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Sant’Anna di Stazzema: il perché di una strage

Sulla strage di Sant’Anna di Stazzema, come su altre stragi, la memoria è ormai trasmessa in centinaia di testimonianze, a volte rilasciate a decenni dagli eventi. E’ necessario quindi un forte richiamo alla conoscenza storica, come elemento fondamentale di comprensione di quanto avvenuto e di formazione delle giovani generazioni. Partendo dalla domanda più importante: il perché della strage.

La strage di Sant’Anna si inquadra in quella particolare fase della situazione bellica che si apre con l’arretramento dell’esercito tedesco sulla così detta Linea Gotica. In zone di grande rilievo strategico, come i monti a ridosso della Versilia, le Alpi Apuane o la Lunigiana, la presenza di numerose formazioni partigiane, di diverso orientamento (dai garibaldini agli autonomi) rappresentava per i tedeschi un effettivo problema. A partire da luglio 1944 si segnala così una radicalizzazione dell’atteggiamento degli occupanti nei confronti della popolazione civile, accusata, a torto o a ragione, di proteggere la guerra partigiana.

Nella zona arrivò in quei giorni la XVI Divisione Panzer-Grenadier delle SS, comandata dal generale Simon, un fanatico nazista, formata di giovani militari, ma con un nucleo di ufficiali e sottufficiali fortemente ideologizzati e temprati da precedenti esperienze nel sistema concentrazionario nazista, o in operazioni belliche, comprensive di azioni di sterminio di ebrei e di civili, nella Polonia occupata.

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Case incendiate in località Vaccareccia

Il 12 agosto 1944, all’alba, salgono a Sant’Anna di Stazzema gli uomini del II Battaglione del 35° Reggimento. Secondo alcuni testimoni, fra di loro, in divisa tedesca, vi erano anche italiani, fascisti versiliesi che, per non farsi riconoscere, portavano un passamontagna, tuttavia il particolare, rilanciato anche da pubblicazioni recenti, deve essere ancora convincentemente provato sul piano storico. Altri militari, appartenenti ad altre formazioni tedesche, circondano l’area. Arrivati sul posto, tutti coloro che vengono trovati, con poche eccezioni, vengono massacrati: per lo più donne, bambini, anziani. La cifra ufficiale parla di 550 morti, in realtà il numero effettivo è minore, anche se non è stato ancora fatto un serio lavoro di ricerca per accertarlo. La memoria locale si è a lungo divisa sulle cause dell’eccidio: molte le accuse ai partigiani, per non aver difeso la comunità, nonostante rassicurazioni in tal senso date precedentemente.

L’eccidio di Sant’Anna si inserisce all’interno di un ciclo operativo di “lotta alle bande” che inizia ai primi di agosto, colpendo con violenze e stragi vari territori del pisano, continua in Versilia, investe quindi, dopo Sant’Anna di Stazzema, le Apuane, per poi proseguire, al di là dell’Appennino, nella “grande” operazione di Monte Sole, contro le popolazioni di tre comuni, Marzabotto, Grizzana e Monzuno, nella quale dal 29 settembre al 5 ottobre, furono uccise circa 770 persone. In questo contesto operativo, la strage di Sant’Anna di Stazzema riacquista il suo tragico significato: si tratta di operazioni sulla carta rivolte contro i partigiani, che si configurano in realtà come azioni terroristiche di ripulitura del territorio, veri e propri massacri di tutti coloro che venivano trovati all’interno dell’area delimitata come quella da “bonificare”, a priori considerati “partigiani”, il cui sterminio, anche se neonati o anziani infermi, era programmato prima della strage.

Girotondo bambini piazza chiesa rid 400 a tagliatoMa proprio questo carattere programmatico, considerato provato dal Tribunale Militare di La Spezia nel 2005 (con sentenza confermata in Cassazione), è stato messo in discussione dalla Procura di Stoccarda (Baden-Württemberg) che nell’ottobre 2012 ha chiesto l’archiviazione del procedimento penale a carico delle SS indagate (alcune delle quali condannate all’ergastolo in maniera definitiva in Italia). Il procuratore tedesco ha ritenuto che non si potesse provare il carattere predeterminato dello sterminio dei civili, che invece i giudici di La Spezia hanno argomentato nella loro sentenza, accogliendo l’impostazione del procuratore italiano Marco de Paolis che, recependo anche l’esito delle più recenti approfondite indagini storiografiche, ha sostenuto che “la partecipazione con un significativo incarico di comando alle operazioni militari che determinarono come effetto finale il massacro di centinaia di persone civili non belligeranti, integra gli estremi di un consapevole concorso alla realizzazione del reato”. Secondo la procura di Stoccarda, invece, questa pianificazione della strage non può essere provata e, nella affermata impossibilità di individuare, a distanza di quasi settanta anni, il ruolo avuto da ciascuno dei singoli imputati, ne ha richiesto il non rinvio a giudizio. Attualmente è ancora pendente il ricorso di Enrico Pieri, uno dei sopravvissuti, presso la Corte d’Appello di Karlsruhe, contro tale archiviazione (confermata invece dalla Procura generale dello Stato).

Il carattere e la consistenza delle argomentazioni riportate nel provvedimento di archiviazione lasciano più che perplessi proprio sul terreno della ricostruzione storica, e dimostrano come in questi casi di giustizia tardiva solo la ricerca storiografica, condotta ovviamente con onestà e rispetto della verità fattuale che è possibile definire in base alla documentazione disponibile, possa sostituirsi ad una verità giudiziaria sempre più difficile da ottenersi, a settanta anni dal massacro.




Le mobilitazioni operaie in Toscana del 1969

Ricordare il ’69 operaio, o autunno caldo, a 50 anni dal suo svolgimento, non è una questione semplice. Prima di tutto perché si tratta di un anniversario che definire passato “in sordina” rende poco e male la situazione. Secondo perché se c’è un aspetto del presente che dimostra come la teoria delle “magnifiche sorti e progressive” sia una colossale sciocchezza, è proprio il settore del lavoro. Basta gettare uno sguardo sulle nuove precarietà, da quella dei braccianti impiegati nel nostro sud nella raccolta delle arance o dei pomodori, a quella dei rider che ci consegnano il cibo a domicilio, o a quella delle donne italiane e straniere che accudiscono i nostri anziani, o ancora ai lavoratori delle partite Iva, per capire che quel ciclo di mobilitazione che aprì speranze, realizzò diritti, spinse la società tutta intera in avanti, è lontano anni luce da questo presente che ci circonda.

Ricordare poi la mobilitazione operaia da un punto di osservazione come quello della Toscana è una complessità in più. Non c’era e non c’è in questo territorio una concentrazione operaia simile a quella delle fabbriche del nord, in primis Fiat. Anche i grandi stabilimenti, come il siderurgico di Piombino o il metalmeccanico Piaggio di Pontedera non sono mai arrivati ad avere quei numeri di addetti, né quella rilevanza nazionale. Né abbiamo avuto concentrazioni così massicce nel settore del tessile-abbigliamento, della conceria, o dell’industria energetica o cantieristica. Di sicuro, però, la fine degli anni Settanta vedeva l’attività industriale toscana ancora in primo piano sotto tutti i punti di vista. Per addetti, per fatturato, per diffusione territoriale. E sicuramenti negli stabilimenti di Santa Croce sull’Arno, così come all’Italsider di Piombino, o nei Cantieri Orlando di Livorno, alla Lebole di Arezzo, così come nelle altre centinaia di aggregazioni industriali diffuse nella regione, il ’69 ci fu, portò trasformazioni e impresse mutazioni sia con i risultati contrattuali diffusi, sia con il cambiamento di linguaggio, delle strategie di alleanza, delle modalità conflittuali. Pensiamo ad esempio, alla mobilitazione interna ai reparti, a gatto selvaggio, o a singhiozzo, di cui tutte le testimonianze rivendicano la paternità.

Queste memorie raccontate con orgoglio, non sono di per sé né false, né vere. Ogni luogo di produzione cercò, in quell’autunno lontano, di darsi anche delle soluzioni originali, di inventarsi una strategia capace di generare alleanze, e non solo quelle con gli altri lavoratori, ma anche quelle con settori ritenuti tradizionalmente più lontani, come quella tra i cattolici della piana di Pontedera e i lavoratori della Piaggio.[1]

Ci furono mobilitazioni assai significative nel settore, amplissimo, del lavoro a domicilio, che portarono a risultati interessanti, ci furono battaglie per la salute nei posti di lavoro, salute che non riguardava solo gli addetti ma tutti gli abitanti del comprensorio coinvolto, come nelle zone del cuoio di Santa Croce e Ponte a Egola.

La difficoltà di ragionare sulle lotte del ’69 da un luogo come la Toscana è legata anche alla miopia della storiografia italiana che ha concentrato tutta la sua attenzione sulla Fiat e su Torino con qualche incursione verso Milano e poco altro.

Manifestazione primi anni Settanta, Lebole, Arezzo (fondo: Repek)

Manifestazione primi anni Settanta, Lebole, Arezzo (fondo: Repek)

Come scrivevo alcuni anni fa: “Eppure studi, anche approfonditi, su altre realtà non sono mancati. Ma non si capisce se per pigrizia, o per una coazione a ripetere, si torna sempre lì. Eppure tutti noi che ci occupiamo o ci siamo occupati di storia del movimento operaio, siamo tutti consapevoli che l’Italia, l’Italia operaia, quella che lottava e costruiva quegli anni straordinari di lotte e di rivendicazioni realizzate, si concretizzava a Torino ma anche a Piombino, a Gioia Tauro ma anche a Marghera, nelle fabbriche di Santa Croce in Toscana, così come nei calzaturifici delle Marche, alla Max Mara dell’Emilia così come alla Lebole di Arezzo e in cento altre località, in parte uguali ma in parte anche profondamente diverse dal grande agglomerato piemontese.”[2]

Di sicuro poi occorrerebbe tornare indietro, all’anno degli studenti, il ’68, e poi alle lotte per le pensioni, come insegnava Bruno Trentin,[3] per capire in profondità l’argomento di cui ci dobbiamo occupare. E ricordare che con l’ingresso degli operai sulla scena pubblica, il sindacato “..recuperò… fra gli studenti medi e quelli degli istituti tecnici; o fra gli ‘studenti-lavoratori’, i quali, in molte realtà, come in Piemonte, diventarono attori a pieno titolo della lotta sindacale.”[4] Sempre seguendo il ragionamento di uno dei più grandi leader storici del sindacalismo confederale, si può sostenere che il sindacato riuscì, a differenza dei partiti storici della sinistra, a dialogare e anche a farsi permeare dalla cultura proveniente dal mondo giovanile. E come dichiarò lo stesso dirigente: “..non fu una passeggiata”.[5]

Ma torniamo alle realizzazioni più significative e più connotanti il territorio della nostra regione, trascurandone altre, non perché poco importanti ma perché stanno dentro un quadro di relazioni sindacali e industriali di livello nazionale ed oltre. Penso ad esempio alla mobilitazione dell’Acciaierie di Piombino all’interno del gruppo delle Partecipazioni Statali e dentro il quadro conflittuale diretto dal sindacato metalmeccanico, il più importante di quegli anni.

Spesso i risultati migliori si ebbero nei luoghi non deputati in senso tradizionale del lavoro operaio ma nel settore dei servizi. Pensiamo a quello che accadde nel settore dell’assistenza psichiatrica, dove, alla “fabbrica dei matti” come chiamavano a Volterra il manicomio, si sostituì l’assistenza domiciliare. Con la chiusura di quel centro di reclusione, si sovvertirono le tradizioni culturali che fino a quel momento avevano governato quel luogo oltre a realizzare una profonda conversione dell’organizzazione del lavoro di assistenza.

La vicenda della chiusura dell’ospedale psichiatrico di Volterra era stata resa possibile anche dalla nascita del sindacato degli ospedalieri che nella provincia pisana diventò subito fortemente significativo a causa del peso che aveva, ed ha, il polo ospedaliero di Santa Chiara insieme a quello di Cisanello e alla stessa facoltà di Medicina, come punto di riferimento non solo regionale.[6]

C’è un episodio, piccolo in sé ma altamente significativo, per il forte valore simbolico, quando nel ’69, un malato psichiatrico derubato da un infermiere, venne risarcito e il responsabile fu sospeso per un mese dal lavoro senza assegno.[7]  Si cominciava a respirare un’altra atmosfera. Il dibattito sulla riforma della psichiatria si era allargato da Trieste a Gorizia, a Arezzo, a Lucca fino a Volterra, la città dell’alabastro e dei matti. Quella battaglia che non fu solo operaia, sindacale, ma fu anche culturale e politica, che si scontrò anche con consolidati atteggiamenti di chiusura verso qualsiasi forma di “diversità”, cominciò negli anni Sessanta e si protrasse per un lungo periodo. Ma la trasformazione del manicomio e la sua chiusura sono successive al ’69. Arrivano infatti due anni dopo, con la battaglia per la riforma Basaglia[8]. Un biennio, in quel caso, non poteva bastare. Dal punto di vista strettamene sindacale la trasformazione si era però intravista già dal ’67 quando c’era stato il superamento della Cisl da parte della Cgil che aveva una maggioranza di iscritti nella manodopera femminile e nei lavoratori manuali.[9] Ricordava Annibale Fanali, psichiatra arrivato a Volterra nel 1971:

 “..a Volterra c’erano due fonti fondamentali di lavoro: l’alabastro e l’ospedale psichiatrico. Io sono entrato nel ’71 e c’erano 1800 ricoverati all’incirca. Questo era un mondo. Non c’erano solo gli infermieri. C’erano quelli della cucina, gli operai. C’erano le aziende agricole perché c’erano dei reparti dislocati nella campagna. Quindi era un mondo…. La contraddizione grossa di Volterra rispetto ad altre esperienze era che qui c’era un grande manicomio ed una piccola città, non come Perugia, o anzitutto Trieste.”[10]

E ancora:

“A Volterra tutto girava attorno al manicomio, ma il manicomio era considerato come una fabbrica. I pazienti erano la pietra….. C’era gente dalla Liguria, dalla Sardegna, c’erano anche stranieri: c’era un casino di gente. Gente di tutti i tipi.. Era la legge del 1904, di “cura e custodia”. La custodia era grossa, la cura era piccina. Quando si è detto: ‘facciamo diventare grande la parola cura’, sono nate le contraddizioni. E la città, soprattutto politicamente, è riuscita a metabolizzare.”[11]

 Fu una vicenda che coinvolse e trasformò l’intera città, le sue componenti, sia quelle più aperte che quelle più chiuse, che trasformò nel profondo il senso comune del sentire collettivo nei confronti dei “matti”. Fece crescere tutti, in meglio.  Per quanto è stato possibile verificare, questa è una delle storie più belle e più durature, fino a qui, dell’Italia di quegli anni.

Ma accanto a questa narrazione se ne possono affiancare molte altre, apparentemente minori ma altamente significative come quella che coinvolse le maestranze della Fiat di Marina di Pisa, già dal ’67, l’anno delle Tesi della Sapienza[12], che anticipò il biennio seguente, anche in una fabbrica classica, quella della Fiat di Marina, dove accadde qualcosa di insolito. Ricordava un vecchio sindacalista, isolato in fabbrica e nelle lotte perché iscritto Fiom:

“A Pisa quando si fece il corteo dei licenziati, la gente si allontanava, se ne andava per conto suo. All’opposto, nel 1967, per la prima volta che si riuscì a scioperare dopo dieci anni, si scioperò una mattina di febbraio. Era nevicato. Uscii io insieme a tre o quattro convinti che rimanessero tutti dentro perché tre volte avevo scioperato anche da solo. Difatti quella mattina eravamo in dieci e poi ad un certo momento si sentì il silenzio… Cosa sta succedendo dentro? Comincio’ a sorti’ gli operai. Sortirono tutti e quella fu la più grande soddisfazione perché dopo dieci anni ero riuscito a creare le condizioni per scioperare perché c’ero solo io. Però ero diventato un po’ un esempio. La Fiat non aveva dimostrato una grande intelligenza. Colpiva me.. e lo sapevano che io ero una persona ragionevole, che tenevo legami, che cucivo in continuità, che sopportavo angherie..”[13]

Anche qui c’è l’anticipazione di un anno rispetto alla rottura epocale del ’68. Perché sia il ’68 studentesco che quello operaio sono date simboliche più che periodizzazioni fra un prima e un dopo. Il dopo si è venuto costruendo solo poco alla volta ma i suoi effetti sono stati poi così deflagranti e così sintetici che, correttamente noi rinviamo a quella data e non ad una trasformazione di lunga durata. Perché il tempo e i cambiamenti si concentrarono moltissimo lasciando l’impronta di una accelerazione dirompente. Ma dentro una realtà così differenziata, come quella della Toscana produttiva e della Toscana dei servizi, sia per concentrazioni operaie che per tipologie di lavoro, ci furono anche settori dove il ’69 operaio entrò pochissimo e anzi cominciò, proprio a partire da quell’anno, una stagione di licenziamenti e sconfitte. Come fu per il caso della Marzotto di Pisa. Una fabbrica con una schiacciante presenza di manodopera femminile, gestita con piglio patriarcale e con l’ausilio delle suore che si occupavano della formazione delle rammendatrici in un clima di intimidazione durissima e di violenza discriminatoria spaventosa. Dove si realizzò una vicenda opposta a quella di Valdagno. Quando arriva il ’69 la Marzotto di Pisa aveva già perso oltre 600 addette anche se vi lavoravano ancora 850 addetti, si respirava un’aria di dismissione. Si giunse al 7 giugno 1968 quando la direzione annunciò la chiusura dello stabilimento. Cominciò una gara di solidarietà attorno alla fabbrica ma alla fine, dopo decine di manifestazioni, di sit-in davanti ai cancelli, di iniziative politiche e sindacali, Marzotto uscì di scena e gli subentrò un’altra proprietà. Era il 24 gennaio 1969. Il nuovo proprietario riprese circa la metà delle vecchie maestranze. Di sicuro, per quell’insediamento industriale, l’autunno di quell’anno non fu molto caldo.[14]

Manifestazione a Lucca, anni '70

Manifestazione a Lucca, anni ’70

In una realtà simile ma non uguale, quella delle confezioni della Lebole, ad Arezzo, le cose andarono assai diversamente. In quel caso la mobilitazione nel biennio ’68-’69 realizzò molti risultati: dalla mensa al sabato libero, dalla riduzione d’orario senza diminuzione di salario, dall’abolizione delle zone salariali al superamento della commissione interna con il riconoscimento del consiglio di fabbrica. Anche qui le maestranze erano quasi per intero femminili e anche qui la loro volontà si incontrò con un tessuto cittadino, sociale e politico solidale.[15] Ma anche qui come ovunque si consumò la contrapposizione tra chi voleva aumenti uguali per tutti, come Vittorio Foa o Emilio Pugno, e chi invece come Bruno Trentin era contrario.[16] Vinsero la battaglia, che fu anche e forse soprattutto culturale, Foa e Pugno.

In una intervista dell’autrice a Foa, il vecchio ex sindacalista diceva:

 “..mi è accaduto di ripensare a tante battaglie egualitarie: parità uomo-donna, parità nord-sud, parità tra operai comuni e operai specializzati, parità operai-impiegati. Sono tutte le battaglie dei primi anni Sessanta e di tutti gli anni Settanta. Tutte queste battaglie possono essere viste come puro tentativo di ‘essere come quell’altro’ oppure essere viste in modo diverso. Cioè come uscita da una condizione di inferiorità generale e come affermazione di me stesso e delle mie possibilità. Cioè come un problema anziché di uguaglianza materiale, di libertà. “[17]

Ma il 1969 fu anche l’anno nel quale la Fiom pubblicò una dispensa in cui veniva illustrato il modello sindacale di “lotta per la salute” che divenne il testo base di riferimento per ogni mobilitazione legata all’ambiente di lavoro.[18] Anche in questo caso la vicenda era cominciata molto prima, in particolare nel 1961 con la costituzione della Commissione medica nella Camera del Lavoro di Torino e grazie ai risultati di lavori di ricerca e di denuncia di Giovanni Berlinguer[19] e di Giulio Alfredo Maccacaro[20].

Nella realtà toscana scegliamo due casi sui quali poter collocare l’attenzione, quello delle concerie di Santa Croce e quello della lavorazione a domicilio delle calzature. Per Santa Croce l’anno 1969 cominciò con la firma di un ottimo accordo contrattuale: aumenti uguali per tutti, contrattazione del premio di produzione, passaggi di categoria per le donne che svolgevano lavori superiori alla loro mansione, comitati e delegati per la prevenzione e la sicurezza in ogni azienda, diritto di assemblea dei lavoratori dentro l’azienda con la presenza dei sindacati. Non erano risultati di poco conto ma il delegato per la prevenzione e la sicurezza fu un risultato che rimase ancora per molto tempo sulla carta.  Dagli inizi del ‘900, da quelle parti era stata fatta l’abitudine al cattivo odore e a condizioni di lavoro durissime che tuttavia assicuravano a tutti una relativa pace sociale e un buon ritorno economico. Il problema “ambiente e salute” a Santa Croce emerse con grande ritardo grazie alla denuncia prima di “Paese Sera” nel 1974, e poi con l’”Espresso” con un’inchiesta di Sergio Saviane nel 1978.  Fino a lì, da quelle parti la parola d’ordine: “la salute non si vende” non aveva trovato diritto di cittadinanza.[21]

“Il Grande Vetro” scriveva: “Per la sete di guadagno tutti si erano improvvisati conciari, anche dentro le cascine di campagna.”[22] Occorre comunque riconoscere che, anche se in ritardo, la situazione fu poi gestita con la collaborazione delle istituzioni, degli imprenditori e dei sindacati, e a tutt’oggi si sperimentano di continuo soluzioni concertate per migliorare l’organizzazione del lavoro e l’ambiente.[23]

Discorso simile ma non uguale quello è che possiamo fare per le lavoranti a domicilio. E per questo settore mi permetto di rinviare ad un mio saggio[24] da quale si evince la frammentarietà del problema, la compresenza al suo interno di modernità e di arcaismo, di spinte alla conservazione e di spinte al rinnovamento, spesso però non inteso in senso tradizionale. Per realizzare l’importanza di questo segmento vale la pena ricordare che ancora agli inizi degli anni Settanta il settore coinvolgeva oltre 1.600.000 addetti.[25]

Un settore di sicuro importante per quantità di prodotto e per reddito ma poco compreso dalle stesse organizzazioni sindacali che puntando tutta la battaglia per l’ingresso in fabbrica delle lavoranti, alla fine ottennero solo il risultato di costringere le medesime a diventare, ob torto, delle artigiane con partita iva. Soprattutto per un settore delicato e importante nell’economia toscana come quello dell’aggiuntatura delle scarpe. Un settore dove la femminilizzazione della manodopera era pressoché totale. E dove giocava un ruolo attivo la convivenza con la famiglia d’origine e soprattutto avere una stanza da adibire a laboratorio, come ricordava una testimone da me intervistata, Patrizia Cerri:

“E meno male che avevo questa stanza! Te pensa chi lavorava in un ambiente così, che poi ci doveva mangiare, che sul tavolo ci doveva lavorare e poi sparecchia’ tutto, e poi ci doveva mangiare. Pensa un po’ te!”[26]

In quelle condizioni la battaglia più importante fu quella di dare visibilità a queste lavoratrici. Ma quando accadeva che queste lavoratrici emergessero era sempre per pochi giorni, su una pagina di giornale e niente più, come accadde nel 1973 a Cascina in una Conferenza provinciale.[27]

Ed in questo settore, quando, dopo un accordo raggiunto proprio nel ’69 con il quale si ottenne che il lavoro venisse portato a domicilio alle lavoranti, la situazione peggiorò perché:

Questo fatto crea divisione tra le donne. Ognuna sta a casa sua e vede poca gente: il portantino ti impaurisce e minaccia di non portarti più il lavoro.[28]

 Se il ’69 fu l’anno degli operai, fu molto meno quello delle operaie. Come scrivevo nello stesso saggio:

“Le donne impegnate nel lavoro a domicilio lavorano sole, dentro una cornice familiare e di relazioni che resta uguale nel tempo, a parte i mutamenti naturali che subiscono pure loro, come l’invecchiamento.”[29]

Anche in quel contesto, quello di quegli anni così vivaci sul piano delle rivendicazioni e dei risultati contrattuali, non riuscirono ad attivare azioni di difesa collettiva perché come ha scritto Christophe Dejours:

lavorare non è solo avere un’attività, ma è anche vivere; vivere il rapporto con la costrizione, vivere insieme, affrontare la resistenza opposta del reale, costruire il senso del lavoro, della situazione e della sofferenza.[30]

Se poi passiamo a guardare il discorso sulla tutela della salute, proprio nel 1969, Luigi Frey analizzò il caso di San Giovanni in Persiceto e il quadro ottenuto (era una zona di lavoro a domicilio delle confezioni) fu sconfortante. Disturbi alla funzionalità epatica, ai muscoli, alla vista. Risultati pubblicati poi alcuni anni dopo[31] Nel calzaturiero la situazione era anche peggiore perché a causa dei “mastici forti” le lavoranti si potevano prendere malattie terribili come la nevrite e arrivare alla morte. Ma praticamente nessuno se ne accorgeva e fino a che certe sostanze non furono escluse per legge, il controllo ricadeva sulle loro spalle e la loro sorte era spesso solo un fatto di fortuna.

Sicuramente il settore del lavoro a domicilio era il più fragile dell’intero settore produttivo nazionale e pertanto aveva ragione Trentin a scrivere:

 “Si comprende… come nella memoria politica della maggior parte dei gruppi dirigenti della sinistra, non sia rimasta traccia degli obiettivi e dei risultati più significativi delle lotte dell’autunno caldo’, come il controllo sulla salute e le condizioni di lavoro, la conquista di nuovi diritti individuali e collettivi, il diritto all’assemblea. E come sia rimasto soltanto il ricordo di una grande lotta salariale, forse eccessiva nei suoi obiettivi e nei suoi risultati. Si comprende come, con tali lenti da miopi, alcuni si siano dilettati a irridere l’obbiettivo di conseguire un nuovo modo di lavorare e, perché no? un ‘nuovo modo di fare l’automobile’ superando le catene di montaggio. Mentre altri, come il gruppo parlamentare comunista, non ebbero alcuna reticenza ad astenersi nella votazione dello Statuto dei lavoratori”…… E come, nel momento più aspro della lotta dei metalmeccanici per il diritto di informazione sui piani di investimento delle grandi imprese e per una svolta delle politiche industriali delle aziende di Stato, in direzione del Mezzogiorno, una parte rilevante del gruppo dirigente del Pci cercherà di scongiurare ‘l’avventura’ dei sindacati a Reggio Calabria. E si schiererà, senza esitare a sostegno delle ragioni delle baronie che dominavano l’Iri e si opponevano strenuamente a discutere con i sindacati, alla luce del giorno, i loro programmi di investimenti e le ragioni degli sperperi inauditi che il loro clientelismo e la loro incompetenza avevano accumulato.”[32]

Possono sembrare amare considerazioni ma forse ci possono essere utili anche per capire i ritardi attuali della politica e la debolezza dei partiti storici della sinistra. E come anche il sindacato non gode proprio di un’ottima salute.

[1] Catia Sonetti, Dentro la mutazione. La complessità delle storie del sindacato in provincia di Pisa, Einaudi, Torino, 2006, p.67.

[2] C. Sonetti, Sì anche il diritto di suonare il clavicembalo! Intervento dattiloscritto presentato al Convegno di Firenze sui due bienni rossi nel 1998.

[3] Bruno Trentin, Autunno caldo. Il secondo biennio rosso 1968-1969.Intervista di Guido Liguori, Editori Riuniti, Roma, 1999, p. 79.

[4] Ibidem, p. 97.

[5] Ibidem, p.114

[6] C. Sonetti, La rottura: lavoro e società nella provincia di Pisa, 1960-1980, in La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980). Storia di un caso, a cura di Gigliola Dinucci, Ets, Pisa, 2006, pp.483-484.

[7] Ibidem, p. 525.

[8] Cfr. John Foot, La “Repubblica dei matti”: Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 19611968, Feltrinelli, Milano, 2014; Vinzia Fiorino (a cura di), Rivoltare il mondo, abolire la miseria. Un itinerario dentro l’utopia di Franco Basaglia, Ets, Pisa, 1994.

[9] Ibidem, p, 526.

[10] C. Sonetti, Dentro la mutazione… cit., p. 128.

[11] Ibidem, pp. 134-135.

[12] Cfr., Luciano Ghelli, ’68 e dintorni. Il movimento, gli operai, il Pci e i gruppi a Pisa dalle tesi della Sapienza alla giunta Lazzeri, Edizioni Progetto, Ponsacco, 1988.

[13] Ibidem, p. 32.

[14] C. Sonetti, Dentro la mutazione..cit., p 44.

[15] Claudio Repek, La confezione di un sogno. La storia delle donne della Lebole, Ediesse, Roma, 2003.

[16] Aris Accornero, La parabola del sindacato. Ascesa e declino di una cultura, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 30.

[17] C. Sonetti, La rottura: lavoro e società nella provincia di Pisa. 1960-1980 in, La Camera del Lavoro di Pisa (1896-1980), a cura di Gigliola Dinucci, Ets, Pisa, 2006, p. 490.

[18] Patrizio Tonelli, “La salute non si vende”. Ambiente di lavoro e lotte di fabbrica tra anni ’60 e ’70, in I due bienni rossi del Novecento 1919-1920 e 1968-1969. Studi e interpretazioni a confronto,  Ediesse, Roma, 2006, p.345.

[19] Giovanni Berlinguer, Medicina e politica, De Donato, Bari, 1973.

[20] Giulio Alfredo Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, 1979.

[21] Cfr, anche “Il Grande Vetro”,  n.9, anno 2, settembre 1978.

[22] C. Sonetti, La rottura.. cit., p. 532

[23] Vd. la trasmissione di Rai3, Leonardo del 6 maggio 2019.

[24] C. Sonetti, Il lavoro nascosto. Lavoranti a domicilio nella seconda metà del Novecento, in Fuori dall’ombra. Studi di storia delle donne nella provincia di Pisa (secoli XIX e XX), Plus university press, Pisa, 2006, pp.371-416.

[25] Sebastiano Brusco, Prime note per uno studio del lavoro a domicilio in Italia, in “Inchiesta”, III, 10, (1973), riproposto poi in, Decentramento, costi di produzione, e condizione operaia nel settore della maglieria, in Piccole imprese e distretti industriali. Una raccolta di saggi, Il Mulino, Bologna, 1989.

[26] C. Sonetti, Il lavoro nascosto… cit., p 387.

[27] Ibidem, p. 394.

[28] Ibidem, p. 401.

[29] Ibidem, p. 401.

[30] Christophe Dejours, L’ingranaggio siamo noi. La sofferenza economica nella vita di ogni giorno, Il Saggiatore, Milano, 2000, p. 146, citato in C. Sonetti, Il lavoro nascosto…. p. 401.

[31] Cfr., Lavoro a domicilio e decentramento produttivo nei settori tessili e dell’abbigliamento in Italia, a cura di Luigi Frey

[32] B. Trentin, Autunno caldo.., cit., p. 130.




2/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

* La prima parte di questo articolo è pubblicata alla pagina QUI

A metà decennio irruppe il femminismo a sconvolgere mentalità, prassi, perfino modalità dei rapporti personali, che sembravano consolidati tra i militanti. Un gruppo forte, a livello nazionale, come Lotta continua ne fu colpito in profondità, tanto da mettere in discussione la propria stessa continuità organizzativa. Sicuramente il femminismo fu uno dei motivi, insieme ad altri ovviamente, che la condusse infine a proclamare a maggioranza l’auto-scioglimento. La storia del femminismo a Grosseto è stata in parte già scritta: ci fu una fase all’interno dell’UDI, quindi la costituzione di un collettivo autonomo che condusse agitazioni e esperienze che derivavano da una cultura antica, ma completamente rinnovata dall’attivismo delle nuove generazioni. Tutte le compagne delle organizzazioni della nuova sinistra, qualcuna anche del PCI [1], fecero parte del collettivo femminista, senza tuttavia lasciare, generalmente, la precedente militanza, che pure generava non di rado opposizione e contrasto.

Più avanti, si diffuse inoltre una nuova consapevolezza ambientalista, che ebbe modo di manifestarsi in occasione delle proteste contro la centrale nucleare di Montalto di Castro (1977/1978), rispetto alle quali la Federazione Giovanile Comunista (FGCI) rimase ancora una volta spiazzata, ma anche la cosiddetta “nuova sinistra” fu costretta a un faticoso inseguimento.

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Grosseto, manifestazione nazionale del 17 dicembre 1977 in solidarietà a una donna licenziata per tentato aborto

Si trattava pur sempre di organizzazioni giovanili, che si trovarono tuttavia a affrontare impegni e problematiche che solo qualche anno prima sarebbero state per loro inimmaginabili. Mi riferisco anche alle scadenze elettorali. Non tanto i referendum, che richiesero comunque campagne elettorali defatiganti, quanto piuttosto le elezioni amministrative del 1975 e le politiche del 1976, per le quali fu necessario stabilire alleanze, operare mediazioni, individuare strategie. In particolare, nel 1976 fu costituito un cartello tra le forze esterne al PCI, con la denominazione Democrazia proletaria, che ottenne scarso successo. Subito dopo si avviò un processo di unificazione che localmente coinvolse PDUP e Lega dei comunisti (a livello nazionale anche Avanguardia operaia) e mantenne il nome di Democrazia proletaria, da cui si tenne fuori la componente PDUP proveniente dal Manifesto. Questi processi comportarono spostamenti delle sedi: fenomeno di una certa importanza se si considera che in tutti questi anni le sedi dei gruppi a sinistra del PCI vennero a trovarsi casualmente tutte entro una zona tutto sommato ristretta del centro storico cittadino. Altrettanto casualmente uno dei principali punti di ritrovo in questa zona era un bar (in seguito rilevato da alcuni militanti dell’ex Manifesto) frequentato da vecchi comunisti, talvolta nostalgici stalinisti, in ogni caso poco propensi a seguire il loro partito sulla linea del “compromesso” con la Democrazia cristiana. Il quartiere ne ricevette inevitabilmente per qualche anno una ben definita caratterizzazione. Infine Democrazia proletaria mantenne un’unica sede in via dell’Unione.

Non possono rimanere fuori da questa carrellata, necessariamente sommaria e volutamente soltanto indicativa, due questioni che sopra ho associato a narrazioni semplificatorie e fuorvianti: la presunta fascinazione della lotta armata e l’uso crescente di droghe tra i giovani.

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Maratona del Collettivo femminista grossetano per la riapertura del consultorio, 1977

Riguardo alla prima, si può affermare che essa non ebbe a Grosseto alcuno spazio. La presenza rimasta comunque maggioritaria del PCI e l’influenza che il partito mantenne anche tra i giovani tramite la FGCI contribuirono sicuramente, nonostante i dissensi che continuarono a attraversare la base del partito circa la strategia del “compromesso storico”, a tenere lontana ogni influenza dei gruppi terroristici, ribadendo l’irrinunciabilità dell’opzione democratica e costituzionale.  Non si deve tuttavia trascurare il contributo che dette in questo la Lega dei comunisti, che fin dall’inizio della sua attività fece muro contro ogni possibile simpatia verso gruppi del tipo Potere operaio (di Roma, Padova, Firenze: tutt’altra cosa dal Potere operaio pisano ormai da tempo disciolto), che teorizzavano la maturità dell’opzione rivoluzionaria, rimanendo tuttavia sostanzialmente isolati rispetto alle organizzazioni maggiori. L’idea che la “rivoluzione” dovesse avere per protagoniste le masse popolari escludeva, per la parte largamente maggioria del movimento,  ogni scorciatoia terroristica e faceva dei gruppi armati nient’altro che avversari da sconfiggere; così come avversari politici furono, dopo il 1977 (non certo a Grosseto dove non furono presenti se non per qualche isolata simpatia), i gruppi di Autonomia operaia, i quali, pur limitandosi per lo più a inneggiare alla lotta armata senza praticarla, costituirono certamente un terreno di reclutamento per il terrorismo. Se qualche sbandamento può esservi stato negli altri gruppi della sinistra grossetana, non vi furono ripercussioni nelle aree giovanili. Così come non ebbe alcuna ripercussione il fatto che uno degli avvocati nei primi processi contro le B.R. fosse un insegnante di un istituto superiore grossetano e neppure il fatto che uno dei membri del “nucleo storico” delle B.R. avesse vissuto fino al 1968, a Nomadelfia, a due passi dalla città (ovviamente la sua conversione terroristica fu successiva). È la dimostrazione, sia pure nella limitatezza di un’esperienza marginale, che la logica del movimento politico di massa, qual era quello che derivava dal Sessantotto, niente aveva a che fare con la logica delle “avanguardie armate”, autoproclamatesi tali in virtù di elucubrazioni teoriche da esse sole condivise. Non c’è dubbio che la vicenda di Aldo Moro, la stessa tragica discussione tra la “linea della fermezza” e la “linea della trattativa”, costituì per tutti i militanti, sia della sinistra tradizionale che della nuova sinistra, un motivo di riflessione sul valore e, insieme, sulla fragilità dell’ordinamento democratico.

Primavera 1979. Donne del "collettivo": una festa

Primavera 1979. Donne del “collettivo”: una festa

La questione “droga” fu più complessa. C’era stata fin dall’inizio, da parte di tutta la sinistra, un’ampia disponibilità nei confronti dei nuovi modi di vita che si diffondevano tra i giovani, trasmessi in gran parte tramite la musica e lo spettacolo. In seguito alcuni militanti furono coinvolti nell’organizzazione di eventi artistici (Dario Fo, molti cantautori e gruppi rock), fino a fare di questo più tardi la propria professione. Fu aperta anche una radio “libera”, che fu un’iniziativa di rilievo promossa da Lotta continua. Tutti sintomi di un’attenzione e non di rado di una condivisione delle istanze “libertarie” che, come si è visto, erano state all’origine del movimento e che pertanto erano presenti, in diversa misura, in tutte le sue componenti. Non era un mistero che questi nuovi modi di vivere, improntati al superamento di restrizioni e tabù che avevano invece dominato le generazioni precedenti, facilitassero e talvolta perfino implicassero il consumo di droghe; consumo che intanto andava sempre più estendendosi. Si sapeva d’altra parte che la diffusione di ogni genere di droga era stato uno dei fattori decisivi che aveva portato alla dissoluzione, già alla fine degli anni sessanta, del movimento giovanile americano, che pure era stato tanto potente da innescare su scala planetaria la protesta contro la guerra del Vietnam. La FGCI seguì l’azione parlamentare del partito, orientata verso una moderata depenalizzazione. Altri gruppi, nel nome della spontaneità più spinta, accettarono i primi morti per overdose come una fatalità inevitabile. Altri, di fronte a una situazione ogni giorno più grave, posero una netta distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti, finendo a volte per attribuire il passaggio dalle une alle altre, che qualcuno, al contrario, dava per ineluttabile, a complotti orditi dal “nemico di classe”, o, meno irrealisticamente, da qualche organizzazione criminale. La Lega dei comunisti, che sempre ebbe una posizione anti-proibizionista, mantenne invece all’interno, nei confronti dei propri militanti, una forte rigidità, prevedendo -e in qualche caso- mettendo in atto, l’espulsione dall’organizzazione.

La differenza tra questi modi diversi di affrontare la questione si manifestò nel corso di una conferenza del sociologo Blumir, tenuta nella sede del PDUP e promossa da alcuni elementi di quel gruppo (ex Manifesto). Da una parte ci fu chi indicò nel consumo di droghe leggere un tratto, se non il tratto, caratterizzante del processo rivoluzionario in atto, in grado di coinvolgere e convincere a uno stile di vita “libertario”, pacificato e pacificante perfino quanti si dichiaravano fascisti. Dall’altra parte c’era chi riproponeva la visione classica della rivoluzione, che avrebbe dovuto risolversi non tanto in un mutamento degli stili di vita, riguardo a cui le preferenze potevano essere oltre tutto le più varie, ma in un rovesciamento dei rapporti economici e politici tra le classi sociali, rispetto a cui qualsiasi “oppiacea” distrazione, perpetrata per di più a vantaggio di un mercato internazionale della merce-droga gestito secondo logiche capitalistiche e imperialistiche, non poteva che fare il gioco dell’avversario. Senza contare che si stava imponendo a livello giovanile un antifascismo militante che era l’opposto di qualsiasi fumosa pacificazione e consisteva piuttosto in scontri aspri, talvolta in violenti tafferugli, davanti alle scuole e nelle vie della città (da ricordare un intervento piuttosto clamoroso al comizio di un esponente di estrema destra durante la campagna elettorale del 1975).

Non ha senso probabilmente stabilire oggi chi avesse ragione, ma forse ha senso capire meglio le ragioni degli uni e degli altri, in un periodo in cui le morti per overdose (in seguito si sarebbe aggiunta la diffusione del virus HIV) stavano decimando una generazione. Credo che sia consentito a chi allora sostenne la seconda delle due posizioni rilevare come l’impegno politico collettivo richiesto a giovani militanti, il confronto quotidiano con i problemi degli studenti, dei lavoratori, delle donne, degli abitanti dei quartieri periferici, lo stesso antifascismo militante, possano aver contrastato la possibilità, purtroppo incombente, di essere risucchiati nel gorgo della tossicodipendenza. Come anche ricordare che alcuni di quei giovani iniziarono proprio in quegli anni un impegno anche professionale nei servizi psichiatrici, acquisendo una diversa responsabilità personale, oltre che una più ampia competenza, nei confronti della malattia e del disagio mentale, che condusse anche a una più profonda comprensione e com-passione verso chi si trovò coinvolto in quel tragico fenomeno sociale.

Mi accorgo di aver perso nella narrazione un filo che invece sarebbe stato da seguire: quello dei giovani fascisti. Non so indicare una documentazione significativa al riguardo, a parte la cronaca locale sulla stampa. L’impressione che ho è che il MSI locale abbia sempre avuto uno stretto controllo sulla sua organizzazione giovanile e abbia quindi tenuto lontane eventuali influenze da parte di organizzazioni apertamente eversive che pure operarono largamente in Italia, godendo, come si sa, di garanzie e protezioni. Lo confermerebbe la presenza documentata di picchiatori grossetani a fianco di Almirante a Roma in un momento in cui il MSI si trovò in forte tensione non solo con il movimento studentesco di sinistra, ma anche con l’organizzazione neo-fascista Avanguardia nazionale [2]. D’altra parte, sembra che non vi sia stato alcun coinvolgimento di organizzazioni grossetane nella vicenda del “golpe Borghese”, benché vi abbiano preso parte, con ruoli di rilievo, alcuni repubblichini locali [3]. Meriterebbe piuttosto indagare le ripercussioni che sicuramente vi furono in quegli ambienti in seguito alla tragica e un po’ misteriosa scomparsa, all’inizio degli anni settanta, di un dirigente che contava qualcosa anche a livello nazionale.

Il fatto è che quei giovani fascisti arrivarono anni dopo, quando ormai non erano più tanto giovani, a conquistare l’amministrazione comunale, governando per anni la vita cittadina insieme a Forza Italia. Quando invece i gruppi della sinistra esterni al PCI non lasciarono tracce, neppure individuali, nella politica e nell’amministrazione locali [4]. Come è potuto accadere? Questa è una delle domande a cui varrebbe la pena tentare di rispondere; forse anche da qui potrebbe aprirsi qualche spiraglio di comprensione sugli anni più recenti, fino a quelli che stiamo ora vivendo.

NOTE:

[1] Fra queste deve essere ricordata Miranda Salvadori, che rappresentò un riferimento importante per le prime femministe.

[2] Mi riferisco agli avvenimenti (16 marzo 1968) successivi alla “Battaglia di Valle Giulia” (1° marzo 1968). Giulio Caradonna, che era presente, riferì dell’intervento di “minatori di Grosseto” (https://forum.termometropolitico.it/564095-il-68-nero-almirante-guido-gli-scontri-all-universita.html). Devono avergli fatto credere che Giovanni Ciaramella, noto repubblichino già condannato nel “processone” del 1946 contro i gerarchi e militi della RSI, riconoscibile nelle foto accanto a Almirante, fosse un minatore in pensione. Anche se non si può escludere che due o tre autentici minatori di Gavorrano o Niccioleta ci siano davvero stati, reclutati magari da qualche caposervizio della Montecatini che non sarebbe difficile identificare.

[3] Se ne trova qualche eco in un libro recente che ha avuto notevole successo: Teresa Ciabatti, La più amata, Mondadori, Milano 2017

[4] Un’analisi diversa dovrebbe essere fatta per i comuni diversi dal capoluogo.




1/2 – Per una storia dei movimenti giovanili a Grosseto tra gli anni Sessanta e Settanta (*)

È possibile scrivere la storia dei movimenti giovanili di cinquant’anni fa?

Ma, prima ancora: ne vale la pena?

C’è da chiedersi infatti se ripensare “quel” passato in termini storici non sia una perdita di tempo; o, peggio, se non significhi distogliere gli occhi da ciò che ci accade intorno e quindi rassegnarsi all’incapacità di affrontare i problemi che sarebbe urgente invece risolvere qui e ora. Si deve ammettere che, almeno a prima vista, la vita attuale ha poco a che vedere con vicende vecchie di mezzo secolo: sarebbe certamente patetico appassionarsi alle polemiche che attraversarono allora il movimento studentesco o tornare a scaldarsi per le divergenze strategiche all’interno del PCI in vista del “compromesso storico”. C’è chi sostiene, del resto, che ben difficilmente la storia sia di qualche utilità nelle vicende attuali; figuriamoci, verrebbe da aggiungere, la storia locale: per di più di una piccola città, come Grosseto, ai margini perfino della “provincia” italiana più marginale. Volendo comunque rievocare quegli eventi, non ci si può stupire che si preferisca allora fare a meno della storia e accontentarsi della memoria di qualche testimone, possibilmente disposto al gioco di riconoscersi, da giovane, in qualche vecchia foto.

Non credo però che sia questa, necessariamente, la risposta alla domanda che ho posto: se ne valga la pena. Intanto le ragioni della storia, perfino di “quella” storia, pur così marginale, contrastano anch’esse una rassegnazione: quella di chi rinuncia a comprendere davvero il passato. Si può capire che ciò comporti, in certi casi, il fastidio di riconsiderare anche la propria storia e si tenda perciò a evitarlo, piuttosto che andare a vedere se esista un filo, quantunque tenue, che unisca il passato al presente. Ma se questo filo esiste – e l’indagine storica potrebbe aiutare a trovarlo e a dipanarlo – potremmo anche sperare di capire qualcosa di ciò che sta accadendo oggi. Diversamente, come potremmo pensare di affrontare il presente e provare a immaginare il futuro?

Ci sarebbe poi da sgomberare il campo da immagini false e fuorvianti e anche questo dovrebbe essere il compito della riflessione critica. Non c’è dubbio, che riguardo ai movimenti giovanili degli anni sessanta e settanta – diciamo pure per brevità: riguardo al movimento del Sessantotto – circolino analisi a dir poco approssimative, oltre a mitologie di incerto fondamento. Stando, ad esempio a una “vulgata”, avvalorata anche in ambienti dai quali non ci si aspetterebbe, il frutto immediato e perfino scontato del Sessantotto sarebbe stata la cosiddetta “lotta armata”. Questa lo riassumerebbe tutto e senza residui, restituendocelo come in uno specchio a cui non si può che prestare fede. Insomma ci sarebbe stata in Italia una “guerra civile”, sia pure – aggiunge qualcuno – “a bassa intensità”, nella quale, come era accaduto nella Resistenza, gli schieramenti erano solo due: chiunque avesse una posizione critica nei confronti dello stato, del capitalismo, della cultura dominante e così via non poteva non sentirsi rappresentato dai  “compagni” in armi[1]. Proprio questo, del resto, è ciò che raccontano i reduci di quella “lotta armata”, senza differenza tra irriducibili e pentiti: tutti diventati incredibilmente loquaci e tutti devotamente ascoltati senza eccessiva considerazione per i crimini di cui eventualmente siano stati giudicati colpevoli; quasi fossero, essi e essi soltanto, gli interpreti autentici di quell’epoca. Nessuno che denunci la presunzione e l’arroganza di chi arbitrariamente si assunse allora il compito, e continua ad assumerselo, di parlare a nome dell’intero “movimento”, addirittura, come essi amano dire, di un’intera generazione. Il brigatista, insomma, come evoluzione coerente o addirittura obbligata del “sessantottino”.

Del resto, l’altro “ideal-tipo” di quegli anni sembra non possa essere altri che il tossico.

Roma, febbraio 1968, manifestazione di studenti davanti alla Facolta' di lettere

Roma, febbraio 1968, manifestazione di studenti davanti alla Facoltà di Lettere

Ne consegue l’immagine di una generazione, appunto, affollata da brigatisti rossi e consumatori di droghe più o meno pesanti, con l’aggiunta, a completare il quadro, di qualche terrorista nero e qualche stragista. A chi si salvò, scampando alla morte per overdose o per arma da fuoco, a chi non si arrese alla malattia mentale, a quanti riuscirono a evitare le patrie galere, non sarebbe poi rimasto altro da fare che scomparire “nel privato”; a meno che invece, ma questa è la ripetizione di una storia ancora più vecchia, non abbia trovato il modo di assestarsi su posizioni di potere, rinnegando tutto ciò che fino allora aveva fatto e era stato.

Ecco: a tutto questo credo che si debba reagire, anche in riferimento a una situazione marginale quale quella di Grosseto, proprio con le ragioni e con il metodo della storia. Se ci si limita infatti a rievocazioni fondate su memorie vacillanti e prive di riscontri, buone al più per ritrovi di vecchi amici in vena di nostalgia, si finisce proprio per avallare quelle narrazioni. Operazioni del genere non fanno che sovrapporre alla tragicità di quegli anni una patina folcloristica, per non dire goliardica, comunque provinciale, che impedisce di mettere a fuoco gli avvenimenti e ne ostacola la conoscenza e la comprensione, evitando per di più di fare i conti con abbagli e errori, che ovviamente ci furono, e molti. In tal modo i solchi tra le generazioni, anziché colmarsi, si approfondiscono. Una cosa è certa: le generazioni successive non hanno interesse a malinconie senili vagamente autoassolutorie; hanno il diritto piuttosto di sapere che cosa sia effettivamente successo. È questa una questione di responsabilità, sia del testimone che dello storico[2].

D’altra parte, anche quando si mette in evidenza l’impatto di quel movimento sul costume, sulla morale corrente, sulla stessa mentalità e si sottolinea, giustamente, la sua radicale portata innovativa, che si presentò addirittura come rottura generazionale, si tende a dimenticare che fu anche, e forse soprattutto, un movimento politico, che si propose di incidere sugli equilibri che si erano consolidati – e non solo in Occidente – nel ventennio successivo alla guerra. Dunque anche riguardo ai suoi esiti politici andrebbe storicamente valutato. La possibilità di un giudizio di inadeguatezza o di vera e propria sconfitta non dovrebbe costituire motivo per tacere di quella “politicità”, sempreché, di nuovo, non ci si fermi alla sensibilità dei testimoni, che potrebbero ancora sentirsi in essa troppo coinvolti per rievocarla obiettivamente, o potrebbero, al contrario, non avvertirla: ma sarebbero probabilmente gli stessi che neppure allora – ma solo per loro miopia – l’avvertirono.

Quanto alla possibilità. È ovvio che, al netto di eventuali entusiasmi di ritorno per le mitologie sessantottine, non si possa fare a meno dei testimoni. Purché le testimonianze che si raccolgono e si utilizzano siano sottoposte ai criteri di quella che viene definita “storia orale”, che è ormai una disciplina con propri metodi e un suo preciso statuto epistemologico[3]. Occorre la consapevolezza che ben difficilmente potremo contare su una memoria condivisa e sarà dunque necessario ascoltare versioni diverse e non necessariamente sovrapponibili, se vogliamo evitare di accreditare verità totalmente o in gran parte arbitrarie [4].  Bisognerà inoltre che le testimonianze siano confrontate con documenti scritti, fotografici, filmici. Alcuni archivi sono già disponibili, altri, quello della questura ad esempio, prima o poi lo saranno. L’ISGREC ne possiede alcuni che fanno capo a partiti, a organizzazioni politiche e a associazioni, come ad esempio quella dei genitori di giovani tossicodipendenti, o il “Centro Donna”, che ha raccolto documenti dell’UDI e del Collettivo femminista. C’è poi la stampa: la cronaca locale di giornali regionali. Un lavoro difficile, ma possibile: ci sono giovani storici in grado di farlo con grande competenza. Non sta a me indicare le piste documentali da seguire. Basta sapere che queste piste esistono, come esiste ormai una bibliografia locale di base, almeno per alcuni argomenti settoriali, ma connessi al fenomeno dei movimenti giovanili: penso alla storia delle donne, alla questione della malattia mentale e della psichiatria[5].

Copertina del n. 14-15 di "Nuovo Impegno", aprile 1969, contenente la cronaca e un'analisi politico-ideologica dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)

Copertina del n. 14-15 di “Nuovo Impegno”, aprile 1969, contenente la cronaca e un’analisi politico-ideologica dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)

Vorrei piuttosto suggerire una traccia cronologica e qualche orientamento tematico a quanti volessero accingersi a uno studio rigoroso e criticamente avvertito. Con l’avvertenza, appunto, che questa proposta, pur dovendo – credo – essere presa in considerazione, sarà soggetta essa stessa a “falsificazione”, sulla base di documenti e testimonianze eventualmente discordanti.

Si dovrebbe intanto andare a vedere che cosa c’era in questa città prima del ’68 e che cosa cambiò in quell’anno. I movimenti giovanili dei partiti democratici – quello comunista, ma non solo – erano sicuramente aggregazioni consistenti fin dai primi anni del dopoguerra. Anche il MSI ebbe sempre un seguito a livello giovanile. Ma erano soprattutto le parrocchie a raccogliere i giovani sotto le più diverse forme organizzative. Nel corso del decennio dal 1960 al 1970 però cambiarono profondamente i costumi e i comportamenti giovanili; non solo a confronto con la generazione dei padri e delle madri, quella che aveva vissuto la guerra, ma forse in modo ancora più marcato a confronto con la generazione immediatamente precedente, quella nata durante la guerra o appena dopo. Le mode importate dall’estero, in particolare dall’Inghilterra, ebbero un peso decisivo: soprattutto la musica, ma anche l’abbigliamento, le occasioni di incontro, l’utilizzazione dei mass-media. Per quanto riguarda i giovani cattolici incise a fondo il rinnovamento fatto intravedere dal Concilio. Sia i giovani cattolici che quelli di sinistra trovarono nel tema della pace un elemento comune di interesse, sul quale comunque ancora non riuscivano a incontrarsi, e frequente per loro cominciava a essere il riferimento al movimento pacifista e per in diritti civili in USA. La guerra nel Vietnam, ma anche l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, furono avvertite come rotture dell’impegno di pace che era seguito alla sconfitta dei fascismi e che mostrava invece, nella logica della “guerra fredda”, tutta la sua precarietà e il suo inganno.

Volendo indicare avvenimenti significativi, viene da pensare alle iniziative di solidarietà dopo l’alluvione del 1966: gli interventi assistenziali delle parrocchie, il recupero dei libri della biblioteca. Personalmente ricordo molto bene Roberto Ferretti in divisa da boy scout (AGESCI) impegnato a regolare il traffico dei soccorsi nel Viale Matteotti, ancora invaso dal fango. Non fu ovviamente come a Firenze, ma il clima era quello. Una forte eco aveva avuto nell’aprile di quell’anno l’uccisione a Roma dello studente Paolo Rossi ad opera dei fascisti, in seguito a cui i giovani comunisti tentarono anche a Grosseto una mobilitazione nelle scuole superiori.

Intanto gruppi di cattolici cominciarono ad avere momenti di aggregazione esterni alle parrocchie, che resero possibile la lettura collettiva di testi inusuali, come ad esempio “Lettera a una professoressa” e facilitarono rapporti con realtà già più vivaci di altre città. Mentre a sinistra fu il PSIUP a raccogliere le inquietudini giovanili che cominciavano a orientarsi verso una rottura della tradizione resistenziale ormai ingessata e verso una distinzione rispetto alla gestione pluridecennale del potere locale, da cui invece i giovani comunisti, più fedeli generalmente ai costumi familiari, facevano fatica a staccarsi.

E fu dunque il ’68.

Fu, anche a Grosseto, il Sessantotto degli studenti. Contatti con i giovani lavoratori li mantennero i circoli comunisti e in futuro il PCI ne avrebbe tratto frutto.  Fu però nelle scuole, ben prima che nelle sezioni di partito e nelle federazioni giovanili, che si fece sentire forte il vento della rivolta, alimentato dal maggio francese, ma anche da quanto stava accadendo nelle università italiane, a Roma, a Pisa, quindi dagli avvenimenti praghesi e dalle notizie che giungevano da oltre oceano, in particolare l’uccisione di M.L.King.  Gli elementi più ricettivi si accorsero che il loro cerchio poteva allargarsi con una facilità che sarebbe stata inimmaginabile solo qualche mese prima. Si resero conto che, nonostante la denuncia di Don Milani contro la scuola di classe, la scuola media superiore era ora frequentata da molti studenti che non provenivano da ceti sociali privilegiati e erano ormai disposti a opporsi alla borghesia che, spalleggiata da un ceto professorale conformista quando non apertamente reazionario, fino ad allora vi aveva spadroneggiato: con i suoi pregiudizi, il suo perbenismo, la sua ipocrisia condita di cattolicesimo pre-conciliare, i suoi ridicoli riti goliardici. All’interno della stessa borghesia del resto, quella colta, delle professioni, la frattura generazionale era ormai in atto.

A questo punto ci sarebbe bisogno di un affinamento e di una precisazione della cronologia, perché gli avvenimenti si susseguirono rapidamente[6]. Ci fu l’occupazione del Liceo classico, che è l’episodio più spesso ricordato; ma ci fu anche una serie di assemblee al Liceo scientifico molto partecipate, convocate su documenti politici elaborati autonomamente dai promotori dell’agitazione; la manifestazione per Jan Palach, indetta dalla destra sotto lo sguardo benevolo dei fascisti e poi condotta dagli studenti di sinistra, a costo di qualche scontro fisico; ci furono altre manifestazioni di piazza e un’occupazione dell’Istituto professionale, alla quale tentarono senza successo di partecipare anche studenti di altre scuole. Nel novembre 1969 ci fu una grossa partecipazione studentesca alla manifestazione indetta dai sindacati in occasione dello sciopero generale per la casa.  Iniziarono inoltre riunioni politiche pomeridiane nella sede del Teatro sperimentale a cui partecipò anche qualche studente universitario. L’iniziativa spontanea nelle scuole era sostenuta in vario modo, sia pure con qualche titubanza, dalla FGCI, ma l’orientamento politico veniva soprattutto dal gruppo giovanile del PSIUP. Si può aggiungere che alcuni volantini per gli scioperi furono ciclostilati nella sede dell’Azione cattolica. Intanto andava coagulandosi un gruppo anarchico, che niente aveva a che fare ovviamente con l’anarchismo storico maremmano da tempo esauritosi.

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Servizio d’ordine a una manifestazione della sinistra rivoluzionaria

Un passaggio importante, che meriterebbe di essere ricostruito con documenti e testimonianze (non impossibili da trovare), fu la stroncatura sul nascere, da parte del PCI locale, del tentativo di costituire un nucleo della frazione del Manifesto, espulsa, a livello nazionale, dal partito. Il gruppo che si ritrovava al Teatro sperimentale aveva infatti un contatto diretto a Roma con quella frazione attraverso un elemento proveniente dal PCI locale che sembrava possedere tutti i requisiti di un leader. Sta di fatto che questa persona sparì da un giorno all’altro e non fu più vista in città. Si disse che aveva trovato (“gli avevano trovato”) lavoro altrove. In tal modo il pericolo che il PCI più temeva, una scissione locale del partito, fu scongiurato e per qualche tempo il Manifesto non fu presente a Grosseto. Si ripresentò dopo qualche anno ad opera di studenti universitari che però svolgevano a Grosseto solo un’attività sporadica.

Se qualcuno pensò di aver arginato in questo modo il movimento, dovette presto ricredersi. I giovani psiuppini che nel panorama locale avevano mostrato di essere i più sensibili ai segnali che provenivano dai movimenti studenteschi universitari e soprattutto dal Potere operaio pisano, cominciarono a sentirsi stretti nel loro partito. Ben presto costituirono un gruppo autonomo (il Gruppo di Azione Operaia, GAO) che, attenuando l’interesse verso gli studenti, tentò interventi nelle fabbriche di confezioni e abbigliamento che allora esistevano in città, andando incontro anche a denunce e processi. L’unico che rimase infine nel PSIUP, con il ruolo di funzionario stipendiato, fu Roberto Ferretti.

I cattolici furono posti di fronte all’incompatibilità dell’attività nel movimento studentesco con la permanenza nelle organizzazioni ufficiali della chiesa, con la conseguenza dell’abbandono di queste ultime da parte dei nuclei più attivi, dai quali scaturirà un gruppo cristiano interconfessionale che manterrà una continuità per tutti gli anni settanta e una presenza militante nelle organizzazioni locali della sinistra, con un riconoscimento anche esterno alla provincia attraverso i Cristiani per il socialismo e le Comunità cristiane di base.

Il movimento nelle scuole superiori si trovò di fronte alla difficoltà del ricambio dei nuclei che lo avevano diretto: terminato il ciclo di studi superiori, questi si trasferivano nelle sedi universitarie interrompendo ogni contatto. Soltanto un gruppo di studenti del liceo classico continuò a incontrarsi, per lo più in abitazioni private e al di fuori di qualsiasi riferimento a organizzazioni politiche, per studiare i classici del marxismo.

Lo stallo del movimento studentesco poteva essere superato solo con l’intervento di organizzazioni dotate di una certa stabilità. La FGCI non era ancora in grado di svolgere questo ruolo, perché fortemente condizionata dalla diffidenza mostrata dal partito verso le agitazioni giovanili; diffidenza che a livello nazionale, fu soltanto attenuata dall’incontro avuto da Longo nel 1968 con i principali esponenti del movimento studentesco romano, allora non ancora strutturato nelle diverse organizzazioni che di lì a poco si sarebbero costituite. Si presentò quindi (inverno 1971/1972) un’organizzazione (Lega dei comunisti) che aveva la sua base a Pisa e derivava dalla scissione (e scioglimento) del Potere operaio avvenuta all’indomani dei fatti della Bussola (31 dicembre 1968)[7]. Non fu tanto quel drammatico avvenimento a portare a conclusione una delle esperienze più significative del Sessantotto italiano, quanto piuttosto l’esasperazione di preesistenti divergenze ideologiche, dalle quali parve allora di non poter prescindere, nella ricerca quasi spasmodica di un’alternativa anche ideologica al PCI, che avesse definitivamente ragione del “riformismo” irrimediabile di quel partito. Parve inevitabile la separazione tra quanti confidavano esclusivamente sulla spontaneità rivoluzionaria, prima degli studenti, poi anche degli operai e quanti invece ritenevano che tale spontaneità dovesse trovare un orientamento strutturato, dunque un’organizzazione in grado di incidere politicamente sulla realtà. La nuova organizzazione si valse a Grosseto dell’attività militante non più saltuaria di studenti universitari e si rivolse in primo luogo a consolidare una base tra gli studenti delle superiori, a cominciare dai più giovani. Raccolse immediatamente, con poche eccezioni, ciò che rimaneva del GAO e sviluppò un intervento di agitazione nelle scuole aperto a tutti, anche agli appartenenti a altri gruppi e organizzazioni, ad eccezione dei fascisti, i quali comunque non di rado si mostrarono disposti a rinnegare i propri trascorsi per partecipare al movimento. Ci fu il tentativo di orientare politicamente il ribellismo giovanile, ancora molto forte, a partire dai bisogni materiali degli studenti, incoraggiando una pratica di partecipazione e di democrazia, che presto acquistò ampia visibilità nelle scuole (senza distinzioni ormai tra licei e istituti tecnici) e divenne maggioritaria nel movimento. Si cercò anche di valorizzare e vivacizzare l’antifascismo tradizionale, facendo partecipare comandanti partigiani, come ad esempio Angiolino Rossi (Trueba), alle assemblee scolastiche.

Il consolidamento delle organizzazioni politiche giovanili era del resto una tendenza generale e portò anche a Grosseto a un chiarimento anche nelle posizioni individuali. Di conseguenza la stessa FGCI si rafforzò notevolmente, raccogliendo anche militanti vicini in precedenza alle posizioni che quell’organizzazione definiva “estremiste”. Comparve in seguito anche Lotta continua, che a Pisa aveva rappresentato la parte maggioritaria uscita dalla scissione del Potere operaio e costituiva appunto l’ala “spontaneista” del movimento, pur dotandosi presto anch’essa di strutture organizzative sempre più consistenti. La presenza di altre organizzazioni che rappresentavano ormai un riferimento per la base studentesca impedì che Lotta continua avesse a Grosseto un ruolo decisivo, come invece ebbe nelle maggiori città italiane, dove la sua visibilità divenne spesso preponderante. Nessuna altra organizzazione, a parte talvolta il piccolo gruppo anarchico, svolse attività politica tra gli studenti.

12 gennaio 1974, Grosseto. Manifestazione di minatori e studenti

12 gennaio 1974, Grosseto. Manifestazione di minatori e studenti

La Lega dei comunisti si pose ben presto l’obiettivo di un intervento operaio, attraverso volantinaggi di fronte ai luoghi di lavoro e la costituzione di nuclei di fabbrica. Problema questo che la FGCI risolveva facilmente potendo contare sulla solida base operaia del PCI, mentre il PDUP (il resto del PSIUP non confluito nel PCI e unitosi in seguito con il Manifesto) puntava a allargare la sua presenza tradizionale nel sindacato, riuscendo effettivamente a raccogliere numerosi militanti nelle categorie della scuola, dei bancari, dei metalmeccanici e dei postelegrafonici. Neppure la Lega dei comunisti, del resto, era più ormai un’organizzazione esclusivamente studentesca: alcuni dei suoi membri assunsero ruoli dirigenti nella cosiddetta sinistra sindacale. Si può ricordare, a questo proposito, la partecipazione degli studenti grossetani all’occupazione delle miniere amiatine, da cui derivò una grossa manifestazione di operai e studenti a Grosseto, che colse di sorpresa la segreteria della Camera del lavoro.

*La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata la prossima settimana QUI

NOTE

(*) Ringrazio Stefania Cecchi, Silvia Guerrini, Marco Turbanti e Pier Francesco Minnucci delle osservazioni e dei consigli che mi hanno dato e di cui ho tenuto conto per stendere questa breve nota. La responsabilità di ciò che ho scritto è però soltanto mia. Grazie anche a Luciana Rocchi, Antonella Piani e Barbara Solari che l’hanno letta prima della pubblicazione.

[1] Si consideri però questa riflessione di Luigi Ferrajoli: “È utile ricordare che in Italia, negli anni del terrorismo, su una cosa tutti concordammo – destra e sinistra, critici e difensori delle leggi dell’emergenza -: nel negare ai terroristi lo statuto di belligeranti e perciò nel rifiutare la logica di guerra che i terroristi volevano imporre al nostro paese” (L.Ferrrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, bari, 2019, p. 278, n. 23).

[2] Ma anche dell’antropologo. Va da sé che poeti e romanzieri, gli artisti in genere, si attengono a ben diversi, del tutto legittimi, codici deontologici.

[3] Il riferimento d’obbligo, dal punto di vista sia concettuale che metodologico, è: Giovanni Contini, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997.

[4] Bella e coraggiosa la rievocazione di una vicenda familiare grossetana degli anni Settanta proposta recentemente da Vanessa Roghi (Vanessa Roghi, Piccola città. Una storia comune di eroina, Laterza, Bari, 2018), che tuttavia presenta un’immagine parziale e non del tutto attendibile dell’ambiente locale, delineato unicamente sulla scorta di poche testimonianze e scarsi e discutibili riscontri documentali. 

[5] Luciana Rocchi-Stefania Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci, Roma, 2004. Matteo Fiorani, Follia senza manicomio. Assistenza e cura ai malati di mente nell’Italia del secondo Novecento, ESI, Napoli, 2012.

[6] La necessità di un’ulteriore messa a punto cronologica si ricava anche dalla lettura, peraltro di notevole interesse, del contributo postumo di Roberto Ferretti, apparso di recente a 34 anni dalla scomparsa dell’autore (Roberto Ferretti, Contestazione studentesca: il Sessantotto a Grosseto, in: Il ’68 in Maremma, a c. di Flavio Fusi e Paolo Nardini, Effigi, Arcidosso, 2018). Sembra purtroppo che i documenti a suo tempo utilizzati (sia pure senza riferimenti puntuali) per la stesura, siano andati irrimediabilmente perduti.

[7] Già dalla primavera precedente i collettivi di studio, che si riunivano in abitazioni private, erano orientati, nell’intenzione, almeno, di alcuni militanti alla costituzione di questa organizzazione, che aprì la sua sede, nel centro cittadino, nel mese di settembre 1971. Fu la prima sede a Grosseto di un gruppo di “nuova sinistra”, o “sinistra rivoluzionaria”, o “sinistra extraparlamentare”, come allora preferibilmente era definita.




Livorno 1919: fra tumulti e rivoluzione

La Grande guerra è finita da pochi mesi ma, nella primavera del 1919, il precipitare del disagio economico sembra riportare la conflittualità di larghi settori popolari alla rivolta per la mancanza di viveri avvenuta a Torino nell’agosto 1917. Il prezzo di tutti i generi di prima necessità, dal cibo al vestiario, è rapidamente salito a livelli insostenibili per la classe lavoratrice che avverte l’inadeguatezza delle rivendicazioni salariali nella rincorsa del valore di acquisto del danaro. In particolare, nei primi mesi del 1919, avviene un ulteriore brusco rialzo dei prezzi; rispetto al 1914, i prezzi dei generi di consumo popolare  risultano aumentati in tre anni del 300%.

Persino la neonata Confederazione Generale dell’Industria Italiana, presagendo che tale questione può innescare gravi conseguenze, all’inizio di giugno presenta al governo una richiesta affinchè fornisca i più importanti generi alimentari, come il pane, a prezzi popolari senza tener conto del costo di produzione (cfr. R. Sarti, 1977). Nel mese di giugno, da La Spezia si estende ed esplode una prima ondata di moti contro il caroviveri, dalla Liguria alla Lunigiana e alla Versilia; quindi l’agitazione si riaccende alla fine del mese, a partire dalla Romagna, raggiungendo la sua massima intensità nella prima settimana di luglio.

In Toscana è il tempo del bolscevismo o del Bocci-Bocci, deformazione linguistica popolare che unisce il termine bolscevismo con l’espressione fiorentina «fare i cocci» che sta per rompere tutto (cfr. A. Pescarolo,  G.B. Ravenni, 1991; R. Bianchi, 2001). Nonostante tale richiamo rivoluzionario e gli intenti delle “avanguardie”, in realtà, «massimalisti e anarchici si trovano piuttosto a “rincorrere” le azioni di folla per tutto l’anno» (cfr. R. Bianchi, 2006). Infatti, i socialisti ne prendono le distanze; se per Amedeo Bordiga, a capo della frazione intransigente del Partito socialista: «il concetto dell’espropriazione simultanea all’insurrezione ed attuata capricciosamente da individui o gruppi, implicito nella frase di “sciopero espropriatore” è un concetto anarcoide, che nulla ha di rivoluzionario» («Avanti!», 20 luglio 1919), per la corrente riformista, per bocca di Claudio Treves al Congresso socialista di Bologna, «si tratta di masse guidate più dallo spirito di Masaniello che da quello di Marx».

Tabella (2)Anche a Livorno, da settimane, agli scioperi riguardanti diverse categorie – tipografi, portuali, scaricatori, tessili, impiegati del settore privato, insegnanti, dipendenti comunali… – si andava sommando l’agitazione sociale, a partire dal prezzo dei beni essenziali per l’alimentazione delle famiglie proletarie, in una sovrapposizione di linguaggi e pratiche (cfr. R. Bianchi, 2014). La protesta contro il carovita fuoriesce dalle fabbriche e dagli altri luoghi di lavoro. È opinione diffusa che l’attesa operaia per una sorta di scala mobile sia insufficiente e si ritengono inadeguate le rivendicazioni sindacali, mentre le tensioni scoppiate al mercato centrale confermano la rilevanza di settori di classe con una cultura politica segnata più dal sovversivismo di origine repubblicana e anarchica, che dal socialismo riformista di Modigliani. Cominciano i repubblicani con una riunione, alla fine di maggio, del loro Comitato di azione sociale, presso la sede della Unione Magistrale, presieduta da Cesare Tevené. Vi partecipano i rappresentanti delle leghe operaie e di numerose organizzazioni popolari. Viene decisa la costituzione di un Comitato d’agitazione contro il caro viveri, formato dai rappresentanti dei sodalizi locali di ogni tendenza politica. Si mira ad un prestito, da chiedere al governo per l’acquisto di derrate alimentari da lanciarsi sui mercati e si prospettano vendite senza intermediari. Qualche giorno dopo, si tiene una nuova riunione per nominare il comitato direttivo coi rappresentanti di ogni struttura aderente e per designare una giunta esecutiva di sette persone: Adolfo Minghi, Amleto Bazzoni, Francesco Silici, Ezio Cagliata, Alfredo Fiorini, Gualtiero Corsi e Gastone Mannucci (cfr. V. Marchi, 1973). Particolarmente significativa appare la figura di quest’ultimo: classe 1874, facchino, repubblicano intransigente e affiliato alla massoneria, detto Libeccino, abitante in via Eugenia; già attivo interventista nel 1915, poi dal 1923 esule antifascista con la famiglia in Francia (ACS, CPC, fasc. 58576).

Intanto nella cittadinanza cresce il malumore, ma la Camera del lavoro tarda a comprendere l’evolversi del risentimento popolare e stenta a reagire di fronte alle drammatiche notizie provenienti da La Spezia dove ci sono stati due morti e sette feriti tra i manifestanti. Scoppiano quindi, spontaneamente, i primi tumulti al mercato centrale, detto “delle vettovaglie”: le donne protestano clamorosamente davanti ai banchi, anche con colluttazioni con gli esercenti.

Il neonato Comitato di agitazione contro il caro-viveri è presto abbandonato dalle Leghe operaie di orientamento socialista che spingono per una più decisa «azione politica» a livello nazionale.

Malgrado la scissione, il Comitato repubblicano d’azione sociale prosegue la sua attività. Il 14 giugno c’è una adunanza alla “Fratellanza Artigiana” presieduta dal ferroviere Gino Reggioli – segretario Gastone Mannucci – «per una azione energica che, al di sopra di tutti i partiti, unisca tutti i consumatori nella lotta santa contro gli affamatori» («La Gazzetta Livornese», 13-14 giugno 1919). Vi aderiscono il sindacato ferrovieri, la cooperativa ferroviaria, la cooperativa mutuo soccorso operai cementisti, i pensionati ferrovieri, la Federazione nazionale ufficiali della riserva, l’Associazione nazionale dei combattenti, la cooperativa Alleanza, la Garibaldini e reduci, la Società cooperativa maestri d’ascia e calafati, il Fascio d’azione sociale, le cooperative Attività, Unione ferroviaria, Indipendenza, Mercantile, Privativa, la Società scaricatori dei marmi della stazione marittima, la cooperativa Ordine e Lavoro, la Società infermieri e infermiere, il Sindacato tramvieri, l’Associazione mutilati ed invalidi, gli avventizi ferroviari, la Società mutuo soccorso navicellai, la Lega lavoranti fornai, la Lega spazzini municipali, la Cooperativa tiraggio e rinfusi, la Federazione operaia farmacisti. Nella riunione si nomina una commissione di venti persone per la stesura di un programma «di azione radicale ed energica» e una decina di giorni dopo il Comitato viene ricevuto dal Prefetto, ottenendo l’impegno per un ribasso dei prezzi e l’adozione di un tariffario con i massimali per i generi alimentari. Viene anche annunciata l’attivazione di un calmiere su ortaggi e frutta («La Gazzetta Livornese», 27-28 giugno 1919).

Intanto l’assemblea delle Leghe operaie in un suo ordine del giorno ritiene ancora «non opportuno lo sciopero generale per protesta contro il caro-viveri, mentre il consiglio delle Leghe è pronto a rispondere all’appello della Confederazione del lavoro per uno sciopero politico». Intanto, alla fine di giugno i tramvieri entrano in sciopero contro il rialzo dei prezzi. Viene istituito il «calmiere del popolo»: consumatori ed acquirenti stabiliscono spontaneamente il prezzo che dovranno avere le merci giorno per giorno; ma i negozianti cominciano a sottrarre i prodotti, oppure, quando accettano il prezzo del calmiere, subito rimangono senza scorte.

 5 LUGLIO

 telegrafo_5LuglioNella Cronaca della città, su «Il Telegrafo» del 4 luglio 1919, si apprende che presso i Regi Bagni Pancaldi sono cominciati i concerti diurni e notturni, senza alcun aumento del prezzo d’ingresso. Poco sopra questo rassicurante trafiletto viene però riportata la notizia che «l’ufficio municipale annonario fa del suo meglio onde arginare l’ingordigia degli speculatori e per imporre l’obbedienza ai regolamenti e ai calmieri» e che sette esercenti sono stati «denunziati all’Autorità giudiziaria» per aver venduto merce a prezzi superiori a quelli previsti e per altre irregolarità. Nello stesso giorno, il Prefetto informa che il governo ha disposto una risibile riduzione del prezzo della carne congelata di Lire 1,50 al chilo. Si arriva così a sabato 5 luglio, in una situazione già tesa, mentre giungono notizie di sommosse in altre città.

Come nel maggio 1898, quando popolane e cenciaine avevano dato l’assalto ai forni, di nuovo le donne sono le prime a prendere l’iniziativa, affiancate da alcuni soldati: attorno a mezzogiorno c’è una prima irruzione nel negozio di calzature di lusso “Varese” di via Vittorio Emanuele [l’attuale via Grande], dove i prezzi non erano stati ribassati: «direttore e commessi del negozio, impossibilitati a contenere la valanga umana, sono rimasti muti e tremanti spettatori della scena» («Il Telegrafo», 6 luglio 1919). Al diffondersi della notizia dell’accaduto, nel pomeriggio sono prese d’assalto le botteghe di Borgo Cappuccini: «erano gruppi di uomini decisi a tutto, erano donne e ragazzi che si pigiavano dinanzi alle saracinesche e agli usci», mentre «molte persone assistevano passivamente ai saccheggi a breve distanza». Le forze dell’ordine evitano d’intervenire, anche per la presenza di soldati tra la folla, attenendosi alle disposizioni del Prefetto che, evidentemente, ritiene controproducente un’immediata repressione. Da Borgo Cappuccini, la sommossa si sposta sul lungomare, in direzione dell’Ardenza, con «saccheggi e requisizioni in ogni arteria, in ogni strada»; i negozianti reagiscono chiudendo le botteghe, ma avvengono anche incidenti, sassaiole e sparatorie: «sarebbe opera vana e… ciclopica diffonderci ad enumerare tutti i negozi assaltati e razziati. Il numero è di essi assai alto»; almeno una trentina solo quelli segnalati nelle cronache cittadine («La Gazzetta Livornese», 7-8, luglio 1919). Alla fine della giornata si contano una quindicina di feriti, tra cui quattro fra le forze dell’ordine.

Nel tentativo di arginare e gestire la situazione la Camera del lavoro – in contatto col sindaco Rosolino Orlando – si assume la responsabilità della requisizione collettiva. Tra l’una e le cinque del pomeriggio, mentre uno sciopero non-dichiarato sta bloccando la città, squadre di giovani aderenti, seguendo le direttive camerali, rastrellano merci nei negozi, immagazzinandole nei vari centri di raccolta allestiti presso il Teatro S. Marco, già ridotto a deposito durante la guerra; il mercato centrale; la Camera del lavoro, la sede dell’Unione repubblicana e la sezione socialista in piazza S. Jacopo, per ridistribuirli alla popolazione a prezzi calmierati. All’Ardenza si registrano alcuni espropri, ma nel borgo sovversivo l’agitazione appare sostanzialmente in mano alla sezione socialista e al gruppo anarchico, nonché della sezione della Camera del lavoro che stipula direttamente con i commercianti ardenzini, disponibili ad un «concordato collettivo» per il ribasso dei prezzi, in linea con l’ordinanza del Comune di Livorno. Nella serata, si tiene un comizio in via del Pastore tenuto dal muratore socialista Giovanni Cerri e dal noto esponente anarchico “Amedeo” (Adolfo) Boschi; viene approvato un ordine del giorno nel quale sta scritto: «Il popolo dell’Ardenza […] mentre saluta il risorgere della energia proletaria, che sembrava fiaccata dall’orribile guerra […] e mentre manda il saluto augurale ai rivoluzionari di Russia, di Ungheria e di Germania, rileva che la crisi economica che oggi affama i popoli non dipende dalla sola ingordigia dei ladri grossi e piccoli del commercio, ma è insita in tutto il sistema sociale vigente, che trova la sua base sulla proprietà privata, e invita perciò i fratelli operai a pensare che la totale emancipazione dei lavoratori non avverrà finchè tutto non sarà di tutti, finchè non si effettuerà il motto «chi non lavora non mangia» (R.Bianchi, 2001). La stessa risoluzione viene approvata a Piombino il giorno seguente in un comizio organizzato dall’Unione Sindacale Italiana (cfr. P. Bianconi, 1970), nel tentativo anarco-sindacalista di indirizzare il malcontento popolare verso uno sciopero che sviluppi un movimento rivoluzionario per rovesciare l’ordine economico e politico del paese.

 6 LUGLIO

 «L’insurrezione contro gli affamatori si va estendendo in tutta Italia»: questo il titolo in prima del quotidiano socialista «Avanti!» di domenica 6 luglio.

A Livorno, «gli eventi sfuggirono [anche] dalle mani di Boschi, in quanto la folla dimostrò di non essere disposta a sottomettersi alle direttive politiche degli anarchici più di quanto lo fosse a quelle socialiste […] Il Mercato centrale, nel quale erano state depositate le derrate alimentari per essere vendute al pubblico, venne saccheggiato soprattutto da donne e bambini e le merci, invece che vendute, vennero trafugate» (T. Abse, 1990). Nella notte, invece, era stata invasa l’elegante trattoria “La Casina Rossa” nella centrale via Vittorio Emanuele; tra i diversi denunciati per tale espropriazione figura anche Bruno Piccioli, un caporal maggiore fiorentino che aveva disertato dalla caserma di marittima, sede dell’88° reggimento fanteria.

Nel pomeriggio, la presenza in città di polizia, carabinieri e militari si fa più consistente, anche se prudente: «reparti di truppa dislocati nei vari punti della città, un via vai di camions colle mitragliatrici» («La Gazzetta Livornese», 7-8 luglio 1919). La stampa locale riferisce di un primo gruppo di 36 arrestati (25 per saccheggio, 1 per porto di coltello, 4 per eccitamento alla disobbedienza alla legge, 5 per oltraggio e resistenza alla forza pubblica), «tra cui noti ladri e altrettanto noti sovversivi» (T. ABSE). Viene riferito che vi sono «tra gli arrestati individui accusati di grida sediziose di propaganda sovvertitrice. Fra essi è un giovanotto che sabato sera mostrava un cencio rosso ai militari invitandoli a inneggiare al comunismo e bolscevismo». Tale Goffredo Angarelli è accusato di «oltraggio con vie di fatto nei confronti del capitano comandante il corpo delle Guardie di città» («La Gazzetta Livornese», 7-8, 8-9 luglio 1919). Si apprende pure dell’arrivo in città, proveniente da Udine, di un battaglione di “Bersaglieri mitragliatori”, temporaneamente acquartierati presso le scuole Benci.

Nelle stesse ore, si tiene una riunione allargata in Municipio. Da parte sua il Comune ordina la riduzione del 50% sui prezzi dei generi compresi nel calmiere e del 70% sugli altri. Nei fatti è la Camera del Lavoro che, dal giorno prima, cerca di coordinare la requisizione e la vendita a prezzi calmierati dei prodotti, fornendo ai negozianti cartelli informativi da affiggere fuori dai loro esercizi, al fine di proteggerli dall’esasperazione popolare. Molti negozianti decidono volontariamente di consegnare le chiavi alla Camera del lavoro. Quando i cartelli affissi non recano il timbro camerale i negozi vengono depredati o requisiti, ma talvolta non c’è avviso o timbro sufficienti per fermare gli espropri più o meno selvaggi, come avviene per una salsamenteria in via Cairoli, pur aderente al calmiere.

Carabinieri e bersaglieri intervenuti sul posto eseguono 14 arresti; risultano asportati prosciutti, salami, formaggi, scatolame ed anche soldi, per un danno denunciato di L. 20.000 («La Gazzetta Livornese», 24-25 luglio 1919). Svuotati sono pure i magazzini sugli Scali del Pesce, quelli dei Bottini dell’Olio, affittati dal municipio ai grossisti e agli importatori, i fondi dei grossisti di via della Posta, i depositi di vino e liquori di via Cairoli, nonostante la vicinanza della caserma di PS. Saccheggiato anche il magazzino comunale dell’Ente autonomo dei consumi in via del Vescovado, già requisito per depositi. Impossibile fermare la moltitudine: «gli addetti della Camera del lavoro invano si opposero allo scempio». Secondo un primo rapporto del Prefetto «furono vuotati 53 magazzini, contenenti in maggior parte vini, oli, formaggi e qualcuno tessuti, calzature e simili, per un valore complessivo approssimativo di circa 800.000 lire, a quanto hanno dichiarato i danneggiati». Prosegue intanto la requisizione gestita dalle organizzazioni politiche e sindacali: per il trasporto della merce vengono usati camion, barrocci ed anche auto private requisite a ricchi imprenditori, quali Orlando, Corradini, Rosselli, Folena, Guidi. Davanti alla Camera del lavoro, «c’è grande animazione. Sono squadre di giovani muniti di bracciale rosso che vanno e vengono e che salgono e che scendono da automobili e camions. Le squadre ricevono ordini e si allontanano sulle locomobili». Al teatro S. Marco, dove i giornalisti non sono graditi, sventolano la bandiera rosso-nera della Federazione Socialista e un drappo nero degli anarchici (R. Marchi, 1973); su l’«Avanti!» si legge, non senza enfasi, che «Livorno è in mano ai soviet del popolo». Molte trattorie “alla carta” e caffé di lusso continuano ad essere depredati da una folla eterogenea, nonostante che la Camera del lavoro cerchi di mantenere il controllo nelle strade per evitare altri atti di vandalismo.

 7 – 8 LUGLIO

telegrafo_8luglioPrendendo atto della situazione, per l’indomani, la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale e sollecita l’intervento delle autorità governative per un urgente approvvigionamento di viveri. Lo sciopero, secondo la CdL, deve però terminare a mezzanotte del 7 luglio, anche se i portuali, tra i quali è forte la presenza anarchica, lo prolungano sino a martedì 8. Nello stesso giorno sui muri appare un manifesto ai cittadini della Giunta esecutiva della CdL nel tentativo di riprendere in mano la situazione:

Le organizzazioni operaie vi approvano e sono al vostro fianco ed in vostro nome i rappresentanti della Camera del lavoro hanno fatto sentire la vostra parola e fatto valere i vostri propositi di fronte all’autorità. Così è stato deliberato che le merci dei negozi, le cui chiavi sono state consegnate alla Camera del lavoro ed al municipio, debbono essere considerati requisiti […] Voi potete essere contenti di quanto avete ottenuto ed appunto perciò dovete vigilare che gli impegni dell’autorità siano eseguiti subito ed interamente e che elementi spuri non sfruttino per privata ingordigia il grandioso movimento del popolo.
Quindi sospendete le requisizioni!

Al termine dell’agitazione si fa sentire anche il movimento popolare cattolico: l’esecutivo del PPI  commenta che «la sommossa recente è diretta e logica conseguenza di una colposa diuturna trascuratezza del governo». Aggiunge che «lo sciopero non può bastare nello scatto del risentimento popolare per quanto giustificato […] Questo del caro-viveri è problema complesso determinato da cause e fattori molteplici che non hanno carattere locale ma nazionale ed internazionale». I cattolici non vanno oltre questa genericità e l’indicazione di alcuni rimedi di ordine generale, «ad onta e al di sopra di tutte le resistenze burocratiche e dei gruppi interessati che sono i veri affamatori del popolo».

I repubblicani, vedendo il loro operato sconfessato dalle pratiche collettive illegali, accusano le «autorità governative e comunali», deplorando che «il giusto malcontento popolare si trasformi in semplici tumulti caotici, che i saccheggi e le devastazioni allontanino il trionfo della rivoluzione» («Il Dovere», 6 luglio 1919).

I dirigenti della Camera del lavoro e del Partito socialista, da parte loro, più pragmaticamente, hanno cercato di controllare e politicizzare la spontanea ribellione popolare «livellando così il movimento per rappresentarlo, garantire un nuovo tipo di ordine pubblico, governare la politica annonaria» (R. Bianchi, 2001).

La Camera del lavoro, in un manifesto rivolto ai lavoratori, cerca quindi di far rientrare i moti in una prospettiva emancipatrice di lungo periodo: «Ricordatevi della vostra forza; se pensate anche, che se vorrete essere gli eredi della società che vi opprime bisognerà che sappiate essere non solo forti, ma anche capaci di dirigere il nuovo ordinamento sociale» (cfr. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, 1977).

Anche la Federazione Socialista, con evidente allusione polemica con i repubblicani per il loro recente interventismo, appare sulla stessa linea “di responsabilità”:

Lavoratori, il caroviveri è una conseguenza della guerra; quelli che si fanno paladini dei vostri interessi esigendone la diminuzione immediata, sapendo che tale rimedio esula dalle loro possibilità, vi tradiscono. Essi che furono i maggiori responsabilità del macello immane e della rovina della ricchezza sociale, devono tacere. Il rimedio a tutti i mali non si trova assaltando i negozi, che è effimero,, ma assaltando la diligenza borghese che già corre traballando verso la perdizione («La Parola dei Socialisti», 13 luglio 1919).

In altre parole, la dirigenza socialista – locale e nazionale – dopo aver sottovalutato l’occasione dei moti ed anzi operato per il ritorno alla legalità, depotenziando il movimento di protesta, mira ad incanalare politicamente le residue tensioni, a partire dallo sciopero generale internazionale indetto per il 20 e 21 luglio contro la posizione ostile del governo italiano nei riguardi delle rivoluzioni socialiste.

Significativo anche il comunicato della sezione livornese dell’Associazione nazionale fra mutilati e invalidi di guerra in cui viene promesso tutto l’appoggio «ad ogni buona, giusta e pratica azione popolare, che sia di riparo al mal Governo dei pubblici poteri» («La Gazzetta Livornese», 8-9 luglio 1919).

Il Fascio liberale rivolge invece ai cittadini un appello interclassista: «il male prodotto dai disordini di questi giorni chiede rimedio urgente, mentre si impone la necessità di scongiurare l’approssimarsi dello spettro della fame che colpirebbe poveri e ricchi, borghesi e proletari» (cfr. V. Marchi, 1973); ma finanche il direttore de «Il Telegrafo», quotidiano di notoria impostazione borghese, deve ammettere:

Anche il popolo di Livorno – seguendo l’esempio di altre città consorelle – ha tentato di sciogliere da se stesso il problema spasmodico del caro viveri, visto e considerato che il Governo nuovo, come il vecchio, continuava a trastullarlo con le solite promesse ed a consentire agli affamatori i più ignobili arbitrî e le più sfacciate sfide alla longanimità collettiva (cfr. R. Cecchini, 1993).

Il 10 luglio – giovedì – il Prefetto ordina la requisizione dei generi alimentari e il Questore  l’arresto dei commercianti che l’ostacolano o che vendono a prezzi non concordati. Ai proprietari vengono rilasciate “ricevute” firmate da sindaco e Prefetto che si assumono la responsabilità della requisizione e della vendita alla cittadinanza a prezzi fissi, resi noti tramite un manifesto.

Al fine di prevenire nuovi tumulti, il governo – su sollecitazione dell’on. Modigliani e tramite il ministro Murialdi – ordina al Prefetto di Pisa di far destinare parte dei viveri disponibili nella sua provincia a quella di Livorno per le più critiche condizioni in cui versa.




Un paio di scarpe per la vita: il percorso della famiglia Fischer da Prunetta ad Auschwitz

La famiglia ebrea croata Fiser (alla tedesca Fischer) era originaria di Zagabria, città in cui i suoi membri vivevano piuttosto agiatamente grazie ai proventi di una azienda operante nel commercio del legname. Era composta da Teresa, da sua cognata Jelka e dai figli di quest’ultima e cioè Regina, Paolo e Otto, sposati rispettivamente con Mira Weiss e Vera Furst. Con loro vivevano anche Nada e Felicita, sorelle di Regina e loro madre Gisela Heim (Haim) Weiss.

La loro tranquilla esistenza cambiò radicalmente quando nel 1941 la Iugoslavia venne occupata dalle truppe nazi-fasciste. Zagabria e Belgrado caddero di fronte alle truppe tedesche il 10 aprile, Lubiana, Mostar, Dubrovnick, Cetinje nei giorni successivi per mano degli italiani.

I nazionalisti ustascia sotto la guida di da Ante Pavelic, creato il nuovo stato indipendente di Croazia, cominciarono presto la “pulizia etnica” ai danni di serbi, ebrei e rom definiti “i peggiori nemici del popolo croato”. Le loro stragi furono tali che le truppe italiane decisero per evitare di compromettersi di issare più il tricolore davanti ai comandi delle truppe nazionaliste.

Di fronte al pericolo di cadere vittima delle persecuzioni i membri della famiglia Fischer abbandonarono il palazzo di famiglia e fuggirono a Spalato, allora sotto il controllo italiano. La loro intenzione, come quella di molti ebrei iugoslavi e non, era quella di penetrare in territorio italiano, dove le leggi razziali erano, almeno fino a quel momento, applicate in modo meno feroce.

Da Spalato furono poi internati a Prunetta, sulla montagna pistoiese, in quanto appartenenti a una nazione nemica e quindi “capaci di qualsiasi azione deleteria”. Prunetta era con Agliana, Buggiano, Lamporecchio, Larciano, Montecatini, Pistoia città, Ponte Buggianese e Serravalle Pistoiese, una delle zone ad internamento libero presenti sul territorio pistoiese.

Foto panoramica di Cuorgné

Foto panoramica di Cuorgné

L’internamento libero offriva condizioni di vita migliori rispetto a quelle caratterizzanti i campi di concentramento, in particolare una certa libertà di movimento, la possibilità di svolgere varie professoni e di rapportarsi con la popolazione locale.

Da alcuni documenti risulta che alcune donne del gruppo e cioè Gisela, Nada e Felicita prima di giungere in Toscana furono condotte a Cuorgné, all’epoca comune della Val d’Aosta, oggi in provincia di Torino. Facevano parte infatti di un gruppo di una cinquantina di ebrei, in molti casi di origine askenazita o sefardita, che fu ospitato, assai benevolmente secondo molti, nella cittadina per alcuni mesi.

Dalla cittadina valdostana le tre donne furono condotte poi a Prunetta, dove già risiedevano gli altri membri della famiglia. E’ possibile che siano state le donne stesse, per ricongiungersi con i familiari, a chiedere alle autorità di essere spostate.

Da una lettera spedita all’arrivo in Toscana alla famiglia che le ospitò a Cuorgné è possibile dedurre quanto si fossero trovate bene nella cittadina dell’Italia Settentrionale [foto copertina articolo].

La situazione per i Fischer, così come per gli altri ebrei italiani o stranieri presenti nel pistoiese, non fu caratterizzata, almeno inizialmente da episodi drammatici.

Alcuni anziani ancora oggi ricordano la presenza degli ebrei nella piccola località appenninica. Il giornalista Giorgio Andreotti ricorda in particolare che:

“… erano soprattutto donne, una di loro era incinta (Mira ndr). Mia madre lavorava alle Poste e mi raccontava che spesso alcune di loro si recavano all’ufficio postale per spedire lettere e cartoline…

La situazione per la famiglia purtroppo mutò radicalmente dopo l’8 settembre 1943.

In realtà un primo evento drammatico si era già verificato nei mesi precedenti l’armistizio. Il 23 luglio 1943 Paolo Fischer infatti era stato arrestato dal maresciallo di San Marcello Pistoiese Antonino Gitto con l’accusa di aver acquistato, forse al mercato nero, della marmellata. La detenzione dell’uomo durò pochi giorni ma mise probabilmente in evidenza a tutti che la situazione generale si stava ormai deteriorando.

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Vera e Otto (foto archivio privato famiglia Fischer)

Il 6 settembre, due giorni prima dell’armistizio, si verificò l’unico lieto evento che caratterizzò in quegli anni lontani il piccolo nucleo familiare e cioè la nascita di Massimiliano (Max), il figlio di Otto e Vera. Ovviamente, data la situazione, il bimbo non venne registrato come ebreo.

Pochi giorni dopo, il 10 settembre il capo della polizia Carmine Senise diramò l’ordine di liberare gli ebrei stranieri dall’internamento. L’ordine fu revocato tre giorni dopo. Solo pochi ebrei poterono così approfittare di questa contingenza e fuggire. I Fischer, a causa delle precarie condizioni economiche in cui si trovavano, purtroppo non lo fecero.

Il 23 settembre Paolo fu nuovamente arrestato, questa volta assieme ad Otto. Condotti a Montecatini e affidati ai nazisti furono condotti nei campi di prigionia riservati agli ex militari iugoslavi dell’Europa Settentrionale.
La vicenda della donne, a questo punto rimaste senza la protezione degli uomini di casa, incrociò quella della famiglia di Ernesto e Margherita Bragagnolo che dalla piana pistoiese erano sfollati a Prunetta per sfuggire ai bombardamenti finendo così a vivere nella stessa abitazione dei Fischer. I due erano tornati in Italia dopo essere emigrati negli Usa. Ernesto, era un industriale calzaturiero proprietario di un negozio di scarpe in via San Martino. Soprannominato per il suo passato “l’Americano” era considerato dalle autorità un “sovversivo”. Sottoposto a vigilanza era anche stato arrestato dai repubblichini e recluso per cinque giorni nel carcere di Pistoia.

L’aiuto di Ernesto e Margherita fu fondamentale per la sopravvivenza delle Fischer nell’inverno del ’43. Paolo Fischer nella denuncia che questi scrisse a guerra finita contro il maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se e il segretario del PNF di Prunetta afferma che le donne

vivevano con l’aiuto e l’amicizia costante dei Sigg. Bragagnolo, e sentivano crescere di giorno in giorno, il pericolo intorno a loro, capivano che presto la maglia si sarebbe chiusa anche sulle loro teste. Il Renato Geri (il segretario del PNF di Prunetta ndr) non si stancava di ripetere a destra e a manca: “Mi occorre la casa dei Fischer, ci farò la sede del fascio” e sorvegliava continuamente le nostre donne per ghermirle alla prima occasione“.

Le Fischer, probabilmente disperate, cercarono per salvarsi l’aiuto del maresciallo dei carabinieri di San Marcello P.se Gitto. Secondo Paolo, questi promise che, in cambio dell’acquisto di un paio di scarpe per suo figlio, le avrebbe avvertite nel caso fosse stata organizzata una retata per catturare gli ebrei rifugiati sulla montagna pistoiese attraverso l’invio di una busta bianca priva di contenuto. All’arrivo della “strana missiva” le donne si sarebbero evidentemente dovute nascondere.

Queste, convinte dal Gitto, acquistarono le calzature richieste presso il negozio di proprietà del Bragagnolo situato nel centro di Pistoia. Lo stesso Ernesto dichiarò tristemente a guerra conclusa di avere ancora la partita di questa vendita ancora aperta, dal momento che aveva ceduto le scarpe sulla fiducia e non in cambio di denaro.

Regina

Regina

Il 23 gennaio 1944 Regina, rammenta ancora Paolo, “… Regina sentì con intuito femminile… che la tempesta si addensava, chiese consiglio al maresciallo, ma questi continuò a rassicurarla, continuando che le avrebbe avvertite prima di un eventuale rastrellamento“.

Le fosche previsioni della donna si avverarono nell’arco di pochi giorni. Il 25 gennaio tutte le donne furono arrestate senza che nessuna busta priva di contenuto fosse giunta ad avvertirle della retata. Il maresciallo le aveva quindi tradite. L’unica a salvarsi, almeno momentaneamente, fu Vera, che non venne arrestata solo perché il piccolo Massimiliano era malato. Derubate dei loro pochi averi furono condotte da agenti di Pubblica Sicurezza e quindi da italiani nel carcere di Santa Caterina in Brana a Pistoia e da qui prima a Fossoli e poi ad Auschwitz, dove tutte perirono.

In ricordo di Regina e delle altre alcuni anni fa in Piazza della Sala a Pistoia, laddove nel Medioevo sorgeva il ghetto ebraico, è stata posta una lapide.

Il 31 gennaio i carabinieri con grande freddezza tornarono a Prunetta con l’intento di arrestare Vera e il piccolo Massimiliano ormai guarito. Questi non venne preso solo per la ferma e coraggiosa opposizione di Ernesto Bragagnolo e di sua moglie Margherita Festi, con i quali rimase fino al ritorno di Paolo e Otto dalla prigionia.

Vera venne accompagnata in questura dove “… il commissario De Martino le disse che se voleva partire con i suoi per la Germania poteva andare subito“.

Gli ultimi giorni di Gennaio furono assai cupi per gli ebrei sfollati a Pistoia. La maggior parte degli ottantotto israeliti catturati in provincia di Pistoia fu arrestata dai nazisti in ritirata e dalla polizia locale proprio in questo periodo. Si trattava nella maggior parte di persone, come i Fischer, proveniente da altri paesi e quindi priva di aiuti ed amicizie sul posto o di italiani molto poveri. Nel diario di Nina Molco conservato a Pieve Santo Stefano si legge che “Tutti quelli che erano qui (a Prunetta ndr), e non erano pochi, sono stati presi, meno alcuni, i più abbienti, che sono riusciti a scappare“. Solo in cinque tornarono: Michele Baruch Behor, Isacco Mario Baruch, Matilde Beniacar, Aldo Moscati e Sol Cittone.

Il 4 febbraio 1946 Paolo Fischer denunciò come detto il maresciallo Gitto e il segretario del PFR di Prunetta Geri per l’arresto e lda deportazione dei suoi familiari.

La denuncia non ebbe seguito perché gli imputati, accusati di collaborazionismo, beneficiarono del decreto di amnistia promosso da Togliatti in virtù del quale i giudici dichiararono il non luogo a procedere in quanto il reato era estinto.

Finita la guerra i Bragagnolo tornarono ad abitare a Pistoia nella casa di Via San Martino. Massimiliano rimase con loro. Dopo alcuni anni quest’ultimo andò a vivere a Prunetta con suo zio Paolo.

Solo nel 1951 Otto, il padre di Massimiliano, tornò in Italia dai campi di prigionia. Con suo figlio si stabilì a Torino dove intraprese l’attività di commerciante. Massimiliano si laureò in Economia e Commercio e iniziò l’attività di commercialista che continua ancora oggi.

foto 5Nelle scorse settimane Massimiliano con suo figlio Giorgio Otto e i numerosi nipoti è tornato a Prunetta dove, accolto dalla comunità locale, ha potuto rivedere i luoghi della sua infanzia.

È l’unico testimone di una storia lontana che evidenzia, a distanza di decenni, come, accanto ai molti che si adeguarono alle leggi allora in vigore, altri non chinarono il capo, scegliendo di difendere i valori della giustizia e della libertà.

L’articolo è stato pubblicato sulla rivista “Storia locale” n. 32 e gentilmente concesso dagli Autori.




Detenuti jugoslavi nelle carceri italiane: la casa di pena di Volterra

Durante la seconda guerra mondiale, alcune carceri italiane furono utilizzate come luogh di detenzione per i civili – donne e uomini – condannati dal sistema militare e civile che amministrava la giustizia nei territori occupati o annessi della Jugoslavia. Ci riferiamo al Tribunale militare di guerra della II armata che aveva sedi a Fiume, Lubiana e Sebenico; al Tribunale militare di guerra di Cettigne in Montenegro; e al Tribunale speciale per la Dalmazia, istituzione civile voluta dal governatore Giuseppe Bastianini ma affidata alla gestione di giudici militari.

La funzione di questi apparati – in particolare all’interno del sistema repressivo –, il loro funzionamento, il numero e le tipologie delle condanne, ecc. sono argomenti che solo negli ultimi anni stanno diventano oggetto di studio da parte degli storici italiani.

L’associazione Topografia per la storia, che cura il progetto campifascisti.it, sta portando avanti un lavoro di mappatura dei luoghi di detenzione per i quali sono passate centinaia e centinaia di donne e uomini jugoslavi tra il 1941 e il 1944.

In genere, i detenuti politici in attesa di giudizio erano ristretti nelle carceri prossime alle sedi dei tribunali, quindi nei territori annessi dopo l’occupazione. Successivamente alla condanna definitiva – i processi non duravano a lungo sia perché non esisteva di fatto la possibilità di difesa sia perché era previsto un solo grado di giudizio –, i detenuti erano trasferiti, di solito dopo un passaggio nel carcere di Capodistria che funzionava quindi come luogo di transito e smistamento, in istituti dove i prigionieri avrebbero scontato la pena inflitta.

Tra i molti luoghi che stiamo censendo c’è anche il carcere di Volterra.

Grazie alla direzione del carcere che ci ha autorizzato a consultare il suo archivio storico inedito ancora custodito all’interno della fortezza medicea, e alla Regione Toscana che ha cofinanziato la ricerca, siamo stati in grado di ricostruire le brevi biografie (con la data e il luogo di arresto, il reato commesso, il tribunale giudicante, la pena comminata e il percorso di detenzione) di 436 detenuti politici sloveni, croati e montenegrini. Biografie che si possono consultare in un nuovo data base, in continuo aggiornamento, di recente aggiunto agli altri strumenti disponibili sul sito campifascisti.it.

 Di seguito riportiamo la scheda sul carcere di Volterra pubblicata sul sito.

Il carcere di Volterra e i detenuti jugoslavi 1941-1944

 Dal dicembre 1941 fino alla fine del mese di maggio 1944, la casa di reclusione di Volterra fu uno dei luoghi in Italia destinato alla detenzione dei civili jugoslavi condannati in via definitiva dai Tribunali militari di guerra. I registri del carcere toscano, ancora oggi conservati presso la storica fortezza medicea, riportano i nomi di 436 montenegrini, croati e sloveni che, per periodi più o meno lunghi, furono detenuti nel carcere.

 I primi ad arrivare, nel corso del mese di dicembre 1941, furono 24 montenegrini condannati dal Tribunale militare di guerra che aveva sede a Cettigne (Cetinje), oltre a un detenuto sloveno proveniente dalle carceri di Trieste. Sempre dal Montenegro, il 19 aprile 1942 giunse a Volterra il secondo trasporto composto da altri 47 detenuti.  Da quel momento in poi, gli arrivi alla fortezza si susseguirono con regolarità. Così, alla fine del 1942 si contavano 151 detenuti jugoslavi; alla data dell’8 settembre 1943 il loro numero era salito a 358. Il mese con il maggior afflusso di detenuti fu il marzo 1943, quando giunsero a Volterra 64 jugoslavi, tutti provenienti per sfollamento dal carcere di Capodistria.

Quanto alla provenienza geografica, il maggior numero di detenuti arrivava dal Montenegro (137 condannati dal Tribunale militare di Cettigne). Pochi di meno erano i dalmati (115 condannati dal Tribunale speciale della Dalmazia e altri 18 dalla sezione di Sebenico del Tribunale militare di guerra della II armata) e gli sloveni (111 condannati dalla sezione di Lubiana del Tribunale militare della II armata). Ultimi, in termini numerici, i croati provenienti della provincia di Fiume (53 civili condannati anch’essi dal Tribunale militare della II armata che aveva la sede principale proprio a Fiume).

I reati per i quali erano stati imputati e giudicati colpevoli sono quasi sempre gli stessi: “partecipazione a banda armata”, “associazione sovversiva”, “attentati contro appartenenti alle forze armate italiane”, “detenzione abusiva di armi e munizioni”. Diverse invece sono le condanne comminate: dai pochi anni di carcere previsti per chi ha commesso il solo reato di detenzione abusiva di armi o di concorso in attentato alle forze armate, fino alla pena di morte (poi commutata in carcere a vita) per gli accusati di appartenenza a banda armata e associazione sovversiva.

Nel carcere di Volterra sembrano però concentrarsi i soli detenuti che hanno ricevuto le condanne più pesanti. In genere, i detenuti arrivati a Volterra per scontare pene relativamente leggere (da 1 a 10 anni di carcere) vengono poi trasferiti in altri luoghi. È il caso, ad esempio, di 30 montenegrini trasferiti nel giugno 1942 alla casa di lavoro all’aperto della colonia penale dell’Asinara, tutti condannati a pene che andavano dai 3 ai 10 anni. Oppure dei 13 detenuti inviati a Castiadas, di nuovo in Sardegna, presso una struttura analoga, anch’essi condanni a pene inferiori ai 10 anni. Così, alla data dell’8 settembre 1943, dei 358 detenuti presenti a Volterra, ben 264 sono gli ergastolani (69 dei quali originariamente condannati a morte) e 33 quelli con condanne comprese tra i 20 e i 30 anni.

Conosciamo poco delle condizioni di vita dei detenuti jugoslavi nel carcere di Volterra. L’unica testimonianza diretta fino ad oggi reperita è quella di Filip Pavešić. Nato a Kraljevica (Croazia) nel 1902, arrestato dagli italiani e condannato alla pena di morte, successivamente commutata in ergastolo, per il reato di appartenenza a banda armata, Pavešić arrivò a Volterra il 17 maggio 1942 dopo essere passato per le carceri di Fiume e di Padova. Nel dopoguerra dichiarò alla Commissione distrettuale per l’accertamento dei crimini di guerra di Sušak (Fiume) che: “il carcere di Volterra era noto per essere uno dei più brutali, specialmente per la nostra gente”. Pavešić ricorda anche che uno sciopero dei detenuti organizzato per chiedere condizioni igieniche migliori era stato represso con durezza.

Durante il periodo di detenzione a Volterra morirono sei civili jugoslavi, tutti per tubercolosi polmonare. Un altro detenuto, Milan Mićunović, morì all’ospedale di Trieste subito dopo la liberazione. L’epidemia di tubercolosi portò anche al trasferimento di alcuni detenuti da Volterra al sanatorio giudiziario di Pianosa.  Due furono i casi di detenuti trasferiti al manicomio giudiziario di Montelupo fiorentino.

Da alcuni registri, peraltro incompleti, utilizzati dai carcerieri per segnalare alla direzione gli episodi di insubordinazione da parte dei detenuti, sappiamo che gli jugoslavi in più di un’Ioccasione si rifiutarono di fare il saluto fascista, così come di fare silenzio nelle camerate, o di interrompere canzoni e cori nelle proprie lingue. Episodi che di solito erano puniti con uno o più giorni di cella di isolamento.

Dopo il 25 luglio 1943, con l’arresto di Mussolini, i rapporti delle guardie registrano oltre ai consueti canti e proteste, anche diverse altre iniziative – passaggi di fogli, frasi urlate da una camerata all’altra, ritrovamento di pezzi di latta a forma di coltello, tentativi di manomettere una serratura – alla luce delle quali è lecito immaginare qualche forma di organizzazione dei detenuti in vista o in preparazione della propria liberazione. Questo genere di atti continuerà anche nei mesi di ottobre e novembre 1943, senza però sortire alcun effetto.

L’occupazione tedesca e l’insediamento della Repubblica sociale italiana non influiscono quindi in alcun modo sullo status di prigionieri politici dei detenuti jugoslavi. A decidere la loro sorte sarà invece l’intervento dello Stato indipendente di Croazia (NDH) guidato dal collaborazionista Ante Pavelić.  Su suo incarico il sacerdote Krunoslav Stjepan Draganović arriva in Italia anche come rappresentate delle croce rossa croata, per chiedere la liberazione degli internati e detenuti croati. Con un analogo obiettivo, giunge in Italia un certo dottor Lukan in qualità di rappresentate della croce rossa slovena. Ha inizio così una trattativa per la liberazione dei detenuti cui la RSI prova inizialmente ad opporsi.

Le prime liberazioni dal carcere di Volterra avvengono alla fine del novembre 1943, quando su ordine del comando tedesco vengono scarcerati dieci detenuti sloveni e croati. La gran parte degli jugoslavi sarà liberata nel corso del gennaio successivo, quando lasceranno Volterra 284 detenuti, quasi tutti sloveni e croati. A restare in carcere saranno quindi una cinquantina di Montenegrini. Una parte di loro sarà liberata a marzo, gli ultimi il 31 maggio 1944, poco prima della liberazione di Volterra.

Tra gli ultimi detenuti jugoslavi a lasciare il carcere c’è anche il rabbino Isidor Finci. Nato a Sarajevo nel 1918, Finci – identificato nei documenti italiani come Finzi – era stato arrestato a Spalato il 24 aprile 1942 e condannato dal Tribunale speciale per la Dalmazia a 20 anni di reclusione per il reato di propaganda sovversiva. Nelle note della sua cartella biografica si può leggere: “È un pericoloso comunista, diffusore dell’idea sovversiva, e siccome è colto riesce con facilità ad avvelenare gli animi. È molto astuto e sa dissimulare con abilità sorprendente nello stesso modo come sa spudoratamente mentire. Del resto è un ebreo! Parla italiano”.

Il 31 maggio 1944 Finci, a quanto risulta unico tra tutti i detenuti jugoslavi di Volterra, viene trasferito a Firenze in via Bolognese 67 per essere messo a disposizione del comando militare tedesco. Isidor Finci sarà successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli e da qui inviato ad Auschwitz dove morirà alla fine di agosto 1944.




Carmignano nel secondo dopoguerra.

Per la realizzazione di una ricerca sul Carmignanese alla quale stiamo attendendo, abbiamo avuto di recente un interessante colloquio con Riccardo Cammelli, autore de Il Poggio e il Campano (Carmignano, Attucci, 2017), una dettagliata ricostruzione delle vicende che portarono alla nascita del Comune di Poggio a Caiano. Ne proponiano il testo ai lettori di ToscanaNovecento.

 Qual era la situazione a Carmignano dopo la liberazione?

A Carmignano, come nel resto della Toscana, la guerra aveva prodotto danni molto seri. I collegamenti con Firenze, con Prato, con Vinci e con il resto del Montalbano erano problematici a causa delle condizioni delle strade; le case e gli edifici scolastici erano da ricostruire, l’acquedotto non esisteva (i pozzi erano insufficienti e c’era chi pativa la sete). Si tenga presente che a quell’epoca le opere pubbliche – alpari dei piani regolatori – dovevano passare dal vaglio ministeriale, e l’attesa dell’approvazione da Roma rallentava molto la loro realizzazione.

Ed il quadro politico?

Dal punto di vista politico, Carmignano rappresentava (insieme con l’alto Mugello, cioè con i comuni di Firenzuola, Londa, Marradi, San Godenzo e Palazzuolo sul Senio) una delle isole bianche in provincia di Firenze (quello del capoluogo, sotto questo profilo, era un caso più complesso, con caratteristiche sue proprie). Per la DC fiorentina il Carmignanese, come l’alto Mugello, era un’area molto importante: lo era negli anni Cinquanta e Sessanta, quando essa inviò un personaggio di spicco come Ivo Butini a fare l’assessore nel comune mediceo, e lo era successivamente quando a Poggio a Caiano negli anni Settanta fu sindaco Sergio Pezzati. Per tornare alle peculiarità di Carmignano, le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto si distinsero da subito con il risultato del referendum monarchia-repubblica del 1946, votando in maggioranza per la prima, a differenza del resto del territorio. Alle elezioni per la Costituente la DC ebbe il 44,06% dei voti, alle politiche del 1948 raggiunse addirittura il 53,39%. Il partito cattolico governò il paese con giunte monocolori fino al 1960 e circa un terzo dei voti democristiani provenivano dalle frazioni di Poggio a Caiano e di Poggetto, dove viveva un ceto medio fatto in prevalenza di artigiani, commercianti e impiegati pubblici e privati. Il voto cattolico era rilevante anche a Carmignano, dove si registrava una forte presenza di dipendenti comunali, ed in frazioni come Artimino. Le sinistre erano più forti altrove, a Comeana, a Poggio alla Malva ed a Seano. A sinistra votavano parte dei mezzadri, i lavoratori salariati (per esempio gli operai della Nobel) e gli scalpellini di Comeana e di Poggio alla Malva.

Quali furono le principali realizzazioni dell’amministrazione comunale bianca?

Senz’altro il ripristino ed il miglioramento della rete viaria, la costruzione dell’edificio della scuola media a Poggio a Caiano e, nel 1959, l’inaugurazione dell’acquedotto, che venne poi completato negli anni successivi. Per quanto riguarda la realizzazione di quest’ultima opera, fu molto importante l’interessamento del senatore democristiano pratese Guido Bisori, all’epoca sottosegretario agli interni.

 Che giudizio ti senti di dare sugli anni in cui la DC ebbe il controllo del Comune attraverso giunte monocolori (1946-1960)?

Tenendo conto delle risorse limitate del comune – la storia è la medesima per tutti i comuni delle dimensioni di Carmignano – si può parlare di un bilancio complessivamente positivo: Giacomo Caiani e Leonardo Civinini sono stati i sindaci della ricostruzione e, da questo punto di vista, essi hanno certamente raggiunto l’obiettivo minimo: strade asfaltate, scuole di vario ordine e grado, e come già ricordato l’obiettivo fondamentale dell’acquedotto.

Nel 1961 si insediò una giunta DC-PSI presieduta dal democristiano Leonardo Civinini. Come maturò questa svolta?

Maturò per gli stessi motivi che portarono il PSI al governo del Paese: il mutato atteggiamento della Chiesa verso la collaborazione fra cattolici e socialisti dopo l’elezione di papa Giovanni XXIII (1958) e l’attenuarsi della guerra fredda. Molto importante e influente, per quanto riguarda Carmignano, fu poi l’esperienza del centro-sinistra nella vicina Firenze, avviata da Giorgio La Pira nel 1961. Il clima culturale e politico fiorentino della seconda metà degli anni Cinquanta era caratterizzato da un  grande fermento ed anticipava già di alcuni anni il portato del Concilio Vaticano secondo. Era la Firenze di Giorgio La Pira, della giovane segreteria DC di Edoardo Speranza, Nicola Pistelli, Ugo Zilletti, e più tardi di Ivo Butini e Cesare Matteini; la Firenze in cui agivano in provincia e in periferia preti “scomodi” come don Milani e qualche anno più tardi don Mazzi all’Isolotto; la Firenze in cui operava un PSI autonomista, fuori dalla linea morandiana, caratterizzando la sua azione con le aperture di Mariotti e Paolicchi. A questo proposito va ricordato l’apporto degli ex azionisti che entrarono nel PSI: Lagorio, Morales, Codignola per citarne alcuni; a questi si aggiungeva l’esperienza de Il Ponte, di Calamandrei ed Enriques Agnoletti; era infine, ma non ultima per importanza, anche la Firenze del PRG di Edoardo Detti. Ho lasciato fuori da questo elenco il PCI, alle prese con il processo di ricambio del gruppo dirigente con l’VIII Congresso. Guido Mazzoni lascia la guida del partito locale in favore degli “innovatori” Fabiani e Galluzzi, avviando così il cammino di allontanamento dal massimalismo, verso la formazione di una cultura di governo locale che già teneva conto dei “ceti medi”. Tutto sommato il panorama politico offriva qualcosa di straordinario a livello, direi, italiano: un laboratorio politico e culturale  che avrebbe finito per influire in qualche modo sulle dinamiche nazionali, certamente sul resto della provincia e quindi anche su Carmignano.

Due anni dopo fu varata la prima giunta di sinistra PCI-PSI, guidata dal socialista Guido Lenzi. Il centro-sinistra ebbe dunque a Carmignano vita assai breve. Perché?

Dopo le elezioni amministrative del 1960 ci vollero alcuni mesi di trattative per preparare la svolta di centro-sinistra e si arrivò così all’estate del 1961. Un anno dopo, nel luglio del 1962, Poggio a Caiano diventò un comune autonomo e questo segnò di fatto la fine del centro-sinistra a Carmignano. Anche durante il percorso che portò all’autonomia di Poggio, la DC pensava di mantenere comunque il governo dei due futuri comuni. Alla base di tutto ci fu un errore di calcolo da parte dei democristiani, che speravano di governare il nuovo comune, dove erano molto forti, e di tenere comunque Carmignano. L’erroneità del calcolo, che aveva forse più le sembianze di una speranza, fu appurata da Bisori: gli giungevano notizie e impressioni che volle controllare. Chiese allora al personale del ministero di effettuare delle proiezioni elettorali, che dettero questi risultati: Poggio a Caiano sarebbe stata a guida DC, mentre Carmignano sarebbe stata appannaggio dei socialcomunisti. Le speranze ed i calcoli sbagliati venivano smentiti dalla matematica. L’elemento probabilmente ignorato da chi nutriva aspettative ottimistiche derivava dalle conseguenze del distacco di Poggio, che fece scendere i due comuni sotto i diecimila abitanti. Nei comuni con meno di diecimila abitanti si votava col maggioritario e, siccome a livello regionale esisteva un accordo fra socialisti e comunisti per le alleanze nel governo locale, ciò rese impossibile la prosecuzione dell’alleanza DC-PSI.

 Puoi riassumere brevemente le ragioni su cui poggiava la richiesta di autonomia di Poggio a Caiano?

La richiesta di autonomia avanzata nel 1957 aveva due precedenti: altre due richieste – formulate rispettivamente prima della grande guerra e durante il fascismo – erano state infatti respinte. La richiesta del 1957, sostenuta da una raccolta di firme, andò invece in porto entro cinque anni. I fattori della spinta all’autonomia erano di tipo economico, politico ed identitario. Le frazioni di Poggio a Caiano e Poggetto erano in buona parte composte, come già ricordato, da imprenditori, artigiani, commercianti e impiegati. Un ceto medio cosciente del fatto che il comune di Carmignano stesse viaggiando a due velocità: di fronte al boom economico appena iniziato, la parte agricola e collinare stava decadendo, mentre le zone urbanizzate della piana erano partecipi dello sviluppo. L’elemento economico si fondeva con quello politico: la richiesta di autonomia fu facilitata dal fatto che il colore politico dei richiedenti era lo stesso del governo centrale. La DC di Poggio a Caiano riuscì ad interessare e coinvolgere nel percorso il segretario provinciale del partito, Cesare Matteini; il senatore eletto nel collegio cioè Bisori; il parlamentare Giuseppe Vedovato; in vario modo le diocesi di Pistoia e di Prato, e don Milton Nesi, responsabile dei Comitati civici pratesi. Un peso notevole ebbe infine l’elemento identitario. Poggio a Caiano, infatti, aveva sempre avuto una sua peculiarità rispetto al resto del comune: la Villa medicea (poi reale) era il centro culturale, sociale ed economico attorno al quale la frazione si era sviluppata, un “indotto” dalle molteplici valenze, a cui si aggiungeva l’Istituto delle minime suore del Sacro Cuore, altro centro “gravitazionale” religioso, culturale e sociale. Anche la geografia contribuiva a diversificare Poggio dal resto del comune: Poggio, infatti – collocata in pianura, ben collegata con la strada statale a Firenze ed a Pistoia – era sempre stata un crocevia di scambi e non per nulla aveva avuto, nei primi decenni del Novecento, il tram e il telefono, simboli di progresso e di distinzione rispetto ai centri vicini.

Quali sono stati, a tuo parere, gli eventi più importanti nella storia di Carmignano nel secondo dopoguerra?

Sul piano politico va ricordato che Carmignano fu a guida DC fino al 1963, ma certamente merita attenzione la breve e dimenticata parentesi del centro-sinistra ed il distacco di Poggio a Caiano, che portò le sinistre alla guida del Comune. Su quello economico la crisi della mezzadria, maturata negli anni Cinquanta-Sessanta, con le sue enormi conseguenze a livello sociale.

 È corretto affermare che, dopo la fine dell’istituto mezzadrile, Carmignano si è riassestata sul piano economico, trovando un equilibrio che si basa, da un lato, su un’agricoltura che fornisce prodotti di nicchia (vino ed olio, in primo luogo) e, dall’altro, su un temperato sviluppo industriale?

Sì, l’affermazione è corretta. Nel 1961, come ricordò il sindaco Leonardo Civinini in consiglio comunale, c’erano già 2.500 pendolari (su poco più di 4.600 attivi) che andavano verso la piana pratese e fiorentina a lavorare nel settore secondario, nell’industria e nell’artigianato. Negli anni successivi quel numero crebbe, e si ebbero due risposte all’industrializzazione: da un lato la nascita dei laboratori e degli “stanzoncini” tessili presso la casa di abitazione; dall’altro la prosecuzione del pendolarismo verso le zone produttive. Quanto all’agricoltura, sebbene vi fosse qualche fenomeno di sostituzione della manodopera con altra venuta dal sud della Toscana o dell’Italia, il numero degli addetti al settore primario scese senza sosta. Ma, in Toscana come altrove, si riuscì a convertire un dramma economico ed occupazionale in un’opportunità di sviluppo. Da un lato i due “Piano Verde” del 1961 e del 1966, e dall’altro la nascita delle regioni con le deleghe annesse, determinarono una diversa attenzione verso il settore dell’agricoltura. Le colture promiscue, miste, caratteristiche dell’era mezzadrile, lasciarono il posto alle monocolture ad alta specializzazione della vite e dell’olivo. Un graduale ma preciso orientamento guidato dalle aziende agricole locali che hanno consentito di offrire quelle eccellenze del territorio che sono oggi il vanto dell’area carmignanese e poggese. Relativamente agli anni più recenti, va tenuto presente anche lo sviluppo dell’agriturismo, dovuto ad una sensibilità, maturata nella seconda metà degli anni Ottanta, tenendo conto delle esigenze di un turismo che muta abitudini e modalità di permanenza sul territorio, e che allarga i suoi orizzonti al di fuori delle città d’arte toscane.

L’industria è concentrata soprattutto a Seano ed a Comeana (lungo la via Lombarda, l’arteria che collega Comeana stessa a Poggio a Caiano). Quali sono i rami di attività più importanti?

Lo sviluppo della parte pianeggiante del territorio carmignanese ha a che fare con lo sviluppo demografico ed economico connesso al distretto pratese, ed è legato, nei decenni più recenti, a spostamenti di persone da Firenze e Pistoia verso Carmignano e Poggio a Caiano: dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta Seano e Comeana crescono: lo sviluppo demografico si accompagna a quello urbanistico, edilizio ed economico. La pianificazione urbanistica di quei periodi, fino agli anni Novanta, prevede aree destinate alla produzione artigianale ed industriale nella zona compresa fra Prato sud, Seano e la periferia nord di Poggio a Caiano, oltre alla zona sviluppatasi successivamente lungo la via Lombarda. Il settore più importante è quello del tessile-abbigliamento, che si pone come indotto di Prato, ma ci sono anche diverse piccole aziende meccaniche.