a lavorare presso il Ministero, dove nel 1941 divenne direttore generale del personale e, nel 1943, ispettore generale. Quest’ultima promozione coincise con la sua nomina a prefetto di 2ª classe, senza avere il tempo per poter esercitare l’incarico a causa della fine del regime fascista e dell’armistizio. Dopo la fuga del re e del governo da Roma, fu tra quei funzionari che rimasero in servizio al Viminale fin quando non venne chiesto loro di prestare giuramento alla Repubblica sociale italiana (Rsi) e prepararsi al trasferimento verso nord. Al suo rifiuto di collaborare con le autorità repubblicane corrispose il collocamento a riposo d’ufficio. In contatto con il fronte resistenziale romano durante tutto l’inverno 1944, la mattina del 4 giugno ricevette l’ordine di tornare subito in servizio e occuparsi della riorganizzazione del Ministero dell’Interno per preparare il ritorno in sede del governo italiano, fino ad allora a Salerno[10]. Miraglia si era dimostrato piuttosto freddo verso il regime fascista, nonostante l’adesione formale e il tesseramento al Partito nazionale fascista (Pnf), perciò l’Acc e lo stesso Ivanoe Bonomi, presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim, lo selezionarono per andare a dirigere la provincia toscana, una delle più importanti per i piani strategici degli Alleati. Va detto che questa “restaurazione” nei ruoli dirigenziali della periferia non escludeva il fatto che il personale prefettizio fosse messo politicamente sotto esame per escludere la presenza di evidenti compromissioni con l’ex regime di governo. Le regole erano le stesse che valevano per l’epurazione delle altre categorie di funzionari statali, per cui era sufficiente che i prefetti non godessero di benemerenze fasciste, come l’essere stati squadristi o aver partecipato alla Marcia su Roma, e non avessero aderito alla Rsi. Non veniva presa in considerazione l’effettiva partecipazione del dirigente alla vita pubblica del fascismo – che era innegabile dato che costoro avevano ricoperto i maggiori ruoli di responsabilità nel meccanismo dello Stato fascista, come esemplificato dalla biografia di Miraglia – per una ragione sia pratica che politica. Per il governo italiano cobelligerante i prefetti rappresentavano l’ossatura dello Stato unitario, perciò, soprattutto nelle condizioni in cui versava l’Italia liberata dell’estate 1944, la loro presenza era considerata come l’unica in grado di garantire la sopravvivenza della nazione[11]. Il 5 settembre, in seguito all’invito del governatore Laboon di occuparsi dell’epurazione, il prefetto firmò una circolare diretta a tutti gli enti locali per informarli sul contenuto del Dll 27 luglio 1944 n. 159, e, in particolare, su che cosa fosse stato previsto per l’allontanamento di alcune categorie di ex fascisti dalle pubbliche amministrazioni, come gli squadristi o i collaborazionisti. Ciò che emerge dai carteggi tra Miraglia e i singoli enti per approvare, o rigettare, le sospensioni – che furono oltre 80 solo nel primo mese di entrata in vigore del Dll, raddoppiando alla fine dell’inverno successivo – risulta che il prefetto considerasse la questione epurativa come estremamente chiara. Secondo lui, ma ritengo che si possa giustamente estendere questa considerazione a molti funzionari pubblici che esercitarono ruoli di responsabilità in quel determinato frangente storico, dal momento che esistevano delle norme nazionali che regolavano un tema così delicato come quello delle sanzioni agli ex possessori di titoli onorifici del regime, l’unica scelta possibile per coloro che erano chiamati a gestire il complesso processo di defascistizzazione era applicare le regole così come erano scritte[12].

Ovviamente, il lavoro di Miraglia era solo preliminare, visto che non si trattava di entrare nel merito dei singoli casi, giudicarli e comminare una pena. Per questo passaggio, sempre sulla scorta del Dll 27 luglio 1944, n. 159 era stato creato l’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo con le sue ramificazioni provinciali, le delegazioni provinciali. A capo di quella livornese venne posto l’avvocato ebreo e comunista Ugo Bassano, già consigliere giuridico del Cpln ed elemento di collegamento con il governo militare alleato (Amg) diretto da Laboon. Il suo profilo biografico è piuttosto illuminante della sua personalità: proveniente da una famiglia dell’antica borghesia ebraica livornese, si era laureato in giurisprudenza nel 1931, iniziando da subito ad a fare l’avvocato. Nel 1938, in seguito all’emanazione delle leggi razziali, fu privato della possibilità di esercitare in proprio, venendo assunto da un altro avvocato ebreo livornese, Giuseppe Lumbroso, che si era convertito al cattolicesimo nel 1936 ed aveva ottenuto la “discriminazione” per poter continuare con la professione. Questo lavoro semiclandestino si adattava male ad una mente brillante come la sua, perciò accettò una borsa di studio per trasferirsi a Washington ed approfondire così gli studi in legge. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale gli precluse la strada dell’espatrio, costringendolo a rimanere a Livorno fino alla primavera del 1943. In questo periodo, grazie ad un incontro casuale con Lanciotto Gherardi – futuro commissario politico livornese –, si avvicinò al Partito comunista italiano (Pci), rimanendo comunque appartato anche dopo l’8 settembre per la sua appartenenza religiosa. Non prese parte attiva alla lotta clandestina e si trovò a vagare senza meta per la Toscana durante i mesi dell’occupazione nazifascista[13]. In base a quello che ho precedentemente detto del rapporto tra Laboon e il Cpln è naturale chiedersi come mai una figura come quella di Bassano venne scelta per gestire fattivamente la defascistizzazione livornese. A mio avviso per due ragione: la prima di ordine politico, e riguarda i mesi della prima crisi del governo Bonomi, con l’uscita dal governo di socialisti e azionisti e la tenuta dei comunisti[14]; l’altra, di tipo pratico, riguarda il fatto che Bassano si dimostrò particolarmente affidabile e degno di fiducia agli occhi di Laboon e Miraglia nei sui compiti precedenti di collegamento tra l’Amg, la prefettura e il Cpln[15]. La nomina ufficiale di Bassano a delegato provinciale dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo avvenne il 19 dicembre, e fu accompagnata da una lettera da parte dell’Alto commissariato aggiunto per l’epurazione, il comunista Mauro Scoccimarro, che gli intimò di «iniziare immediatamente […] un’oculata istruttoria ai fini del giudizio di epurazione»[16] per tutte le pubbliche amministrazioni della provincia. Il suo compito, così come definì lui stesso alcune settimane più tardi in un’intervista per il neonato quotidiano livornese «Il Tirreno», era quello di «un Pubblico Ministero che prende le sue decisioni, ma non fa parte del Tribunale»[17]. I giudizi finali, infatti, sarebbero spettati ad un’apposita commissione presieduta da un magistrato togato, coadiuvato da un membro scelto dalla delegazione e uno di nomina prefettizia. Oltre ad occuparsi delle sole sanzioni amministrative, Bassano, in virtù delle revisioni alla legislazione sulle sanzioni contro il fascismo, seppe gestire anche le sanzioni di tipo fiscale, le cosiddette indagini sugli “illeciti arricchimenti”, e quelle di tipo penale, vale a dire le indagini sui “crimini fascisti”, rendendo la delegazione provinciale la vera e unica macchina della defascistizzazione della periferia livornese[18].

Ugo Bassano

Ugo Bassano

Questa breve analisi su tre delle figure principali della defascistizzazione livornese, vale a dire il primo governatore alleato della provincia, il prefetto e il delegato dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo permette, a mio parere, di cogliere alcuni dati fondamentali. In primo luogo, l’importanza delle biografie di coloro che gestirono fattivamente il passaggio dal fascismo alla democrazia all’indomani della Liberazione in periferia, oltre ai loro legami personali e ai differenti rapporti di forza, e appartenenza, politica. Secondariamente, la complessità di un fenomeno in continuo divenire e che si dovette confrontare con la relativa “fascistizzazione” dei territori, le ferite dello squadrismo (1919-1922) e della guerra civile (1943-1945). Tutto ciò dimostra quanto sia importante non limitarsi a giudicare la transizione solo sulla base degli effetti di precise scelte politiche, come l’amnistia del 22 giugno 1946, bensì cercare di andare oltre alle perplessità verso il «colpo di spugna sui crimini fascisti»[19] e cogliere quelle continue tensioni tra continuità e innovazione, teoria e prassi, centro e periferia, che segnarono l’avvio dell’esperienza repubblicana in Italia[20].

 *Giovanni Brunetti (Cecina, 1997) è laureato magistrale in Storia e Civiltà presso l’Università di Pisa (maggio 2021), dove ha conseguito anche la laurea triennale in Storia (giugno 2019). Attualmente sta frequentando il biennio 2019-2021 della Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Dottorando del XXXVII⁰ ciclo di studi (2021-2024) in Scienze archeologiche, storico-artistiche e storiche presso l’Universita degli Studi di Verona.

[1] Cfr. C. Pavone, La continuità dello Stato, in Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, Torino, 1995, pp. 70-159 (ed. or. 1974); M. Flores, L’epurazione, in G. Quazza (a cura di), L’Italia dalla Liberazione alla Repubblica, Feltrinelli, Milano, 1976, pp. 413-467; L. Mercuri, L’epurazione in Italia (1943-1948), L’arciere, Cuneo, 1988; R. P. Domenico, Processo ai fascisti (1943-1948). Storia di un’epurazione che non c’è stata, Rizzoli, Milano, 1996 (ed. or. 1991); H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna, 1997 (ed. or. 1996); R. Canosa, Storia dell’epurazione in Italia. Le sanzioni contro il fascismo 1943-1948, Baldini&Castoldi, Milano, 1999.

[2] Cfr. G. Focardi e C. Nubola (a cura di), Nei tribunali. Pratiche e protagonisti della giustizia di transizione nell’Italiana repubblicana, il Mulino, Bologna, 2015; C. Nubola, P. Pezzino, T. Rovatti, Giustizia straordinaria tra fascismo e democrazia. I processi presso le Corti d’assise e nei tribunali militari, il Mulino, Bologna, 2019; A. Martini, Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953), Viella, Roma, 2019.

[3] A. Galante-Garrone, Il fallimento dell’epurazione: perché?, in R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., pp. 11-15.

[4] Uno di questi era l’omonimo John F. Laboon, ufficiale sommergibilista durante la Seconda guerra mondiale e cappellano militare nella Guerra del Vietnam. Cfr. R. Gribble, Navy Priest: The Life of Captain Jake Laboon, The Catholic University of America Press, Whashington D.C., 2015.

[5] Sono piuttosto illuminanti in questo senso le relazioni di Laboon presenti in R. Absalom (a cura di), Gli Alleati e la ricostruzione in Toscana (1944-1945), voll. I-II, Olschki, Firenze, 2001, in part. pp. 227-228.

[6] Cfr. N. Gallerano, L’influenza dell’amministrazione militare alleata sulla riorganizzazione dello Stato italiano (1943-1945), in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, il Mulino, Bologna, 1975, pp. 103-104; D. W. Ellwood, L’alleato nemico. La politica di occupazione degli anglo-americani in Italia 1943-1945, Feltrinelli, Milano, 1977, pp. 240-245; H. Woller, I conti con il fascismo, cit., pp. 217-218.

[7] H. Woller, I conti con il fascismo, cit., p. 193.

[8] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», Lettera di Laboon per il prefetto Miraglia (1° settembre 1944).

[9] Nella primavera 1945, terminata l’esperienza di governatore in Italia, Laboon venne rimpatriato negli Usa dopo un breve incarico in Austria. Tornato alla vita civile si dedicò della gestione del sistema idraulico della contea di Allegheny, in Pennsylvania, pur continuando a mantenere un canale di comunicazione con Livorno grazie alle ripetute donazioni in favore degli enti religiosi assistenziali della provincia. Cfr. John Laboon… Honoray Citizen, «The Pittsburgh Press», May 22, 1955; John F. Laboon, «Pittsburgh Post-Gazette», December 10, 1985.

[10] Cfr. G. Tosatti (a cura di), L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, Icar, giugno 2016, pp. 160-161; G. Miraglia, Riorganizzare lo Stato alla liberazione di Roma (4 giugno 1944). Un documento dell’archivio del prefetto Francesco Miraglia, «Sintesi dialettica per l’identità democratica. Rivista online a carattere scientifico», n. 4, 06/2007 http://www.sintesidialettica.it/index.php (consultato il 26 settembre 2021).

[11] Nel caso della provincia di Firenze, ad esempio, il Comitato toscano di Liberazione Nazionale (Ctln) aveva deliberatamente evitato di nominare un proprio prefetto dopo la liberazione. Questo non certo perché si attendesse una designazione da Roma, bensì perché appariva controproducente ripristinare la figura al vertice di quel governo periferico che si pensava sarebbe stato riformato alla fine della guerra. Era evidente infatti che, se fosse stato scelto anche un prefetto di estrazione politica, e avesse svolto tutte le funzioni tipiche del suo ruolo, si sarebbe data l’opportunità al governo di provvedere, anche in un secondo momento, al ripristino del modello tradizionale di controllo centro-periferia. Cfr. A. Cifelli, L’istituto prefettizio dalla caduta del fascismo all’Assemblea costituente. I Prefetti della Liberazione, Ssai, Roma, 2008, pp. 106-111; M. De Nicolò, L’epurazione “interna”: l’istituto prefettizio, in M. De Nicolò e E. Fimiani (a cura di), Dal fascismo alla Repubblica: quanta continuità? Numeri, questioni, biografie, Viella, Roma, 2019, pp. 21-45.

[12] Come ha ampiamente dimostrato Mariuccia Salvati, il caso di Miraglia non era certamente unico, né un gesto di semplice opportunismo, quanto piuttosto l’esempio dell’appartenenza ad una specifica cultura amministrativa fortemente legalitaria e garantista che, solo inizialmente, era stata anche contrastata dalla rivoluzione fascista. Cfr. M. Salvati, Il regime e gli impiegati. La nazionalizzazione piccolo-borghese nel ventennio fascista, Laterza, Bari-Roma, 1992, pp. 10-12. Vedi anche G. Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna, 2018.

[13] Cfr,. L. Savelli, Il percorso dei Bassano, in M. Luzzati (a cura di), Ebrei di Livorno tra due censimenti (1841-1938). Memoria familiare e identità, Belforte, Livorno, 1990, pp. 77-85.

[14] La spaccatura nel primo esecutivo nazionale del Cln si originò attorno al tema dell’epurazione nella pubblica amministrazione. Da un lato c’erano i socialisti e gli azionisti, che spingevano per una manovra radicale che garantisse l’estirpazione di ogni residuo di fascismo dagli uffici pubblici, dall’altra la moderazione dei liberali e democristiani che, invece, ritenevano già fin troppo energica l’azione del governo italiano con la promulgazione del decreto di luglio. Tra i due contendenti stava il Pci con Togliatti che vedeva in questa crisi la prima concreta possibilità del crollo del fronte ciellenistico. La fine del governo Bonomi non avrebbe significato, per i comunisti, solo la perdita di qualche poltrona, ma di quella legittimità per poter rimanere alla guida del paese e non essere più tacciati come dei fuorilegge. Cfr. R. P. Domenico, Processo ai fascisti, cit., p. 147; H. Woller, I conti con il fascismo, cit. pp. 260-282.

[15] Bassano era laureato e parlava piuttosto bene l’inglese e il francese, così come Furio Diaz, il giovane sindaco comunista del capoluogo dal 1944 al1954. Questi aspetti legati alle personalità dei singoli potrebbero apparire come del tutto secondari rispetto agli importanti ruoli che rivestirono, ma sappiamo da testimonianze coeve come furono fondamentali ai fini di scardinare ogni pregiudizio politico su di loro. Cfr. L. Piazzano, Leghorn decimo porto. Cronaca di un dopoguerra 1944-1947, Debatte, Livorno, 1979, p. 22; G. C. Falco, Le giunte Diaz e la ricostruzione a Livorno, in «Nuovi studi livornesi», vol. XX (2013), pp. 67-130, in part. pp. 68-69.

[16] ASLi, Prefettura, b. 168 «Epurazione Enti locali (1944-1946)», fasc. 1 «Massime», sottofasc. 1 «Delegato provinciale», Lettera di nomina di Bassano (19 dicembre 1944).

[17] R. Miglietta, L’epurazione a Livorno (nostra intervista con l’Avvocato Bassano), «Il Tirreno», 27 febbraio 1945.

[18] Per una trattazione puntuale ed approfondita mi permetto di rimandare al mio lavoro Dio non paga il sabato. La defascistizzazione della provincia di Livorno (1943-1947), tesi di laurea magistrale in Storia e Civiltà, Università di Pisa, rel. Prof. Gianluca Fulvetti, aa. 2019-2020.

[19] M. Franzinelli, L’amnistia Togliatti. 1946. Colpo di spugna sui crimini fascisti, Mondadori, Milano, 2006.

[20] Sebbene con una chiave interpretativa diversa e rivolta all’analisi dei processi per i crimini di guerra cfr. L. Baldissara, Sulla categoria di “transizione”, «Italia contemporanea», n. 254, 2009, pp. 61-74.




“Rifarei tutte quelle scelte”: essere comunisti a Massarosa

Silvano Simonetti (Massarosa, 1951) è stato rappresentante sindacale per la FIOM CGIL e membro del direttivo provinciale del sindacato metalmeccanico. Ha ricoperto per molti anni la carica di consigliere comunale nelle file del Partito comunista italiano, e dal 2006 al 2011 è stato assessore provinciale a Lucca per il Partito dei comunisti italiani(PdCI)1.

Quando ti sei avvicinato al PCI? Cosa significava la scelta della militanza comunista in un territorio come quello di Massarosa, tradizionalmente conservatore?

Mi sono avvicinato al PCI nel 1976, dopo tre anni come responsabile sindacale di una azienda metalmeccanica nelle file della FIOM. Quella scelta convinta in un territorio come Massarosa mi creò non poche inimicizie: molti conoscenti non mi salutarono più, e molti altri mi chiedevano come mai un giovane così intelligente aveva fatto quella scelta. Ovviamente questo rafforzò la mia decisione, mentre mi aprì le porte a nuove conoscenze e condivisioni – molte delle quali non si sarebbero più interrotte.

Perché proprio il PCI e non – ad esempio – il Partito socialista, le cui radici pure affondavano nella tradizione del movimento operaio?

Scelsi il PCI perché era un partito rigoroso e coerente, con solide radici nella gente più debole. Fu anche il desiderio di riscatto personale in ambito collettivo verso tutte quelle ingiustizie che venivano consumate ai danni dei familiari, amici e conoscenti.

Presidio davanti alla fabbrica “Apice” di Bozzano, anni ’70 (archivio PCI – circolo di Massarosa)

Tra il 1989 e il 1991 tanto l’Unione Sovietica quanto il PCI cessano di esistere, con quest’ultimo che intraprende quel percorso che lo porterà a mutare profondamente la propria fisionomia. Quale ruolo ricoprivi allora nel partito? E quale fu il tuo giudizio sulla “svolta della Bolognina”?

A partire dalla metà degli anni ’50 ci furono alcuni episodi che facevano intravedere una difficoltà a tradurre in buone pratiche correnti gli intenti della Rivoluzione d’ottobre. Cominciò a scricchiolare la fede quasi incondizionata nei confronti del blocco sovietico, fino allo strappo praticato da Enrico Berliguer che dichiarò esaurita la spinta propulsiva. Da lì si consolidò sempre più la via italiana al comunismo2.

All’epoca della Bolognina ero membro del comitato politico federale e della segreteria di sezione a Massarosa: fu un passaggio molto doloroso perché in pochi giorni ci fu una divisione tra semplici compagni, dirigenti e popolazione3. Fatto emblematico fu il riposizionamento di molti dei quadri dirigenti i quali, dopo una immediata contrarietà alla scelta, cambiarono subito la propria posizione. Da questa normalizzazione capii che il guasto era probabilmente e potenzialmente già latente. La disgregazione del Partito fu molto rapida e trovò il suo epilogo con il successivo congresso nazionale, articolato su tre mozioni.

Telegramma di E. Berlinguer alla sezione massarosese del PCI, 1979: “Mi congratulo calorosamente con vostra sezione per positivo risultato tesseramento et reclutamento prime giornate campagna 1980 STOP proseguite iniziativa rafforzare partito et estendere suoi legami con masse popolari STOP nuovi successi tesseramento sono migliore risposta at attacchi et campagne contro nostro partito et garanzia sviluppo nostra azione per rinnovamento sociale et politico STOP fraterni saluti e buon lavoro.” (archivio PCI – Circolo di Massarosa)

Cosa guidò le tue successive scelte politiche? Prendesti in considerazione l’idea di aderire al neonato PDS?

Per ciò che mi riguarda aderii fin da subito alla costruzione del Movimento della Rifondazione comunista insieme a tante compagne e compagni, anche in Versilia e a Massarosa. Non ho mai pensato di aderire al PDS perché avevo ben capito che si trattava di una operazione che andava in altra direzione rispetto a quelle aspettative che mi avevano portato ad entrare nel PCI. A distanza di tempo posso dire che oggi rifarei tutte quelle scelte.

1 Formazione costituitasi nel 1998 da una scissione di Rifondazione comunista, in disaccordo con la scelta di quest’ultima di non continuare ad appoggiare il Governo Prodi I: il partito – fondato da Armando Cossutta e Oliviero Diliberto – nel 2016 confluisce nel nuovo Partito comunista italiano, che riprende nome e simbolo del PCI storico.

2 Dagli anni ’50 in avanti la sinistra italiana ripensa progressivamente il proprio rapporto con l’URSS: se nel 1956 il PSI è nettamente schierato contro l’intervento sovietico in Ungheria (“È tradito l’internazionalismo proletario!”, scriverà Pietro Nenni nel suo diario, in P. Mattera, Storia del PSI. 1892-1994, Carocci, Roma 2010, p. 166), nel PCI le voci contrarie sono minoritarie (ad es. Giuseppe Di Vittorio, che in qualità di segretario della CGIL emana un comunicato di condanna non gradito ai dirigenti comunisti; vedi anche A. Vittoria, Storia del PCI. 1921-1991, Carocci, Roma 2006, pp. 83-86); un decennio dopo ben altra analisi fornirà Luigi Longo, succeduto a Togliatti alla guida del partito, nell’approccio all’invasione della Cecoslovacchia: pur ribadendo la superiorità del modello socialista e il ruolo indiscutibilmente di primo piano dell’URSS nella lotta all’imperialismo e per la pace, Longo prende infatti le difese di Dubcek e dei suoi collaboratori, sostenendo che debbano esservi più vie per la costruzione del socialismo (per una lettura più approfondita si consiglia L. Longo, Sui fatti di Cecoslovacchia, Editori Riuniti, 1968).

3 Il documento più eloquente di questa profonda divisione in seno alla galassia del PCI è senz’altro il docu-film “La Cosa” di Nanni Moretti (1990, Sacher Film).




La ricostruzione del PCI a Pistoia e il primo congresso provinciale

All’indomani della liberazione di Pistoia, sul suo territorio, come d’altra parte avveniva nel resto della Toscana, il tessuto e il confronto politico vengono gradualmente a prendere vigore.

Questo confronto politico trovò all’interno del C.P.L.N. il luogo di compensazione e composizione di tutte le prospettive e divergenze. Fino a che non fu ripristinata l’autorità del governo italiano, inoltre, il dibattito non poteva non tenere conto della presenza e dell’autorità del Governo militare alleato.

Gli alleati erano diffidenti verso il partito comunista e contro di esso ingaggiarono una lotta assai decisa. Si temeva che i comunisti disponessero di armi e munizioni e di un piano preciso di guerra basato sulla veloce rimobilitazione dei partigiani contro gli alleati.

Anche a Pistoia, questo atteggiamento era riscontrabile, e sul fuoco delle diffidenze tra Governo militare alleato e PCI gettavano benzina gli avversari politici dei comunisti. Se tale atteggiamento a livello politico veniva, in qualche modo, mascherato, nelle posizioni della Curia territoriale si manifestava, invece, in modo acuto: le organizzazioni cattoliche e molti parroci, infatti, erano in prima linea nel combattere una dura battaglia contro i marxisti materialisti, atei e nemici della religione.

Il partito comunista pistoiese, che durante il ventennio fascista era stato costretto alla clandestinità, con la liberazione della Provincia si pose il problema della riorganizzazione della Federazione su nuove basi.

Il compito non fu molto facile poiché si trattava di creare un Partito Nuovo in una situazione completamente nuova e rispondente alle mutate condizioni storiche, che tenesse conto della diversa posizione della classe operaia di fronte a tutti i problemi della vita nazionale. Pertanto, il partito comunista pistoiese, si dette una struttura organizzativa che, sostanzialmente, costituirà l’intelaiatura portante anche per gli anni a venire. Tale struttura, fin dall’inizio, era articolata in una federazione che comprendeva l’intero territorio della provincia di Pistoia, suddivisa in sezioni che coprivano tutti i rioni cittadini, nonché le frazioni e le località della campagna e della montagna. Le sezioni più grandi erano, a loro volta, suddivise in cellule, le quali potevano avere anche un ambito aziendale.

La prima riunione all’interno della ricostituita federazione pistoiese del PCI si effettuò il 22 novembre 1944 quando, nel corso di una riunione del Comitato Federale, fu deciso di sostituire il segretario Guerrando Olmi, che aveva guidato il partito dal giorno della liberazione, con Luigi Gaiani. Tre giorni dopo fu nominata la segreteria di cui facevano parte oltre a Gaiani, anche Olmi e Niccolai, e il Comitato Federale composto da dieci membri (nove uomini e una donna), i quali, a loro volta, avevano altri incarichi in organismi cittadini (Italo Carobbi era presidente del C.P.L.N., Silvio Bovani era dirigente della CGIL, Edda Gaiani era dirigente dell’Unione Donne Italiane).

Nel gennaio 1945, a Gaiani successe Fulvio Zamponi, anch’egli membro autorevole del C.P.L.N., che diresse i lavori del primo Congresso provinciale del PCI, svoltosi dal 19 al 21 ottobre’45. Questa importante assise fu preceduta dalla prima Conferenza provinciale d’organizzazione effettuatasi il 22 luglio 1945, alla presenza delle sezioni e delle cellule maschili e femminili. Nel corso dei lavori furono messi in luce difetti e deficienze organizzative, tanto che i responsabili dell’organizzazione di tutte le sezioni della provincia riconoscevano impellente la necessità di trasformare i militanti in un insieme organico di attivisti capaci di assumersi il compito di dirigere il paese e risolvere i problemi di carattere nazionale.

Nell’ordine del giorno approvato alla fine del Convegno era stabilito di creare nuove attribuzioni capaci di poter soddisfare le esigenze di un aumentato numero di aderenti e di svolgere così la politica del Partito Comunista di tipo nuovo così da raggiungere una completa partecipazione dei militanti alla vita attiva della nazione.

Terminata questa importante assise, la Federazione di Pistoia concentrò i suoi sforzi nell’organizzazione e nella preparazione del primo Congresso provinciale svoltosi nell’ottobre’45, alla presenza di delegazioni del PSI, della DC, del PRI, del PdA e dei Comunisti Libertari. Vi parteciparono 177 delegati di 37 sezioni in rappresentanza di 16475 iscritti.

L’ordine del giorno prevedeva l’elezione degli organismi dirigenti e dei delegati al V Congresso Nazionale, i rapporti sull’attività del partito a livello nazionale e provinciale.

I lavori congressuali furono aperti da Fulvio Zamponi, segretario della Federazione pistoiese del Partito Comunista, il quale rivolse il seguente saluto ai presenti:

«Il nostro Congresso si apre in un periodo critico della vita italiana davanti a noi abbiamo una massa di rovine, la miseria e la fame batte alle nostre porte mentre residui fascisti e reazionari si oppongono all’ascesa delle forze democratiche […]. Siamo convinti che il ciclo democratico possa completarsi su un terreno pacifico […].

   Abbiamo abbondante buon senso ma soprattutto disponiamo di tutta la forza occorrente per dimostrare, se necessario, ai residui del fascismo di che cosa sia capace il nostro Partito (…).

   Vogliamo dare un nuovo orientamento politico alla Nazione; i problemi della ricostruzione, dell’alimentazione, dell’epurazione sono compiti che il popolo italiano deve affrontare e risolvere […]» (“Il Progresso. Settimanale della Federazione Comunista Pistoiese”, 27.10.1945, p. 1).

La relazione introduttiva fu svolta da Giuseppe Rossi, in rappresentanza della Direzione Nazionale. In apertura, egli inquadrò la situazione generale del PCI.   Nel particolare momento storico, il PCI era impegnato nel reclamare lo svolgimento delle elezioni politiche e amministrative, che sarebbero servite ad uscire da una situazione imbarazzante, per lo più determinata dal concetto della pariteticità in tutte le cariche designate dai CLN. Tuttavia, il PCI era favorevole al mantenimento dei Comitati di Liberazione al fine di dare un impulso alla ricostruzione del paese e all’epurazione. Inoltre, era anche a favore della nazionalizzazione di una parte dell’industria, della riforma agraria e finanziaria.

Riguardo ai rapporti con le altre forze politiche, rilanciò la costruzione di un Partito unico necessaria sia per i comunisti, sia per i socialisti.

Nel corso dei lavori, Zamponi illustrò il complesso dell’attività del partito a livello provinciale. Dopo la Liberazione, le autorità militari avevano più volte ostacolato il processo di riorganizzazione della federazione pistoiese del Partito Comunista e più volte la federazione fu minacciata di scioglimento.

«Tuttavia il partito intervenne per dimostrare agli alleati con quanta sincerità i comunisti vedessero nella loro opera il compito che era anche nelle nostre finalità, e con quanta sincerità noi spingessimo le masse a collaborare con gli alleati nella lotta di liberazione» (Ivi)

Per quanto riguardava la forza organizzata del PCI pistoiese, Zamponi riferiva quanto segue:

«Durante la lotta eravamo circa 500, alla fine del’44 eravamo 4000. Nel febbraio scorso quando fui chiamato a dirigere la Federazione i compagni erano 6080; nel giugno 12029, nell’Agosto 14303, oggi siamo 16475 senza tenere conto delle numerose domande in corso di esame presso la Federazione.  Questo progresso conferma che la politica e l’azione raggiunge le coscienze del popolo […] (Ivi)

Questi dati stavano a significare il gran lavoro organizzativo svolto, ma anche come i comunisti fossero ampiamente radicati nella realtà locale grazie ad un’importante rete di spacci cooperativi, – le cosiddette cooperative del popolo -, che furono uno strumento importante, ma non certamente decisivo, nella battaglia contro il cosiddetto “mercato nero”. Con l’apporto dei socialisti, fu realizzata una rete capillare di circoli – le “case del popolo” -, le quali si riveleranno utili per ospitare le sedi delle sezioni dei due partiti.

Questa gran mole di lavoro fu, tuttavia, giudicata ancora insufficiente da Zamponi, al pari del livello di attività sindacale – la Camera del Lavoro poteva contare su 16000 iscritti di tutte le tendenze politiche -, e della presenza del partito nel mondo femminile e in quello giovanile.

Le risoluzioni conclusive del congresso auspicarono una rapida convocazione della Costituente, un più deciso ruolo del partito nell’opera di denuncia delle forze che ostacolavano il processo di ricostruzione del paese, la creazione di un partito unico dei lavoratori, mentre per ciò che si riferiva alla realizzazione della linea politica da parte della Federazione si valutava che essa stessa avesse fatto il possibile per rendere concreta, nella provincia di Pistoia, la linea politica del partito. Si osservava, inoltre, che il lavoro doveva essere intensificato in tutti i settori, ma in particolar modo nell’ambito sindacale, cooperativistico, in quello della propaganda, del lavoro femminile, delle amministrazioni Provinciali, del problema dei reduci.

Il Congresso si concludeva con la riconferma di Luigi Gaiani a segretario della federazione, in sostituzione di Zamponi, che fu chiamato a ricoprire un altro incarico, e con l’elezione del Comitato Federale composto da: Gaiani Aldo, Niccolai Dino, Romei Emanuele, Valdesi Armando, Carobbi Italo, Filippini Gino, Pasquali Sergio, Bernieri Remo, Marraccini Giuseppe, Romani Lea, Olmi Guerrando, Agnoletti Madda, Biagini Nello, Monti Renè, Vivarelli Giuseppe, Magnini Carino e dei delegati al Congresso Nazionale Zanchi Renata, Palandri Graziano, Bucci Flavio, Vivarelli Sergio, Filoni Zara, Filippini Gino, Monti Renè, Cenci Getullio, Breschi, Tesi Savino, Romei Emanuele, Agnoletti Madda, Paoli Lionello, Bernieri Remo, Bartoli Mario, Jozzelli Walter, Coppini.

Filippo Mazzoni, è vicepresidente dell’Isrpt e membro del comitato di redazione della rivista “Farestoria”. Tra le sue pubblicazioni pù recenti, segnaliamo “Viaggio nella storia sociale dell’Italia repubblicana”, Empoli, Ibiskos, 2019. 

 




Le miniere della Maremma all’alba del Patto di Londra

Dopo la dichiarazione di neutralità nell’agosto del 1914 rispetto alla guerra da poco scoppiata che vedeva coinvolti gli alleati della Triplice Alleanza, per l’Italia i mesi seguenti furono preludio dell’imminenza di nuovi scenari: mantenersi neutrale davanti all’acuirsi di un conflitto che si svolgeva alle sue porte o schierarsi con uno dei due fronti? Se da una parte una tale dichiarazione aveva permesso all’Italia di attendere e osservare, dall’altra preconizzava il rischio di vedere declassato il rango di potenza per un Paese che fino ad allora era stato riconosciuto al pari di Regno Unito, Francia e Germania. Da un punto di vista economico, infatti, l’Italia poteva definirsi dalla ‘dipendenza multipla’[1]: il settore agricolo aveva delle sue specializzazioni, ma non garantiva l’autosufficienza alimentare rimanendo, pertanto, legato alle importazioni dalla Russia e dalla Romania, soprattutto di grano e altri cereali, la Germania era il principale partner economico per i manufatti industriali mentre il fabbisogno energetico era garantito dalla Gran Bretagna, in primis per il carbone. In tali condizioni, la neutralità dell’Italia non avrebbe potuto durare troppo: il ferreo controllo inglese sul commercio internazionale condannava le economie dei Paesi neutrali, soprattutto di quelle dipendenti dalle esportazioni. La direzione che l’Italia avrebbe dovuto prendere per evitare la stagnazione era chiara[2]. Ed è su questo aspetto che puntò la destra sonniniana-salandriana, con il supporto della monarchia, per entrare in guerra[3].

I mesi che precedettero la stipula segreta del Patto di Londra furono caratterizzati da provvedimenti di difesa e di interlocuzioni diplomatiche che sembravano palesare la direzione che il Governo italiano avrebbe poi preso. Del resto, non sembrava essere il Parlamento «il luogo vero e proprio del processo decisionale, di formazione della scelta di entrare in guerra»[4]: la vera trattativa che portò l’Italia in guerra al fianco della Triplice Intesa si svolse alla corte reale, per mano del Governo, soprattutto la Presidenza del Consiglio e il Ministero degli Esteri, e alle Ambasciate.

Giovanni_Merloni (credits: Archivio Storico Camera dei Deputati)

Giovanni_Merloni (credits: Archivio Storico Camera dei Deputati)

In questo contesto si inserì l’attività politica di Giovanni Merloni finalizzata alla difesa delle miniere della Maremma.

Tra i primi sostenitori del nascente Partito Socialista Italiano nel 1892, Merloni fu fervente esponente dell’ala riformista del partito fondato da Turati. Dopo un’attiva militanza nella sua Cesena, dove era nato nel 1873, alternata all’attività di pubblicista per «Critica Sociale» e «Avanti!», negli anni della polarizzazione tra repubblicani e socialisti, Merloni riuscì ad arrivare a Montecitorio con le elezioni del 1913 candidandosi nel Collegio di Grosseto (dove si era presentato già nel 1909 e dove si trasferì negli anni della Prima guerra mondiale) avendo la meglio contro il repubblicano Pio Viazzi e l’avvocato costituzionale Arturo Pallini. Quelle del 1913 furono le prime elezioni a suffragio universale maschile e le prime in cui il collegio fu strappato ai repubblicani. Merloni trionferà ancora nella Circoscrizione Siena-Arezzo-Grosseto con le elezioni generali del 1919 ottenendo circa 16 mila voti di preferenza, capolista nella graduatoria dei cinque socialisti eletti[5]. Una elezione a grandi voti, che sembrerebbe premiare il suo impegno e attivismo per la Maremma, comprese le sue miniere per le quali si era battuto all’alba dell’entrata in guerra dell’Italia.

L’attenzione di Merloni a difesa delle miniere maremmane viene menzionata ne I minatori della Maremma[6], il libro-inchiesta di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, in riferimento alla decisione del Governo Salandra di vietare l’esportazione delle piriti di ferro, adottata con decreto del 5 gennaio 1915, una decisione che sembrava rispondere più a pressioni inglesi che a reali esigenze economiche. L’atto era il Regio Decreto 27 dicembre 1914, n. 1415, pubblicato il 4 gennaio del 1915, col quale veniva esteso a piriti, ematite ed altri minerali di ferro, ghisa anche in getti il divieto di esportazione già introdotto con i Regi Decreti 1° agosto 1914 n. 758, 6 agosto 1914 n. 790, 28 ottobre  1914 n. 1186 e 22 novembre 1914 n. 1278; all’art. 2 si precisava che il decreto avrebbe avuto effetto dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e sarebbe stato presentato al Parlamento per la sua conversione in legge[7].

La stampa locale – soprattutto di matrice socialista – riportò pedissequamente questo attivismo che si inseriva all’interno del dibattito sul futuro dell’Italia rispetto alla guerra in corso: la prima pagina del settimanale socialista «Il Risveglio»[8] del 7 febbraio 1915 anticipava che il rappresentante locale alla Camera, da circa un mese, stesse lavorando alacremente presso le autorità competenti per impedire il divieto delle esportazioni di piriti, alla luce dei danni che un provvedimento di tale natura avrebbe arrecato per l’industria mineraria e per le condizioni lavorative di migliaia di lavoratori del sottosuolo. La trattazione dettagliata fu riportata a partire dal numero successivo[9], precisando che più di un mese prima (appunto, il 5 gennaio) il Governo, senza anticipazioni né discussioni di alcuna sorta, aveva emanato un decreto col quale vietava in modo assoluto l’esportazione di piriti di ferro. Il provvedimento si presentava come una profonda minaccia rispetto alla produzione mineraria della Maremma visto che la produzione normale delle piriti era «superiore notevolmente al fabbisogno nazionale, e trova(va) uno sfogo importante precisamente nell’esportazione.»[10]

Il territorio delle Colline Metallifere rappresentava, infatti, un importantissimo bacino minerario già dai primi decenni del ‘900 come dimostra anche il fatto che a Massa Marittima venne costituita, il 27 aprile 1902, la Federazione nazionale dei minatori, definitivamente strutturatasi poi nell’agosto del 1903. Le miniere già dagli ultimi decenni del XIX secolo erano state oggetto di interesse di finanzieri e uomini d’affari europei mentre lo Stato unitario aveva manifestato difficoltà nell’allestire una propria industria pesante: la conseguenza fu inizialmente lo scarso piazzamento del minerale maremmano nel mercato interno, trovando invece più fiorenti lidi nei mercati inglesi, francesi e anche tedeschi, almeno fino agli anni ’90. Il prodotto maremmano non ricopriva un ruolo privilegiato, ma fungeva solo da “tappabuche” quando non erano sufficienti gli approvvigionamenti nazionali[11]. Erano poche le miniere che potevano vantare una continuità produttiva, le uniche erano le miniere cuprifere di Fenice Capanne Massetana e di Capanne Vecchie e la miniera di lignite di Montemassi-Casteani, conosciuta come la miniera di Ribolla. Il grande salto per l’industria chimica fu compiuto con la scoperta della possibilità di produzione dell’acido solforico dalla pirite[12] di cui il sottosuolo maremmano era particolarmente ricco: alla vigilia dell’entrata in guerra, quando mesi di conflitto europeo avevano portato alle stelle il prezzo dei minerali, erano attive 6 miniere piritifere (tra cui Boccheggiano, Gavorrano e Ravi, nella duplice gestione della Montecatini e della Marchi) con una produzione complessiva annua di circa 270.000 tonnellate[13]. La battaglia politica di Merloni si inserì in questo quadro animato dallo sviluppo della produzione mineraria e dalla nascita del proletariato minerario che iniziava a presentarsi come classe operaia nuova.

Il Risveglio, 14 febbraio 1915

Il Risveglio, 14 febbraio 1915

Nello stesso articolo sopra citato de «Il Risveglio» del 14 febbraio 1915, si precisava che Merloni, venuto a sapere dei gravi danni che un tale decreto avrebbe cagionato alle miniere della Maremma, si era recato al Ministero delle Finanze e al Ministero degli Esteri, accompagnando l’Ing. Donegani, consigliere delegato della società Montecatini, per portare sul tavolo i dati della produzione, a dimostrazione della infondatezza della misura adottata: lo stesso Governo di fronte a tale testimonianza dovette rivedere la sua decisione, ammettendo che «la ragione del divieto era sostanzialmente di carattere internazionale.»[14]

Merloni – continuava l’articolo – si era prodigato quindi presso il Ministero degli Esteri affinché si risolvessero i problemi internazionali e alla fine ebbe successo, ottenendo la revoca del decreto: le piriti non erano esportate in alcun paese belligerante per scopi militari, bensì per attività industriali (Germania e Austria – così si legge – avrebbero potuto andare avanti con la propria produzione anche se la guerra fosse durata venti anni), e pertanto fu garantito alle piriti lo stesso trattamento riconosciuto allo zolfo e altre materie industriali. Merloni tenne le trattative con il Ministro delle Finanze Daneo, con il sottosegretario Baslini, presidente della Commissione per le esportazioni, con Luciolli, direttore generale delle Dogane, e col Conte Manzoni, rappresentante del Ministero degli Esteri: la richiesta fu quella di avviare un confronto con i Governi esteri accordando l’esportazione di circa 100.000 tonnellate nel corso del 1915. La stessa negoziazione delle piriti di ferro interessava, peraltro, anche lo scambio di prodotti e materie necessarie ad alcune industrie italiane.

«Il Risveglio» colse l’occasione per evidenziare come l’opera di Merloni fosse stata, altresì, in grado di evitare sommovimenti da parte del proletariato maremmano che avrebbe potuto far sentire la propria voce alla pari di quanto avevano fatto i siciliani per lo zolfo: lo stesso Merloni, pur disponibile a promuovere un’agitazione da parte dell’intera deputazione toscana, non aveva inizialmente coinvolto gli operai, convinto dell’esito positivo della sua azione politica, limitandosi, in occasione di una visita in Maremma ai primi di gennaio, ad avvertire il prefetto di Grosseto affinché si prodigasse anche lui stesso con il Governo per ottenere la revoca.

L’operato di Merloni a favore dei minatori della Maremma venne riportato anche da un articolo su «Etruria Nuova»[15], conferendovi però una lettura politica di matrice repubblicana, tesa a minimizzare il suo operato. Lo scontro politico prendeva la forma del botta e risposta nella stampa locale.

La rimostranza de «Il Risveglio» non tardò a farsi sentire, attribuendo alla stampa repubblicana una lettura frettolosa e foriera di errori[16]. Si riportava letteralmente: «Essa dice: l’on. Merloni interessandosi e riuscendo ad ottenere il nulla osta per l’esportazione delle piriti all’estero prolunga – nientemeno! – il macello della guerra, vien meno ai neutralissimi ordini del P.S.I. e favorisce il lupo famelico Guglielmone, il solo soddisfatto dell’opera di Merloni». Il giornale socialista puntualizzava che la pirite non veniva impiegata per usi militari, così chiosando: «Tenuto poi conto che la pirite verrebbe poi data in cambio di taluni prodotti e materie necessari all’industria italiana, il tutto si riduce ad una utilità per noi e per gli altri, senza pregiudizio dei risultati della guerra. Utilità soprattutto per i poveri minatori della nostra provincia, i quali si sarebbero trovati sul lastrico senza pane se invece dell’on. Merloni, un deputato repubblicano avesse sostenuto le intervenzionistiche idee dell’Etruria. Ma per fortuna ci pensarono a tempo opportuno!»

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

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Iniziava così una serie di provocazioni tra le due riviste: la settimana successiva[17] «Il Risveglio» attaccò la voce di un minatore uscito su «Etruria Nuova» il quale aveva negato che l’operato di Merloni avesse sortito effetti positivi per le miniere maremmane, sostenendo che non fossero mai state fatte esportazioni verso l’estero. La rivista socialista della provincia di Grosseto lo tacciò di interventismo a favore della Triplice Intesa, in linea con l’orientamento repubblicano-irredentista. A rispondere punto per punto all’intervento del minatore sul giornale repubblicano fu “E. Z.” – firma che farebbe pensare a Egisto o Emilio Zannerini, entrambi socialisti – citando i “vapori col ventre ricolmo dei nostri prodotti minerari” che partivano da Follonica per poter smaltire la sovrapproduzione nazionale. Si respingeva ancora una volta l’accusa che la pirite fosse utilizzata dalla Germania per scopi bellici sostenendo che l’utilizzo che ne veniva fatto era per la produzione di concimi chimici utili per la fertilizzazione dei terreni, aggiungendo che sarebbe stato paradossale che una potenza militare come la Germania attendesse di fatto la pirite italiana per produrre esplosivi. La posizione dell’autore era chiara: l’opera di Merloni era stata mossa dalla volontà di tutelare gli operai delle miniere grossetane, i quali avrebbero risentito delle conseguenze del decreto in termini occupazionali e quindi sociali, ma, allo stesso tempo, si riconosceva che di tale azione ne beneficiarono anche i capitalisti che potevano andare avanti con il loro profitto, ricavato dalla produzione.

La battaglia condotta da Merloni per le miniere maremmane dalla stampa locale passò poi all’Aula parlamentare, in occasione della discussione sulla proposta di legge avanzata dal Presidente Salandra “Provvedimenti per la difesa economica e militare dello Stato” (poi legge n. 273, del 21 marzo 1915).

La seduta era quella del 14 marzo 1915[18] e il disegno di legge – come già anticipato – risultava preceduto da una serie di decreti emanati in merito a divieti di esportazione, al commercio di transito e relative norme. L’intervento di Merloni prese le mosse da quello precedentemente proferito dal collega deputato Eugenio Chiesa, repubblicano eletto nella circoscrizione di Massa e Carrara, che nell’accusare il Governo di aver favorito, con i provvedimenti di difesa economica adottati negli ultimi mesi, il traffico dei permessi di esportazione – definito “esportazione dolosa” dal disegno di legge in esame e da Chiesa “grande contrabbando” –, da una parte paventava rischi per l’approvvigionamento del Paese e dall’altra un rialzo generale dei prezzi di consumo e un esodo ingente di tali merci verso l’estero[19]. Dopo le critiche rivolte al Governo, Chiesa procedette con il riferirsi ad un caso specifico che annoverava tra gli episodi deprecabili in cui – si legge nel resoconto – «un deputato può operare più a servizio di un industriale che a tutela del proprio popolo». Chiesa non citò esplicitamente il nome del deputato ma precisò che egli si era prodigato per impedire il divieto di esportazione delle piriti di ferro. Così viene riportato nel resoconto stenografico della seduta:

 «Ora le piriti di ferro hanno un solo concessionario tedesco, per acquirente, un tale Lippmann Bloch di Breslavia; e sono destinate alle diverse fabbriche di prodotti chimici. È una innocente dizione che nasconde le fabbriche d’esplosivi. Ma guardate: queste piriti si pagano 60 centesimi per unità di zolfo e cioè circa 30 lire per tonnellata; 25 lire ci vogliono per farle arrivare al confine; altrettanto dal confine alle fabbriche, e troverete che queste piriti verranno a costare in fabbrica circa 85 lire a tonnellata. Un prezzo enorme, e da ciò si deduce che l’uso di dette piriti in Germania deve essere di primissima necessità per il momento attuale. E 70 mila tonnellate di piriti sono partite negli ultimi mesi. Ora, e questo sia detto per il Governo, soltanto il 5 gennaio fu emanato il divieto di esportazione e sta bene. Ma, onorevole Baslini, perché dopo l’avete tolto?»

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Chiesa accusava il Governo di aver tolto tale divieto il 13 febbraio: la ragione addotta dal Governo era la remunerazione derivante dall’esportazione a favore delle industrie nazionali, mentre il deputato repubblicano sosteneva che il consumo interno avrebbe potuto essere tale da coprire facilmente la produzione; nel sostenere ciò, Chiesa faceva cadere il sospetto anche su uno scambio di carbone e piombo tra Italia e Germania, sottolineando che il carbone tedesco non avrebbe potuto competere con quello inglese, dichiarazione che manifestava una palese attenzione rivolta all’Inghilterra anche sotto l’aspetto economico.

Rispetto alla caustica citazione chiese di intervenire proprio Merloni, che sull’argomento non era mai uscito pubblicamente, dichiarando subito di aver agito nell’interesse di migliaia di operai della Maremma. Così si legge nel resoconto della seduta:

«La Germania è poi produttrice di pirite di ferro in misura tale, dato che queste piriti di ferro, con l’estrazione dello zolfo e la produzione dell’acido solforico, potessero servire anche per usi militari, da essere largamente provveduta a tale scopo, niente meno che per moltissimi anni. Ed è quindi provato che tanto lo zolfo (ed io assumo volentieri anche la difesa della libera esportazione dello zolfo, per i colleghi siciliani e per i minatori della Sicilia) quanto l’esportazione delle piriti di ferro, non servono ora ad altro che ad uso industriale. Se si volesse chiudere la porta di uscita alle merci che servono alla Germania per uso industriale, non ci si dovrebbe limitare arbitrariamente a questo o a quel prodotto, ma occorrerebbe logicamente ed equitativamente estendere il divieto a tutti quanti gli altri prodotti che servono all’industria tedesca come alle industrie di altri Paesi. (…) Se dunque, come vi dicevo, la Germania è provveduta per i suoi usi militari per molti anni, data la sua cospicua produzione di piriti di ferro, data la libera esportazione dello zolfo dall’Italia, con quale fondamento si dovrebbe ritenere che l’esportazione di una certa quantità di piriti di ferro, necessaria per mantenere nel suo equilibrio attuale una importante industria italiana, la più importante industria della Maremma, che dà lavoro ad alcune migliaia di operai, sia proprio quella che giova agli usi militari della Germania, già esaurientemente assicurati?»

 Le cifre della produzione mineraria della Maremma sembrerebbero dare ragione alla battaglia di Merloni: la produzione di piriti di ferro ammontava a 245.200 tonnellate nel 1914 aumentate a 270.845 nel 1915; gli operai impiegati nelle miniere erano 1.485 nel 1914 e 1.418 nel 1915[20]. Se andiamo a confrontare i dati della produzione a livello nazionale – rispettivamente 335.531 e 327.707 tonnellate – si comprende come le miniere di pirite di ferro della Maremma fossero fondamentali per l’economia del Paese.

Il deputato socialista passò poi ad una sorta di excursus rispetto alla misura che il Governo aveva adottato, sollecitando quest’ultimo anche a concludere le trattative commerciali:

 «C’è stato un tempo (ed è questa, onorevole Chiesa, l’origine prima del divieto della esportazione delle piriti), nel quale uno Stato – non occorre scendere a particolari – aveva creduto che questa esportazione potesse realmente servire a un paese belligerante per usi militari, e se n’era allarmato. Orbene, onorevole Chiesa, quello stesso Governo estero, dopo venti giorni, si ricredette e lasciò chiaramente intendere che non 100 mila, ma 200 mila tonnellate di piriti di ferro avrebbe lasciato che si fossero esportate liberamente in Germania od in qualunque altro paese. E se il nostro Governo credette ciò non di meno, dopo avere tolto il divieto, di mantenerlo ancora temporaneamente, si fu soltanto per fare delle piriti di ferro un oggetto di contrattazione di scambi con altri Stati, così come per altre numerose merci. E così è dimostrato anche che è inesatto parlare di divieto dell’esportazione delle piriti di ferro, perché il Comitato delle esportazioni deliberò alla unanimità di ammettere le piriti di ferro all’esportazione, condizionatamente a detti cambi. Ora, pertanto i lavoratori di Maremma attendono fiduciosi che si giunga presto ad una soluzione favorevole di codeste negoziazioni, per evitare ad essi un sacrificio grave, che non gioverebbe ad alcuno, che non sarebbe in nessuna guisa giustificato, come non sarebbe giustificato un provvedimento somigliante, supponiamo, contro l’industria zolfifera siciliana. Ma la prova irrefutabile decisiva è quella data da quel Governo estero, che ora ho ricordato. Ora è strano che l’onorevole Chiesa, ardente repubblicano, sia ancora più realista del re, intendo dire del Re … d’Inghilterra».

Prima pagina del resoconto parlamentare

Prima pagina del resoconto parlamentare

La discussione svoltasi in Aula diventò oggetto di resoconto sulla stampa socialista: si veda, ad esempio, «Avanti!» che nelle Note alla seduta[21], dopo aver sottolineato l’approvazione ottenuta dal deputato grossetano da parte dei colleghi in Aula, ipotizzava che Chiesa avesse trasposto alla Camera una polemica elettorale dei repubblicani in Maremma, «i quali pure di combattere l’opera dell’onorevole Merloni che si svolge sempre più importante ed efficace a vantaggio del proletariato maremmano e dell’intero partito non si sono avveduti che ferivano – sconsigliatamente sprovvisti di ogni ragione che ha dimostrato luminosamente oggi alla Camera il valoroso deputato di Grosseto – tanto l’interesse della Maremma quanto quelli dei minatori»[22].

Tale clima emergeva in modo ancora più evidente nelle pagine de «Il Risveglio» e «Etruria Nuova».

Così il settimanale locale socialista il 21 marzo[23], inserendo in prima pagina un articolo sull’intervento dell’on. Chiesa, scriveva:

«Nessun altro, all’infuori dell’on. Eugenio Chiesa, poteva aderire all’invito dei repubblicani maremmani, di portare cioè alla Camera – sotto lo specioso pretesto del contrabbando – la revoca al divieto delle piriti ottenuta con tanto successo dall’on. Merloni. Solo questo burattinaio della sconquassata repubblica italiana, questo novello Pirocorvo della Camera (…); questo istrione soltanto, diciamo, poteva prestarsi al giuoco dei suoi degni amici maremmani, per tentare con un mezzo vile un intento più vile ancora». E ancora: «Ma il generale applauso con cui fu salutata l’energica e fiera riposta dell’onorevole Merloni, deve avere annichilito l’onorevole Chiesa, il quale, sotto le invettive di tutti i deputati socialisti non trovò più la forza di replicare una parola. Dal resoconto stesso della Tribuna, giornale non sospetto, si può rilevare con quanta competenza l’on. Chiesa trattasse la questione delle piriti, che egli ignorava perfino a quale uso servissero!»[24]

In un articolo successivo della stessa edizione[25] si riprendeva la discussione portandola sul piano dello scontro politico, puntando a sottolineare come le forze repubblicane si stessero affievolendo in provincia, finendo così col cercare ogni espediente per attaccare l’avversario. «Etruria Nuova» aveva risposto prima con la lettera del minatore, poi con quella dello spettatore e con una nota della redazione, in cui si definiva Merloni “l’on. procaccione”. Nel rispondere alla nota redazionale repubblicana, la rivista socialista precisava che era vero che le miniere di Ravi, Boccheggiano, Gavorrano e Montieri non potevano produrre più di 20.000 tonnellate al mese, ma ribadiva anche che il fabbisogno nazionale ammontava a solo 10.000 tonnellate; inoltre, la Germania richiedeva una certa qualità della pirite proprio per destinarla ai concimi, come più volte evidenziato.

CREDITS: https://www.museidimaremma.it/

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La settimana successiva «Il Risveglio», dopo aver riportato il resoconto stenografico dell’intervento di Merloni[26], inserì come chiosa[27] la riposta che Merloni aveva inviato al «Popolo d’Italia» in data 25 marzo 1915 rispetto a una lettera firmata “Un Ingegnere di turno”. Gli argomenti riportati erano precisazioni rispetto all’intervento fatto in Aula, in risposta alle supposizioni poste dall’anonimo: Merloni ribadiva che il principale uso che veniva fatto dell’acido solforico era per scopi industriali e che la produzione delle piriti di ferro in Germania, che nel 1912 fu di 262.000 tonnellate, avrebbe potuto bastare per anni a coprire il fabbisogno tedesco per usi militari. Anche nella lettera Merloni ripercorse la storia dei provvedimenti e delle loro ragioni, di natura internazionale:

 «Se un divieto ci fu, questo avvenne, come feci intendere alla Camera, in seguito…all’opinione manifestata da una potenza belligerante che l’esportazione delle piriti e dello zolfo in Germania potesse abbisognare colà per usi militari; ma ciò fu contraddetto coi dati alla mano dal nostro Governo, il quale tuttavia se lasciò in pace lo zolfo trattenne le piriti; (…) Quella potenza si persuase però sollecitamente del suo errore; e allora il Comitato delle Esportazioni presso il Ministero delle Finanze, che io, edotto dei dati e delle ragioni dell’Amministrazione dello Stato, avevo più volte premurato a che fosse evitata la disoccupazione delle miniere della Maremma, diede unanime approvazione alla esportazione delle piriti secondo i quantitativi richiesti»

 Nello stesso numero[28] si riportò altresì una critica verso le esternazioni che i repubblicani avevano fatto nelle pagine di «Etruria Nuova», tanto da arrivare a sostenere che il divieto di esportazione non vi fosse mai stato e che quello di Merloni fosse un vero e proprio bluff. Il tono de «Il Risveglio» fu granitico e sagace, criticando proprio il metodo e la strategia utilizzati dai repubblicani che prima avevano accusato a lungo Merloni di aver fatto revocare il decreto per poi appellarsi alla inesistenza stessa del provvedimento.

La produzione mineraria, in ogni modo, era salva. Dopo circa un mese l’Italia avrebbe firmato il Patto di Londra, dichiarando di fatto guerra all’Austria e dopo un anno anche alla Germania.

NOTE

[1] Cfr. Labanca, N. (sotto la direzione di), Dizionario storico della Prima guerra mondiale, Edizioni Laterza, Roma-Bari, 2014, p. 54.

[2] Si veda anche Bruccoleri G., Il commercio dell’Italia coll’estero nel periodo della sua neutralità, «Giornale degli Economisti e Rivista di Statistica», Serie terza, vol. 51 (Anno 26), n. 6 (dicembre 1915), pp. 443-462.

[3] Cfr. Labanca, p. XIV.

[4] Isnenghi, M., Rochat, G., La grande guerra. 1914-1918, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 100.

[5] Cfr.  Quaglino A.A., Chi sono i deputati socialisti della XXV legislatura (156 biografie), Torino 1919, ad nomen, p. 82.

[6] Bianciardi L., Cassola C., I minatori della Maremma, Minimum fax, Roma, 2019, p. 106.

[7] Cfr. Gazzetta Ufficiale, n. 2 del 4 gennaio 1915.

[8] L’interessamento dell’on. Merloni per i minatori, «Il Risveglio», n. 6, 7 febbraio 1915.

[9] L’on. Merloni per i minatori della Maremma. L’opera efficace del nostro deputato contro il divieto della esportazione delle piriti, «Il Risveglio», n. 7, 14 febbraio 1915. Nello stesso numero si riportava un breve editoriale firmato da Merloni con il quale si evidenziavano i problemi derivati dalle esportazioni e dal rialzo dei prezzi dei beni alimentari, in primis grano e altri alimenti. Si precisava, tuttavia, che l’editoriale era stato scritto molto tempo prima che il Governo decretasse il divieto assoluto dell’esportazione dei generi di consumo di prima necessità.

[10] Ibidem.

[11] Cfr. Tognarini, I. (a cura di), Siderurgia e miniere in Maremma tra ‘500 e ‘900. Archeologia industriale e storia del movimento operaio, All’insegna del Giglio, Firenze, 1984, p. 166. Si veda anche Le nostre orme. Per una storia del lavoro e delle organizzazioni operaie contadine nel Grossetano, Ediesse, Roma, 1988.

[12] Cfr. Rapporti annuali sulle lavorazioni minerarie di Gavorrano e zone limitrofe tratti dalle relazioni sul servizio minerario, Corpo delle miniere, Distretto di Grosseto, anno 1903.

[13] Cfr. Tognarini I., p. 168. Nella relazione del servizio minerario del 1914 si indicano 5 miniere produttive e 1 miniera non produttiva, cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ispettorato delle miniere, Rivista del servizio minerario nel 1914, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1915, pp. XXX-XXXI.

[14] Cfr. L’on. Merloni per i minatori della Maremma

[15] Non è stato possibile consultare i numeri del 1915 a causa di indisponibilità tecnica.

[16] Già: per la storia!, «Il Risveglio», n. 8, 21 febbraio 1915.

[17] A quel tal «minatore…», «Il Risveglio», n. 9, 28 febbraio 1915.

[18] Resoconto stenografico seduta del 14 marzo 1915 della Camera dei deputati.

[19] Dall’intervento dell’on. Chiesa riportato nel resoconto stenografico della seduta: «Nei corridoi si era diffusa per gli ingenui la leggenda che ora si sarebbe discusso e votato questo progetto per ‘la difesa dello Stato, e che poi il Governo avrebbe annunziato le supreme decisioni sulla politica internazionale’ del nostro paese, e, chiusa la Camera, si sarebbe avuta la mobilitazione e la guerra. Ma forse il momento non è ancora venuto per questo».

[20] Cfr. Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, Ispettorato delle miniere, Rivista del servizio minerario nel 1914, Istituto Italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1915, pp. XXX-XXXI e Ministero dell’Agricoltura, Rivista del servizio minerario nel 1915, Tipografia Nazionale Bertero, Roma 1917, pp. XXVI-XXVII.

[21] Note alla seduta, «Avanti!», n. 74 del 15 marzo 1915.

[22] Ibidem.

[23] Il burattinaio, «Il Risveglio», n. 12, 21 marzo 1915.

[24] Ibidem.

[25] La pirite, i repubblicani e il resto, «Il Risveglio», n. 12, 21 marzo 1915.

[26] L’on. Merloni per i minatori e gli interessi della Maremma. La risposta del nostro Deputato all’on. Chiesa, «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.

[27] Una lettera dell’on. Merloni al «Popolo d’Italia», «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.

[28] A proposito della pirite, dei repubblicani, dell’on. Chiesa ed il resto, «Il Risveglio», n. 13, 28 marzo 1915.




L’eccidio di Figline di Prato

Prato fu liberata il 6 settembre 1944, dopo un intero anno di occupazione. Quel giorno le truppe tedesche lasciarono la città, ma prima di abbandonare definitivamente il campo portarono a termine un eccidio efferato: ventinove giovani partigiani catturati alla fine di uno scontro a fuoco avvenuto nella notte precedente furono impiccati nel paese di Figline, sotto l’arco di via Maggio. L’eccidio di Figline ricordò a tutti che la guerra continuava e per l’Italia non era ancora giunto il momento di festeggiare la pace.

bassorilievoA Prato già da alcune settimane era chiaro che gli uomini di Hitler e Mussolini avevano le ore contate e mentre le truppe alleate si avvicinavano rapidamente, chi si era più compromesso con il regime aveva deciso di fuggire verso il nord. In vista del traguardo tanto agognato, per gli antifascisti pratesi partecipare al riscatto della città apparve imprescindibile, indispensabile per rivendicare la propria posizione in un momento così importante. Per questo motivo il CLN locale, in accordo con il Comitato Regionale di Firenze, decise di conquistare il centro laniero prima dell’arrivo degli angloamericani.

Nella notte tra il 5 e il 6 settembre 1944 i partigiani organizzati nella brigata Buricchi iniziarono così una lunga discesa dal campo base ai Faggi di Iavello. Dopo alcune ore di marcia nella notte giunsero alle pendici dello scoglio appenninico di Spazzavento, dal quale la Valbisenzio osserva Prato avvolta “nella fredda gora della tramontana” (Mausoleo Malaparte). Erano circa le 2:00 quando il gruppo si ricompattò nei pressi della Pesciola, una vecchia casa colonica non lontano dal paese di Figline, dove gli uomini agli ordini di Carlo Ferri avrebbero dovuto incontrare una staffetta capace di condurli tra le file nemiche fino al centro cittadino. Alla Pesciola, però, non c’era nessuno ad attenderli e i partigiani furono costretti a una sosta imprevista per discutere sul da farsi. Dopo un breve confronto i responsabili del gruppo si resero conto di avere una sola scelta a disposizione: avanzare.

La formazione lasciò quindi il proprio rifugio cercando di evitare anche il minimo rumore, ma dopo aver percorso pochi passi fu investita da una scarica di proiettili che colpivano ad intermittenza, raso terra e da diverse angolazioni. Ne seguì uno scontro impari, destinato a non durare molto. Non riuscendo a capire dove partivano le raffiche nemiche né a organizzare un’efficace resistenza, la colonna sbandò dopo aver sparato alla cieca le proprie munizioni e iniziò da parte dei singoli la ricerca di un varco per uscire dall’accerchiamento. L’impresa non era semplice, nel frattempo era iniziato a piovere e oltre al buio anche l’acqua ostacolava i movimenti e rendeva indistinti i contorni.
Il grosso della brigata riuscì comunque a filtrare verso il centro della città e a raggiungere la Fortezza, luogo stabilito come punto di arrivo della spedizione. Altri combattenti, memori della consegna di tornare alla base di partenza in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo, tentarono di guadagnare l’altura. Un terzo gruppo cercò rifugio nella zona circostante, ma quella decisione si rivelò fatale per la maggior parte di loro. Alla fine dello scontro, infatti, i tedeschi effettuarono un meticoloso rastrellamento per arrestare e giustiziare i partigiani rimasti sul campo.

Coloro che furono scoperti quella mattina vennero scortati nella vicina villa Nocchi, sede di un regolare reparto della Wehrmacht comandato dal maggiore Karl Laqua, giurista nella vita civile e funzionario dell’apparato di giustizia della Germania nazista. Nell’ampia entrata dell’edificio il maggiore Laqua inscenò un processo farsa, alla fine del quale ventinove partigiani furono condannati a morte mediante impiccagione e condotti immediatamente al paese di Figline, dove giunsero alle 9:00 del mattino del 6 settembre 1944. Il loro destino era stato deciso e nessuno avrebbe potuto salvarli.

impiccatiAppena giunti nell’abitato i malcapitati si fermarono con le mani dietro la nuca di fronte all’arco di via Maggio lungo il torrente Bardena. Contemporaneamente i militari recuperarono sedie, tavoli e corde dalle case circostanti per approntare un patibolo, organizzando al tempo stesso le misure difensive per evitare interferenze. In pochi minuti tutto era pronto e i prigionieri furono condotti sotto l’arco a coppie. Ogni volta che arrivavano alla forca dovevano prima togliere dal capestro i propri compagni per poi a loro volta seguirli nella morte.
L’esecuzione continuò senza sosta per circa mezz’ora, poi si sentì nell’aria un sibilo seguito da un forte boato: gli alleati, ormai giunti alle porte di Prato, stavano bombardando la città. Nella concitazione del momento uno o forse due condannati sfruttarono la confusione e riuscirono a fuggire. Tuttavia i nazisti non si scomposero e aspettarono la fine del cannoneggiamento per portare a termine il loro proposito, lasciando il luogo dell’eccidio soltanto quando ebbero ultimato l’esecuzione.
Fu allora che alcuni abitanti di Figline vinsero la paura ed iniziarono a togliere gli impiccati dalle corde. Sotto la pioggia che iniziava nuovamente a cadere vennero identificati i cadaveri e fu scavata una fossa presso il cimitero del paese dove i morti furono seppelliti tutti assieme. Soltanto dopo alcuni giorni una squadra di partigiani fu incaricata di disseppellire i martiri per dar loro degna sepoltura. I corpi furono ripuliti ed adagiati nelle casse mortuarie per essere trasportati al cimitero di Chiesanuova, dove il 12 settembre 1944 la popolazione rese loro l’ultimo saluto.

Nel corso degli anni non si è mai giunti a condannare i responsabili dell’eccidio di Figline, anche se le prime ricerche erano state intraprese già nell’autunno del 1944. Di fatto, nei giorni successivi alla liberazione del centro laniero gli alleati cercarono di far luce sui possibili crimini di guerra commessi nella zona, arrivando ben presto a conoscenza del ruolo svolto dal maggiore Laqua. Il processo era quindi ben avviato, ma in poco tempo le indagini si arenarono. Come la maggior parte dei procedimenti penali contro i crimini nazifascisti in Italia anche quello di Figline fu gettato nel tristemente noto armadio della vergogna, dal quale riemerse solo nel 1994. A quel punto, nonostante tempestive ed efficaci ricerche, le informazioni recuperate risultarono inutili e il processo contro Karl Laqua fu definitivamente archiviato il 25 gennaio 2005.