Tristano Codignola: un azionista fiorentino all’Assemblea Costituente

Uomo di grande carattere e di elevato profilo morale, Tristano Codignola rappresenta una figura di estremo interesse e di indubbia levatura all’interno della complessa vicenda della sinistra italiana novecentesca, non foss’altro che per la tenacia e l’assoluta coerenza con le quali, pur in contesti e momenti diversi della storia politica nazionale, operò sempre a favore di un rinnovamento del socialismo italiano e di una sua affermazione come forza riformista e di governo capace di suscitare nell’Italia postbellica un’alternativa democratica e indirizzare il paese verso il conseguimento di una profonda e concreta trasformazione politica e sociale.

Un intendimento questo mai rimosso, che anzi accompagna con continuità tutta la vicenda politica di Codignola, muovendo dall’antifascismo delle origini e attraverso la successiva stagione azionista, per progredire poi nell’Italia repubblicana con la ricerca di un socialismo autonomista inteso come una “terza forza” realmente alternativa e libera da qualsiasi condizionamento. Un intento questo al quale egli cercherà sempre di mantenersi fedele, prima puntando, dopo la scissione del 1947 del Partito d’Azione, ad unificare entro formazioni minori le sparute frange socialiste liberali esterne al PSI e poi portando nel 1957 questa minoranza “eretica” entro lo stesso Partito Socialista, storico soggetto politico riformatore della società al quale Codignola rimarrà legato sino al 1981, anno della sua morte.

In questo articolato percorso, risaltano e non si perdono mai in Codignola alcuni tratti fondanti del suo pensiero politico, quali tra tutti il tema della libertà, della giustizia sociale, di una concezione laica della vita, che certo gli provengono da varie e composite frequentazioni culturali ma soprattutto dall’influsso del socialismo liberale volontaristico e aclassista dei fratelli Rosselli, che non per nulla caratterizza il gruppo azionista fiorentino di cui Codignola, nella transizione dal fascismo alla Repubblica, diventa l’indiscusso leader politico. È Firenze non per nulla il luogo, spaziale e al contempo ideologico, nel quale affondano le fondamenta del pensiero e della lunga militanza politica di Codignola, benché per la verità di natali non toscani.

Nato ad Assisi il 23 ottobre 1913 e figlio del grande pedagogista Ernesto, Tristano Abelardo Codignola (“Pippo” per gli amici e per i compagni di lotta) cresce però in Toscana, prima a Pisa e poi a Firenze, città nelle quali la famiglia si trasferisce a seguito degli incarichi di insegnamento del padre Ernesto. È nel capoluogo toscano che quest’ultimo, allievo e collaboratore di Giovanni Gentile, ottiene nel 1923 la cattedra di pedagogia alla facoltà di Magistero e vi dirige poi a partire dal 1930 la casa editrice La Nuova Italia. Ed è sempre a Firenze che Tristano completa i suoi studi, prima diplomandosi al Liceo Michelangelo e poi laureandosi in giurisprudenza nel 1935 con una tesi in Storia del Diritto Italiano (relatore Francesco Calasso), cattedra della quale Codignola sino al 1942 sarà peraltro assistente. Dopo la laurea, Tristano comincia a lavorare nella casa editrice del padre, impresa di cui poi sarà a capo per circa quarant’anni, dalla Liberazione sino alla sua morte. Già di sentimenti antifascisti, nel 1936 Tristano aderisce al movimento clandestino liberalsocialista di Calogero e Capitini, attività per la quale è segnalato agli organi di polizia e più tardi arrestato nella propria abitazione fiorentina il 27 gennaio 1942. Dopo alcuni mesi difficili di confino scontati a Lanciano, Tristano torna sul finire dell’anno a Firenze, dove riprende subito l’attività clandestina, divenendo nei mesi dell’occupazione tedesca protagonista indiscusso della Resistenza cittadina nelle file del Partito d’Azione. Della sezione fiorentina Codignola è infatti eletto segretario nel 1945, mantenendo a partire dallo stesso anno e sino al 1947 anche il ruolo di direttore dell’organo politico del partito, il settimanale Non mollare! che riprende il nome della testata fondata a Firenze nel 1925 dal gruppo antifascista di Italia Libera.

È appunto al Partito d’Azione che, nella sua coeva riflessione politica, Codignola riconosce nel quadro dell’Italia postbellica il ruolo di forza socialista di tipo nuovo, a cui spetta attuare una rivoluzione democratica e un rinnovamento di tutti gli istituti fondamentali della vita italiana. Una missione questa per la quale Codignola cerca di lavorare spingendo il partito, dopo la caduta del governo Parri e la fine della stagione ciellenista, verso un’impostazione di sinistra di tipo rivoluzionario che è quella propria dell’interpretazione fiorentina dell’azionismo, legata cioè ancora una volta al socialismo liberale dei Rosselli: “per noi toscani il partito non può avere che un senso rivoluzionario, perché vuole cambiare tutta l’organizzazione statale italiana” afferma Codignola parlando al I Congresso nazionale del PdA che si tiene a Roma nel febbraio del 1946 e che sancisce appunto la vittoria della sua mozione sull’indirizzo politico del partito.

"Non Mollare!", Firenze, 6 febbraio 1946

“Non Mollare!”, Firenze, 6 febbraio 1946

A muovere Codignola su questa strada è anche la preoccupazione di ricondurre ad unità ideologica e politica il partito a fronte dei vari dissidi interni e di dotarlo così di una posizione autonoma e di equilibrio rispetto alle tentazioni trasformiste che nel nuovo quadro politico che anticipa il doppio voto del 2 giugno 1946 animano anche il campo delle sinistre. Già in previsione di questo passaggio fondamentale, discutendo dei possibili e futuri schieramenti interni all’Assemblea Costituente, Codignola, mentre riconosce nel PdA la “punta avanzata della democrazia progressista” e il solo “partito intimamente ed essenzialmente democratico”, gli attribuisce al contempo il compito di “creare il terreno di equilibrio fra socialisti e comunisti, impedire ai primi una politica di trasformismo, impedire ai secondi una prevalenza di motivi classisti (creatori di privilegi) su motivi democratici” imponendo al contempo “il chiarimento delle posizioni conservatrici della democrazia cristiana” (T. Codignola, Al di là della Costituente, «Non Mollare!» 18 aprile 1946).

In modo non dissimile, mentre egli riafferma a seguito dell’esito del voto del 2 giugno il valore della scelta repubblicana come “l’unica soluzione logicamente democratica”, ravvisa nuovamente la pericolosità della “tendenza di comunisti e socialisti a varare con la Democrazia Cristiana un accordo di condomino governativo” rivendicando invece per il PdA la scelta coerente di rimanere all’opposizione; un’opposizione tuttavia costruttiva che “come funzione essenziale della vita democratica e della dialettica parlamentare, si risolve in effettiva collaborazione da svolgersi attraverso il libero contrasto anziché attraverso la corresponsabilità di governo” (T. Codignola, Dalla monarchia alla repubblica, «Non Mollare!» 8 giugno 1946). Emergono già da queste posizioni il riconoscimento più tardo che Codignola avrà modo di fare del Parlamento come luogo preposto al libero e democratico confronto, nonché la sua peculiare natura di deputato e politico disposto a ricercare il compromesso nella concretezza dell’agire politico, senza mai però scendere a patti su questioni di principio.

Breve profilo biografico del candidato Codignola ("L'Italia Libera", Roma, 4 maggio 1946)

Breve profilo biografico del candidato Codignola (“L’Italia Libera”, Roma, 4 maggio 1946)

Alle elezioni del 2 giugno per l’Assemblea Costituente, Codignola si candida per il PdA nel XV Collegio elettorale di Firenze-Pistoia, nonché contemporaneamente nel XVI di Pisa-Livorno-Lucca-Apuania. Nella prima circoscrizione è presentato al quarto posto della lista azionista dopo Piero Calamandrei, capolista, Max Boris e Carlo Campolmi ed ottiene il terzo miglior piazzamento con 566 preferenze a fronte dei 1.941 voti del Calamandrei e dei 756 di Carlo Furno. Nella seconda circoscrizione Codignola appare invece in terza posizione dopo Guido Calogero e Amato Mati, piazzandosi al secondo posto con 588 voti di preferenza alle spalle di Calogero che ne ottiene 1.266. Il responso che il suo nome ottiene alle urne è quindi positivo, benché in realtà l’esiguo risultato elettorale riportato complessivamente dal PdA (334.784 voti, di cui 28.364 in Toscana) non consente al partito l’ottenimento di alcun quoziente pieno, di modo che i propri candidati potranno esser eletti solo tramite il Collegio Unico Nazionale. Tra i sette deputati azionisti eletti così nella lista nazionale all’Assemblea, Codignola risulta il settimo, alle spalle di Alberto Cianca, Riccardo Lombardi, Piero Calamandrei, Fernando Schiavetti, Leo Valiani e Vittorio Foa. Questi, entrati in Assemblea, costituiscono il gruppo parlamentare definitosi “autonomista” unendosi a Ferruccio Parri e a Ugo La Malfa, fuoriusciti dal PdA nel febbraio ed eletti nella lista di Concentrazione Democratica Repubblicana.

Nonostante Codignola sia tra i deputati più giovani, la sua attività all’Assemblea si distingue per la quantità e qualità degli interventi che vi svolge, nonché per l’evidente capacità dialettica e critica che contraddistingue il suo interloquire. Due sono soprattutto gli ambiti di discussione nei quali egli fa sentire con autorevolezza la propria voce. Da un lato vi è la questione dell’ordinamento autonomistico della Repubblica, tema non nuovo in Codignola che già della necessità di uno Stato a base autonomistica aveva parlato nelle Direttive programmatiche al PdA fiorentino del giugno 1944, quando aveva inteso l’autonomia come “autogoverno e autocontrollo del cittadino che ha il diritto e il dovere (…) di gestire direttamente la cosa pubblica insieme con gli altri consociati”. Più tardi, nell’ambito dei lavori della Costituente, Codignola auspica una riforma autonomistica ispirata alla necessità “di ravvicinare la rappresentanza alla base del Paese, e di affidare a questa rappresentanza i più ampi poteri di autogoverno e di legislazione locale nell’ambito della legislazione generale”. Colpisce in tal senso come in Codignola la difesa delle autonomie di cui si fa proponente sia però sempre intesa nel pieno rispetto dei principi generali dello Stato come pure a difesa della sua stessa unità: “una effettiva e radicale riforma autonomistica non è quella che indebolisce la unità dello Stato, ma quella che la rafforza” (T. Codignola, Chiarificazione sulle autonomie, «Italia Libera» 2 agosto 1946). Si capisce anche da questo passaggio, come egli, pur facendosi garante più volte della difesa delle autonomie regionali e in particolare della necessità di garantire costituzionalmente le minoranze etniche e linguistiche delle zone di confine, avesse però ritenuto discutibile il sistema col quale si stava dotando alcune regioni italiane di statuti speciali, che a suo giudizio si erano rivelati in alcuni casi incompatibili con il principio di unità dello Stato. Per questo, nel luglio del 1947 aveva proposto con un emendamento all’articolo 108 del Titolo V del Progetto di Costituzione della Repubblica (poi non approvato) la necessità di formulare una dichiarazione che, nel rispetto dell’ordinamento regionale, garantisse però al contempo il mantenimento delle libertà fondamentali garantite ai cittadini dalla Costituzione.

T. Codignola, "Chiarificazione sulle autonomie" ("Italia Libera" 2 agosto 1946)

T. Codignola, “Chiarificazione sulle autonomie” (“Italia Libera” 2 agosto 1946)

A fianco del problema delle autonomie, è però il tema della scuola che in sede di Costituente suscita più di altri la vis critica di Codignola e l’appassionata difesa dei suoi principi. Sicuramente, l’impegno di Codignola su questo aspetto è da ricondursi in buona parte al peso che la questione dell’insegnamento esercita su di lui per il tramite del padre e dei suoi interessi pedagogici, interessi che peraltro egli condivide e che nel prosieguo della sua carriera parlamentare lo spingeranno in fatto di istruzione a divenire uno dei principali riformatori dell’Italia repubblicana. La battaglia che nell’aprile del 1947 Codignola porta avanti entro l’Assemblea Costituente soprattutto sugli articoli 27 e 28 del progetto (poi divenuti gli articoli 33 e 34 della carta costituzionale) è anzitutto una battaglia combattuta per la formazione di coscienze libere all’interno di una società laica e democratica. La matrice libertaria della pedagogia del Codignola si scontra in questa sede con l’impostazione dogmatica delle forze cattoliche, sullo sfondo di una accesa battaglia per la difesa della scuola pubblica.

T. Codignola, "La scuola resta allo Stato" ("L'Italia Libera" 1 maggio 1947)

T. Codignola, “La scuola resta allo Stato” (“L’Italia Libera” 1 maggio 1947)

Secondo Codignola, anzitutto, il progetto di Costituzione avrebbe dovuto limitarsi a indicare qualche breve dichiarazione generale, lasciando alla legislazione ordinaria il compito di affrontare i problemi particolari dell’ordinamento scolastico. In tal senso, i principi generali da affermare entro la carta costituzionale sarebbero dovuti essere quelli della libertà di insegnamento, del diritto di controllo dello Stato sull’insegnamento, e del riconoscimento della gratuità dell’istruzione almeno fino al 14° anno di età. Sul primo dei tre, tuttavia, è in atto un pericoloso equivoco dietro al quale, rivela Codignola nel suo appassionato intervento in aula del 21 aprile 1947, si cela la contrapposizione tra il principio laico di “libertà nella scuola” e quello cattolico di “libertà della scuola”. I cattolici e le forze democristiane, con libertà di insegnamento intendono soprattutto affermare la “libertà della scuola”, cioè il dovere dello Stato di garantire a chiunque – ad istituti ed enti privati quindi – la piena libertà di organizzare ed esercitare la funzione educativa, dice Codignola, “fino alle estreme conseguenze che siano loro consentite”. Ciò significa però che la scelta dei contenuti, delle idee e dei comportamenti da trasmettere nell’insegnamento rischia di essere ispirata a principi di parte e diventare nel caso della scuola cattolica un’educazione autoritaria all’accettazione di una verità rivelata che è una Verità sola. La scuola della Repubblica deve invece educare al pensiero libero e critico, perché se suo scopo è quello di assicurare un’educazione democratica del cittadino l’unico modo è che si faccia portatrice di un principio di libertà di insegnamento che promuova la convivenza e il confronto di diverse posizioni culturali e ideologiche. Soltanto la scuola pubblica, come palestra di confronto tra verità diverse, può assicurare questo principio di libertà. C’è in questa convinzione la consapevolezza, che è propria di Codignola e che non a caso era stata pure alla base della pedagogia del padre, che un’educazione autoritaria rischi di trasmettere un’attitudine autoritaria, laddove invece un insegnamento veramente libero può divenire un propulsore dello sviluppo democratico del paese.

"L'Italia Libera", 22 aprile 1947

“L’Italia Libera”, 22 aprile 1947

Il laicismo di Codignola, sempre presente nella sua attività parlamentare (non a caso egli vota contro l’accettazione nella carta costituzionale del Concordato del 1929) è particolarmente evidente nella difesa che egli fa in aula della scuola pubblica contro gli assalti democristiani e nei riguardi soprattutto del Dc Guido Gonella, il “ministro dell’istruzione privata” come lo apostrofa Codignola, intento a preparare “una riforma clandestina della scuola”. Un argine a simili progetti viene posto soprattutto grazie alla battaglia combattuta dal PdA e dalle altre forze laiche attorno ad un emendamento al comma 1° dell’art. 27 del progetto, firmato assieme ad altri deputati dallo stesso Codignola. Ribaltando il senso di un precedente emendamento democristiano che proponeva la norma del sovvenzionamento da parte dello Stato delle scuole non statali, la controproposta firmata da Codignola – che poi si affermò nella votazione per appello nominale con uno scarto di circa quaranta voti – riconosceva che la piena libertà di istituzione di scuole da parte di enti e di privati fosse però senza oneri per lo Stato. Il tentativo democristiano di porre a carico dello Stato la “libertà della scuola”, nel senso dato dai cattolici, fu in questo modo respinto.

L’impegno profuso in sede di Costituente da Codignola per una scuola pubblica laica e democratica diverrà poi una costante della sua successiva attività politica e parlamentare, sia come responsabile dal 1958 della Commissione scuola del Psi, che come deputato socialista protagonista di numerose battaglie (come quella sostenuta contro il piano decennale per lo sviluppo della scuola presentato nel 1958 dal governo Fanfani)  nel farsi anche di importanti riforme quali l’istituzione della scuola media dell’obbligo (1962), della nuova scuola materna di Stato (1968), nonché della liberalizzazione agli accessi universitari e dei piani di studio sancita dalla legge n. 910 del 10 dicembre 1969, ricordata ancora oggi come “legge Codignola” dal nome del suo ideatore.

Un impegno coerente, quello di Codignola nei riguardi della scuola, che richiama la più generale coerenza con la quale egli portò avanti nella lotta politica i suoi principi fondamentali, spesi sempre a vantaggio dell’affermazione di una compiuta democrazia laica e socialista.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




“Una indifferenza in politica non è concepibile”

Con le riconquistate libertà il popolo torna infine ad avere il diritto di esprimersi, di denunciare le vere cause delle proprie sofferenze e di suggerire quei rimedi tendenti a migliorare una situazione oltremodo grave”. Come sottolineano queste parole scritte su “La Martinella” del 10 settembre 1944, numero unico dei socialisti senesi, che nel titolo si richiamano al loro periodico pubblicato fra il 1896 e il 1915, la ripresa e la diffusione legale, di una stampa libera e democratica è uno dei segni dell’avvento di una nuova fase nella storia del paese, ancora segnato dalle rovine lasciate dalla guerra e dal regime fascista, ma pronto ad aprirsi alle speranze connesse alla liberazione.

Il biennio 1944-’46 costituisce una fase cruciale negli snodi delle vicende nazionali, un momento di peculiare impegno e sfida per le forze politiche e per le rinate istituzioni per ricostruire non solo materialmente il Paese, ma anche moralmente e civilmente stabilendo i principi democratici su cui fondare la convivenza civile, una rinnovata concezione di cittadinanza.
Proprio i giornali sono così una fonte significativa per cogliere il difficile processo con cui le diverse forze politiche cercano di comunicare e diffondere regole e principi di una convivenza civile, provano a operare i primi passi di una “rieducazione” alla democrazia degli italiani. Si tratta di un processo dialettico complesso e dagli esiti incerti, tra questa volontà e le strategie con cui ogni singolo partito cerca di affermare se stesso nel consenso popolare. Tuttavia, pur di fronte alle rovine lasciate dal fascismo e dalla guerra, in un contesto di nuove emergenze, aggravate da un clima di diffusa abitudine alla violenza e all’illegalità e dalle alle tragiche eredità e consuetudini del “fare politica” sotto il fascismo, le forze antifasciste seppero esprimere un linguaggio comune, un medesimo impegno per educare gli italiani alla democrazia, fondato sul valore della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica, la sottolineatura dell’importanza del voto, il rifiuto della violenza, l’invito al rispetto della legalità, il riconoscimento del valore identitario della Resistenza.

La Toscana mostra in questi anni un tessuto particolarmente favorevole alla costruzione di una nuova identità democratica e nazionale che trova espressione nell’opera del Comitato Toscano di Liberazione nazionale (CTLN) che aveva guidato la Resistenza e la Liberazione di Firenze, delle tante giunte dei CLN locali, nei partiti, nelle nascenti strutture del sindacato e dell’associazionismo, come emerge dalla lettura di una stampa particolarmente ricca e varia che, dopo la fine della guerra nella primavera del ’45, pur nella pluralità delle linee espresse, mostra sulle proprie pagine un’attenzione costante all’educazione democratica dei cittadini.
Su periodico azionista “Non mollare” del 2 novembre del ’45, Tristano Codignola scrive infatti: serve “un metodo di educazione di lento travaglio, di ripensamento e rifacimento di molti dei nostri istituti e caratteri fondamentali di popolo, di ricostruzione degli spiriti e delle cose. […] Questa strada è quella, come dicevo dianzi, della rivoluzione democratica, della ricostruzione, anzi della costruzione degli istituti della democrazia in un paese – e per questo è una rivoluzione – che democratico non fu mai”. Il fiorentino “L’azione comunista” dichiara: “i comunisti vogliono oggi che si realizzino le condizioni elementari della democrazia italiana e vorranno domani lavorare per il progresso costante di questa democrazia” (28 ottobre 1945). Il periodico della DC fiorentina “Il popolo libero” indica come compito principale “educare il nostro popolo a pensare ed acquisire con ciò consapevolezza dei propri doveri e diritti” (16 novembre ’45). Nel “dovere della partecipazione politica e dell’interesse alla cosa pubblica”, dietro cui coglie l’antica lezione mazziniana, “La Voce del Popolo” periodico della sezione del Pri fiorentino individua l’unico strumento per migliorare le coscienze individuali ed affrontare e risolvere la miseria e le distruzioni che attanagliano il paese (10 marzo 1946).

La legittimazione della prassi elettorale è una componente essenziale del processo di concreta educazione alla democrazia che questi periodici portano avanti, un punto comune, e non scontato, in cui tutti si riconoscono. Si legge sul giornale della DC fiorentina “Il popolo libero”: “Quello che urge quindi è proprio questa rieducazione del popolo, questo interessarlo ai problemi politici, questa preparazione alla sua partecipazione elettorale. Bisogna convincerlo che il voto non è da considerarsi come un diritto più o meno rinunciabile ma come un dovere. […] Perché una indifferenza in politica non è concepibile” (5 ottobre 1945); “La Difesa”, periodico socialista, sottolinea le difficoltà dopo il Ventennio fascista: “da oltre un ventennio in Italia non si facevano più le libere consultazioni popolari, qualche generazione d’Italiani non conosce neppure i vari sistemi elettorali ed alcuni ignorano perfino l’importanza e l’alto significato che in questo momento assume da parte del cittadino l’esercizio del voto. Questa pratica di uno dei più importanti diritti che competono ai cittadini della democrazia era stata nel ventennio fascista, non solo soppressa, ma addirittura resa impopolare.” (6 febbraio 1946). Anche la stampa liberale esalta il ritorno al voto: “torna il giorno in cui potremo tornare alle urne, rivestiti dalla nostra dignità, ed introdurre una scheda che sarà soltanto l’espressione delle nostre libere convinzioni” (“L’Ombrone“, 24 gennaio’46). Per i comunisti il momento elettorale segna il compimento del processo iniziato con la lotta di liberazione dal nazifascismo: “Il popolo italiano ingaggiò la lotta contro il fascismo non solo per distruggere tutte quelle brutture che aveva generato e per cancellare l’onta della schiavitù, ma per risorgere a nuova vita, […e] duramente combattendo, ha vinto la prima fase della lotta – quella armata- ma non ha ancora vinto quella legale.” (“L’azione comunista” 6 aprile 1946). In numerosi articoli, i periodici di tutti i partiti dal liberale “La provincia”, al “Popolo libero” democristiano, a quelli socialisti, si dilungano in accurate spiegazioni delle modalità del voto, descrivendo con certosina precisione tutti i passaggi che l’elettore deve fare dall’ingresso nel seggio elettorale all’inserimento delle schede nelle urne, con la riconsegna delle matite copiative, certo in primo luogo per evitare errori che possano compromettere il voto alle proprie liste (“Popolo libero”, 6 febbraio ’46), ma allo stesso tempo diffondendo e consolidando fra la popolazione le prassi e i riti del meccanismo elettorale dopo ventennale assenza.

Quest’opera di educazione alla convivenza e di definizione di una nuova cittadinanza fondata sui principi democratici è importante perché non si limita al solo momento elettorale, ma è parte di un impegno a consolidare le basi delle nuove istituzioni e della convivenza ristabilita mostrando l’importanza dei partiti e l’opera delle amministrazioni locali per il processo della ricostruzione e per la vita della comunità, così si sottolinea che “Funzione dei partiti è quella di destare i dormienti, di chiamarli alla lotta politica, interessarli ai problemi sociali, è quella di dar loro coscienza e volontà di cittadini” (“La Nazione del Popolo” suppl. a cura PSIUP del 1 luglio ’45).
Infine, in questa fase, nel contesto toscano non si può non notare che, pur con accenti diversi da parte dei vari partiti, la Resistenza è l’elemento di comune legittimazione, tanto che, per esempio, il periodico fiorentino della DC dichiara che “i CLN hanno scritto nella storia d’Italia una pagina che non dovrà essere rinnegata” (“Il popolo libero” 5 ottobre ’45) tanto da divenire fattore costitutivo dell’identità regionale, nonostante la durezza della contrapposizione politica ed ideologica che si innesta rapidamente con l’incipiente “guerra fredda” e l’azione di delegittimazione svolta dalle forze qualunquiste già nella seconda metà del ’45, e il riferimento ideale che conferisce senso e prospettiva allo stesso processo di educazione alla democrazia, quale sistema di valori su cui fondare la ricostruzione del Paese.

Articolo pubblicato nel maggio del 2016.




Leda Rafanelli, libertaria e musulmana, giornalista e scrittrice

Della lunga vita (Pistoia, 1880-Genova,1971) di Leda Rafanelli, dedita fin dalla prima giovinezza non solo alla militanza nel movimento anarchico, ma anche all’attività di pubblicista e scrittrice, è impossibile dare in poco spazio una sintesi sia pure estrema. Ci si limiterà, qui, a concentrare l’attenzione sul periodo della sua formazione giovanile, in cui già si incontrano realizzati esempi della sua vulcanica poliedricità.

Leda si stabilisce a Firenze nei primissimi anni del ‘900, secondo la ‘vulgata’ (trasmessa dalla maggioranza di suoi biografi e critici) dopo essere rientrata da un soggiorno in Egitto, dove si sarebbe convertita contemporaneamente all’anarchismo e alla fede musulmana. Peraltro non vi è certezza che tale soggiorno sia effettivamente avvenuto e tanto meno che ad Alessandria d’Egitto la giovane Leda abbia avuto contatti con l’ambiente anarchico de “La Baracca Rossa” fondata da Enrico Pea. Se Leda rimase sempre molto sul vago a proposito di quel viaggio, fu lo studioso Pier Carlo Masini, a lungo suo amico, ad accreditare tale narrativa (si vedano: Iréos e Djali, in Luigi Fabbri, Studi e documenti sull’anarchismo tra Otto e Novecento, Pisa, BFS edizioni, 2005 e l’introduzione a Una donna e Mussolini, Milano, Rizzoli, 1946). Lo stesso Masini riporta la descrizione fatta da Leda (nell’inedito Pensieri del 1897) del proprio incontro, che sarebbe avvenuto in questa circostanza, con Luigi Polli.

Quello che invece è certo è che Leda incontrerà (nuovamente o per la prima volta) Luigi Polli, che sposerà nel 1902, nell’ambiente della Camera del Lavoro di Firenze. In questo stesso contesto Leda incontra e stringe amicizia con gli “ultimi internazionalisti” (‘reduci’ della Prima Internazionale antiautoritaria) Giuseppe Scarlatti, Francesco Pezzi e la sua compagna Luisa Minguzzi, fondatrice della prima sezione femminile dell’Internazionale.

untitledA Firenze Leda, la cui scolarizzazione si era fermata alla seconda elementare, lavora come tipografa e pubblica il suo primo opuscolo “di propaganda”, Alle madri italiane (1901) con la Libreria editrice G. Nerbini. Qui Leda si riferisce ancora a se stessa come “socialista” e rivolge alle madri il messaggio di “noi socialisti”, propugnando l’idea seppure non del rifiuto totale della religione da parte delle madri credenti, di una religione spogliata dalle sovrastrutture ecclesiastiche.

Nel 1903 inizia la lunga e intensa collaborazione (che durerà fino al 1906) di Leda a «La Pace», il quindicinale antimilitarista di Genova diretto da Ezio Bartalini, giovane socialista dissidente. In quello stesso anno suoi versi e bozzetti in prosa che hanno per oggetto le ingiustizie della società e la persecuzione nei confronti degli anarchici, appaiono su «L’Agitazione», “periodico socialista anarchico” pubblicato a Roma. Dal 1904 in poi la sua firma è frequente su vari altri giornali: «Il Libertario» di La Spezia (dove molti degli articoli appaiono a firma del “Comitato pro-vittime politiche”, costituito nel 1904 insieme a Scarlatti e ai coniugi Pezzi), «La Voce della donna», «L’Allarme», «Il Grido della folla», «L’Aurora», «Energia»: periodico dei giovani socialisti, «La Donna socialista», «In Marcia», «La Protesta umana».

Lo stile giornalistico di Leda si distingue fin da ora per la sua versatilità: i temi che le stanno più a cuore, in particolare quelli dell’antimilitarismo e della lotta per la giustizia e la libertà, vengono affrontati non solo in articoli polemici, ma anche attraverso l’uso di versi e ‘bozzetti’.

Sempre degli anni fiorentini è l’incontro di Leda con importanti esponenti libertari: nel dicembre 1905, al convegno dei sindacalisti rivoluzionari di Bologna a cui partecipano Leda e Luigi Polli, sono presenti, tra gli altri, Luigi Fabbri, Oberdan Gigli, Armando Borghi e Pietro Gori. E del credito che Leda ormai godeva in campo libertario fa fede il fatto che proprio lei firma la prefazione allo scritto di Borghi del 1907, Il nostro e l’altrui individualismo.

È del 1906, poi, la fondazione da parte di Leda e di Luigi Polli (con la collaborazione di Scarlatti) del giornale «La Blouse», realizzato “da autentici lavoratori del braccio” per i “tipi Rafanelli-Polli”.

L’attività di collaborazione e fondazione di giornali non la porta a trascurare la scrittura di opuscoli di propaganda, come pure quella di racconti e romanzi: il 1907 è un anno di intensa produzione di pamphlet, stampati inizialmente dalla “Tipografia Ugo Polli” e poi dalla “Libreria editrice Rafanelli-Polli”. Di tale prolificità e varietà di generi dà conto il lungo elenco che si trova al fondo A l’Eva schiava di scritti precedenti “e che possono essere ordinati della stessa autrice”. Si tratta di: Un sogno d’amore; Le memorie di un prete; La caserma … scuola della nazione (dal diario di un soldato); Amando e combattendo; La bastarda del principe; Contro la scuola; Dal ‘Dio’ alla libertà; Società presente e società avvenire.

Nei pamphlet del 1907 è ormai chiaro il passaggio all’ideologia anarchica, dichiarata con orgoglio nell’enfatizzato “noi libertari”, insieme ad un accentuarsi dell’antimilitarismo e della critica della religione, con l’appello alle madri per richiamarle al loro dovere di educare i figli agli ideali di giustizia e libertà.

Il lungo e fecondo periodo fiorentino, insieme al matrimonio e sodalizio con Luigi Polli, si avviano a conclusione quando Leda incontra Giuseppe Monanni, un anarchico aretino che si era trasferito a Firenze nel 1907 e qui aveva fondato la rivista «Vir». A metà del 1908 la coppia si trasferisce a Milano dove inizia la collaborazione a «La Protesta umana» edita da Ettore Molinari e Nella Giacomelli.

A Milano inizia il successivo lunghissimo e sempre intensissimo capitolo della vita, militanza e attività di giornalista e scrittrice di Leda. E se dall’attività politica Leda si ritirerà progressivamente a partire dal 1919, quella di scrittrice prosegue invece fin quasi all’ultimo della sua lunga vita che si conclude a 91 anni, nel 1971, a Genova.

Articolo pubblicato nel marzo del 2016.




La potenza creativa dell’azione violenta

Le prime sporadiche apparizioni del fascismo a Pistoia cominciarono nell’autunno del 1920.  In città le elezioni amministrative, tenutesi nell’ottobre, avevano segnato, come in molte altre zone del Paese, una netta affermazione dei socialisti, che si aggiudicarono nel capoluogo del circondario la metà dei seggi nel consiglio comunale. I socialisti vincevano anche nei comuni vicini, a prevalenza contadina, di Larciano e Lamporecchio e in quelli montani di San Marcello e Sambuca, mentre i popolari prendevano le zone agricole di Montale, Agliana, Tizzana e il comune montano di Marliana. La vecchia classe dirigente liberale veniva scalzata dalle sue posizioni consolidate. Pistoia nei mesi precedenti aveva vissuto i moti del caroviveri come il resto della Toscana, nonché aspri conflitti agrari e l’occupazione delle fabbriche come altrove in Italia. Nonostante nel tardo autunno del 1920 sia il movimento socialista che quello popolare fossero già entrati in una fase di riflusso, la “grande paura” fece sentire i suoi effetti nei ceti agiati unendosi ai sentimenti di rivalsa conseguenti alla sconfitta elettorale, aprendo quel cruciale spazio di azione ai fascisti all’interno del quale si sviluppò il loro l’insediamento, in maniera analoga a quanto messo più volte in luce dalla storiografia per tante altre zone.

I primissimi fascisti si organizzarono a Pistoia attraverso un reduce, il maggiore Nereo Nesi, e nella zona di Larciano intorno a Idalberto Targioni, un ex socialista, tra i fondatori della Camera del Lavoro, protagonista di una parabola tipica di molti fascisti e dello stesso Mussolini. Interventista nel 1915, il 29 marzo del ’19, a meno di una settimana dalla fondazione dei Fasci di combattimento a Milano, su «Il popolo pistoiese» – giornale dei liberali e presto fiancheggiatore del fascismo – sosteneva il suo credo nella «potenza creativa dell’azione che afferra l’essere in via di formazione e che la violenza generi uno stato epico ed eroico. […] Se i governi non risolveranno gli ardui problemi che stanno oggi sul tappeto della storia, se non li risolveranno nel modo più equo e giusto per tutti e segnatamente per le classi lavoratrici, allora sarà giunto il momento di passare all’azione diretta. Ma vedete: allora, voi che oggi vi scalmanate tanto, sareste i primi a far contro ai rivoluzionari e a scappare a gambe levate!»

Questo fascismo, dai caratteri reducistici e rivoluzionari, compiva alcune iniziali e sporadiche azioni nell’ottobre-novembre del 1920. La prima notizia certa della presenza di un fascismo organizzato a Pistoia arrivò subito dopo e sottotono, in un trafiletto su «Il popolo pistoiese» del 25 dicembre che riportava l’invito del Fascio di combattimento, in occasione della commemorazione di Oberdan, ad esporre il vessillo nazionale, preoccupandosi comunque di ricordare che nel comizio avvenuto alla Fratellanza Artigiana non erano avvenuti incidenti.

Come altrove, i fascisti fiorentini non tardarono a fornire il loro appoggio strutturato al nascente squadrismo pistoiese. Il 7 gennaio 1921 si diffondeva un primo allarme che preannunciava l’arrivo di una spedizione da fuori, secondo una prassi tipica delle azioni squadristiche, mentre «Il popolo pistoiese» rassicurava sulle buone intenzioni dei fascisti pistoiesi, non interessati a creare disordini ma pronti a «rintuzzare le provocazioni con coraggio e di rispondere alla violenza con la violenza». La spedizione del 7 alla fine non avvenne, ma nel mese di gennaio i fascisti provocavano una rissa nella zona vicina di Pieve a Nievole, in direzione di Lucca, e due bombe scoppiavano, una in città e una sulla linea ferroviaria Porrettana.
Il 22 gennaio infine si costituiva ufficialmente il Fascio  pistoiese. Un mese dopo, il 20 febbraio, arrivava il battesimo del fuoco. La Camera del Lavoro pistoiese aveva organizzato un comizio in piazza Garibaldi, a cui doveva parlare il segretario Onorato Damen. Rincalzati da una quarantina di fascisti fiorentini e da altri provenienti da Monsummano e Pescia, gli squadristi pistoiesi radunarono un centinaio di uomini con l’intento di recarsi in piazza, chiedere un contraddittorio per interrompere il comizio e provocare incidenti. La forza pubblica in questa prima occasione fece il suo dovere impedendo ai fascisti di raggiungere la piazza, che comunque si spopolò alla vista delle squadre nelle vicinanze. Alla fine della manifestazione i fascisti, con il consenso della autorità, si impossessarono simbolicamente del palco, tennero un comizio e poi sfilarono in corteo nel centro cittadino cantando i loro inni. La messa in scena scenografica tipica della conquista del territorio veniva messa in pratica nonostante in quella prima occasione fosse mancata la forza di arrivare a uno scontro diretto. Tuttavia, prima di ritirarsi, gli squadristi raggiunsero in treno Corbezzi, provocando tafferugli nelle stazioni attraversate lungo il tragitto. Nel paese di montagna si procedeva alla bastonatura dei “sovversivi” per poi tornare a piedi verso la città, con i trofei presi agli avversari e continuando a provocare incidenti nelle frazioni di Valdibrana e Capostrada, dove i fascisti spararono anche alcuni colpi di rivoltella. In ultimo, prima di rientrare a Firenze, gli squadristi fiorentini attaccarono i ferrovieri socialisti nella stazione del capoluogo.

La prima spedizione era compiuta, il Fascio costituito e radicato, il morale elevato. Iniziava l’epoca della violenza squadrista organizzata a Pistoia.

 

Stefano Bartolini è ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia e coordina le attività di ricerca storica, archivistiche e bibliotecarie della Fondazione Valore Lavoro. Ha partecipato al recupero dell’archivio Andrea Devoto ed attualmente si occupa di storia sociale, del lavoro e del sindacato. Tra le sue pubblicazioni: Fascismo antislavo. Il tentativo di bonifica etnica al confine nord orientaleUna passione violenta. Storia dello squadrismo fascista a Pistoia 1919-1923Vivere nel call center, in La lotta perfetta. 102 giorni all’Answers.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




CONFINI DIFFICILI

«Il “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale…» come recita il titolo della legge istitutiva del marzo 2004, fa parte di quel calendario civile della nostra Repubblica che ormai si è consolidato all’interno dell’insegnamento della storia contemporanea nella scuola, calendario che nel suo insieme, si pensi anche al “Giorno della memoria”, racchiude in sé temi e problemi sia di carattere storiografico che di didattica della storia.

La rete degli istituti storici della resistenza non si è sottratta all’impegno che l’istituzione del Giorno del Ricordo richiedeva e tutt’ora richiede in termini di ricerca storica, di approfondimento dei canoni interpretativi e di mediazione didattica. Di conseguenza,un approccio alle vicende del Confine orientale non celebrativo ma la costruzione di una tappa di conoscenza che, depurata dall’insidiosa tendenza all’assolutizzazione di chiavi emotive e a semplificatorie focalizzazioni chiuse in ambiti cronologici ristretti, si avvalga di modelli esegetici e di ricostruzioni storiche di lungo periodo dove le drammatiche e dolorose vicende delle foibe e degli esodi siano inserite in un contesto di storia dell’Europa, prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale. Non è un caso se, nell’ottobre dell’anno successivo all’entrata in vigore della legge, si svolgeva a Torino un Corso di formazione per insegnanti e formatori sulla Storia della Frontiera Orientale, promosso dall’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia con l’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia di Trieste e con l’Istituto piemontese per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea di Torino, primo momento di messa a punto e di verifica di un approccio di lungo periodo come si evince dal titolo del volume che ha raccolto gli atti di quell’evento (Dall’impero austro-ungarico alle foibe. Conflitti nell’area alto adriatica, Torino, Bollati Boringhieri, 2009). Ma il Confine orientale come laboratorio per la storia del Novecento con tutte quelle implicazioni sulla formazione dei docenti e di didattica sul campo che lo strumento laboratorio comporta, non può essere compreso senza far riferimento al lavoro pionieristico dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia che ben prima del 2004 si è impegnato sul terreno della promozione della ricerca, dell’attività editoriale nonché del rapporto con la scuola coniugando sul proprio territorio il nesso tra memoria, conoscenza storica e i luoghi che ne contengono le tracce (si veda il sito http://www.irsml.eu/ e per completezza dell’informazione anche il sito dell’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine: http://www.ifsml.it/blog2/ ).

La condivisione di iniziative e di contenuti, tratto peculiare della rete degli istituti, è stato il presupposto che ha generato l’impegno dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana su queste tematiche, impegno stimolato dall’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea che nella nostra regione ha svolto un ruolo di apripista con un viaggio di studio ‘intorno al confine orientale’ nel 2009, preceduto da un intenso lavoro di preparazione iniziato nel 2005 (cfr.:Luciana Rocchi, La nostra storia e la storia degli altri: viaggio intorno al Confine Orientale, in Senza più tornare. L’esodo istriano, fiumano, dalmata e gli esodi nell’Europa del Novecento, Torino, Edizioni SEB 27, 2012).

Il Progetto Confini difficili. Storia e memorie del ‘900. Da Trieste a Sarajevo – partito, per la prima volta, nell’anno scolastico 2011-2012, proseguito negli anni successivi e tuttora in corso – non può essere compreso se non si tiene conto dell’esperienza maturata e del patrimonio comune prodotti dalla rete degli istituti attraverso una molteplicità di iniziative, di progetti, di strumenti didattici in circa un decennio e nasce dall’incontro tra l’ISRT e l’associazione culturale “pAssaggi di Storia” con lo scopo di proporre un percorso tematico e didattico per gli insegnanti delle scuole superiori del territorio fiorentino e toscano sulla storia e le memorie di alcuni confini difficili del secolo scorso per sostenere una cultura di pace e di dialogo. Si articola in un ciclo di lezioni, di cui per comprenderne l’importanza si elencano i titoli delle lezioni previste per marzo, aprile, maggio 2015: Balcani, stratificazioni storiche: lingue, religioni, nazioni; Proposte didattiche oltre i confini identitari aestovest; La seconda guerra mondiale tra Italia e Jugoslavia; La questione nazionale nella Jugoslavia socialista 1945–1991; Le guerre jugoslave 1991-1995, e in un viaggio-studio come riflessione e approfondimento della storia del territorio che va da Trieste a Sarajevo con particolare accento sulla questione delle memorie divise presenti nelle narrazioni del ‘900. Il prossimo viaggio, nel settembre 2015, toccherà, i seguenti luoghi: Gonars, Gorizia, Basovizza (Friuli Venezia Giulia); Lubiana (Slovenia); Jasenovac-Donja Gradina (Croazia e Bosnia Erzegovina); Prijedor, Kozara, Sarajevo (Bosnia Erzegovina).

La possibilità di conoscere direttamente i partner in Slovenia, Croazia e Bosnia-Erzegovina rappresenta un’opportunità per l’ISRT intenzionato ad allargare le collaborazioni anche a livello internazionale e per le scuole coinvolte interessate a conoscere queste realtà; quindi entra in gioco anche una valenza di scambio e cooperazione internazionale tra istituti di ricerca e associazioni che si occupano di storia e memorie.

Dopo il viaggio è previsto un convegno storico-didattico – si riportano i temi oggetto di quelli degli anni passati: Gli esodi forzati di popolazione in Europa centrale e in alto Adriatico alla metà del XX secolo (2012); Confini, identità, violenze in alto Adriatico e nei Balcani nel lungo XX secolo (2013); Nazioni in guerra, guerra in Europa. Da Sarajevo a Sarajevo: tra alto Adriatico e Balcani occidentali 1914-2014 (2014); L’alto Adriatico tra guerra e pace nel Novecento europeo (2015), destinato alla scuole e aperto alla cittadinanza. che rappresenta l’occasione per i docenti partecipanti al progetto di riportare, attraverso i materiali raccolti e rielaborati, le proprie riflessioni sulle tematiche affrontate e con il coinvolgimento attivo degli studenti delle proprie classi. L’incontro si caratterizza, infatti, non solo per la presenza di storici specialistici di queste tematiche che approfondiscono ulteriormente i temi già affrontati nel ciclo di lezioni ma per la presentazione dei lavori da parte degli studenti stessi ed è anche occasione per informare e coinvolgere nel progetto altri insegnanti.

Articolo pubblicato nel febbraio del 2016.




La memoria della Shoah e la costruzione dell’Europa: percorsi e sfide dal dopoguerra ad oggi

Gentili signore e signori, consiglieri, autorità presenti, Rabbino Levi, sono molto onorato di essere stato invitato come relatore in occasione di questa importante ricorrenza e vorrei esprimere per ciò un sentito ringraziamento al Consiglio regionale, al suo Presidente Eugenio Giani e al Presidente della Regione Toscana Enrico Rossi.

Lo scorso anno le celebrazioni della Giornata della Memoria furono contrassegnate dal forte impatto emotivo suscitato dagli attentati terroristici di matrice islamista condotti a Parigi contro la sede del giornale Charlie Hebdo e un supermercato di prodotti Kosher. Nel cuore dell’Europa era stato lanciato un attacco omicida ai valori della laicità e della democrazia. E quell’attacco aveva assunto anche le vesti di un virulento antisemitismo. Dodici mesi dopo il clima purtroppo non è cambiato, anzi – dopo i tragici episodi avvenuti nella capitale francese lo scorso novembre, l’emergenza profughi, i fatti di Colonia, lo stillicidio di minacce e atti terroristici riconducibili al cosiddetto Stato islamico (ISIS) – la situazione appare ai nostri occhi ancora più allarmante. Come allarmante, per altri aspetti, risulta il fenomeno correlato, ben evidente da tempo in ogni paese europeo, rappresentato dall’erompere di movimenti nazionalisti xenofobi, non privi – soprattutto ad est – di un imprinting antisemita. Un fenomeno che rischia di far saltare i cardini su cui poggia la nostra civiltà democratica.
Dunque, anche quest’anno, qui a Firenze, come in tutta Europa, celebrare la Giornata della memoria ha un sapore particolare; ci chiama ad un compito particolare. Infatti, fare memoria della Shoah non significa semplicemente ricordare lo sterminio degli ebrei e delle altre vittime del nazismo, non significa rievocare il passato, ma implica attribuire al passato – a quel passato – un significato capace di illuminare l’oggi, per aiutarci a compiere le nostre scelte in una situazione difficile.

Ma come si può svolgere questo compito? Da storico ritengo sia utile – direi necessario – riflettere sul significato della memoria della Shoah collocandola nell’ambito più ampio della memoria europea della seconda guerra mondiale, che rappresenta ancora un punto di riferimento fondamentale per la nostra memoria collettiva.
Vorrei dunque provare a tracciare, molto sinteticamente, il percorso evolutivo di questa memoria europea. Lo farò appoggiandomi alle considerazioni di un brillante storico britannico purtroppo prematuramente scomparso, Tony Judt.
Judt ha indicato due grandi fasi della memoria europea del secondo dopoguerra: la prima che ha preso forma dopo il 1945, la seconda dopo il 1989. A suo giudizio, subito dopo il crollo del Terzo Reich, l’Europa è stata ricostruita – ad ovest come ad est – su una memoria fortemente selettiva imperniata su due pilastri comuni: da un lato, il mito della Resistenza come epica e corale lotta di liberazione nazionale contro i nazisti; dall’altro, l’attribuzione alla Germania e ai tedeschi dell’esclusività della colpa per le sofferenze e i crimini della guerra. They did it! Loro l’hanno fatto!
Naturalmente dietro tale raffigurazione stava un corposo nucleo di verità: in tutti i paesi che avevano subito l’occupazione nazista (e dovremmo aggiungere anche fascista) – dalla Norvegia alla Jugoslavia, dalla Francia alla Polonia – erano sorti movimenti di resistenza che avevano coraggiosamente lottato contro l’occupante pagando un prezzo altissimo e non c’è dubbio che sulle spalle dei tedeschi gravasse la responsabilità predominante per lo scatenamento della guerra e i crimini commessi. La “soluzione finale” porta un indelebile marchio germanico. Tuttavia, la glorificazione della Resistenza e la stigmatizzazione dei tedeschi hanno finito per oscurare altri aspetti importanti: la presenza ovunque nell’Europa occupata di forze collaborazioniste che avevano attivamente spalleggiato il nazismo e il fascismo, nonché il fatto che gravi crimini di guerra erano stati commessi da tutti i belligeranti, compresi i vincitori. Basti pensare – solo per fare degli esempi – alle uccisioni di migliaia di ufficiali polacchi perpetrate dall’Armata Rossa (le cosiddette fosse di Katyn), agli stupri compiuti dal Corpo di spedizione francese in Italia (le “marocchinate”), alle foibe (per restare al caso italiano) o alla serie di bombardamenti sui civili di natura terroristica condotti dagli anglo-americani culminati nelle due atomiche lanciate su Hiroshima e Nagasaki. Secondo Judt, la rimozione dalla memoria ufficiale di questi aspetti ha marchiato il Vecchio continente con quella che egli ha definito a vicious legacy – una “eredità maledetta” – caratterizzata da “una deliberata distorsione della memoria”, dall’”oblio come stile di vita”. Oblio del collaborazionismo filo-fascista, non riducibile ad un fenomeno di pochi invasati, e oblio dei crimini compiuti dagli altri, dai non tedeschi.
Il 1989, con la fine della guerra fredda e il ricongiungimento delle due Europee, è stato contrassegnato all’opposto da un “eccesso compensativo di memoria” che le istituzioni hanno promosso in ogni paese per fondare, o rifondare, nuove identità collettive dopo il crollo del Muro di Berlino. Il processo si è indirizzato lungo due nuove direttrici. A ovest, a partire dagli anni Novanta è emersa al centro della scena la memoria della Shoah. Il ricordo dello sterminio degli ebrei era stato certamente presente anche prima, ma – potremmo dire – solo come uno degli aspetti della memoria antifascista. Gli ebrei erano stati considerati una delle tante categorie di vittime del nazismo. Solo col passare degli anni la memoria della Shoah ha guadagnato autonomia e propulsione fino a diventare “mito fondante negativo” della memoria europea. Essa rimanda infatti ad una vera e propria “frattura di civiltà”, rappresenta il “crimine per eccellenza”: “il tentativo di un gruppo di europei di sterminare tutti i membri di un altro gruppo di europei”. In una Europa scossa dal riapparire di manifestazioni di odio antisemita e razzista e dal ripetersi nei suoi confini, dopo l’implosione della Jugoslavia, di crimini atroci contro i civili (si pensi a Sebrenica), la memoria della Shoah è assurta a “narrazione unificante” con valore di monito contro il rischio del ripetersi del Male. “Mai più!”
A est, invece, i paesi usciti da oltre quarant’anni di regimi comunisti sotto il controllo dell’Unione sovietica hanno proceduto a riedificare memorie nazionali rimaste a lungo congelate e hanno coltivato la memoria ancora scottante del comunismo. Essi hanno mostrato alcune differenze fra loro ma anche alcuni importanti tratti comuni: la tendenza a esternalizzare il comunismo come mero frutto dell’imposizione attuata dall’Armata rossa; la conseguente raffigurazione delle società nazionali nei panni di vittime innocenti e l’esaltazione dell’ostinata resistenza popolare – attiva e passiva – ai regimi comunisti; la rivendicazione infine dell’assimilazione dei crimini del comunismo ai crimini del nazismo.

A partire soprattutto dalla seconda metà degli anni Novanta, nel pieno dell’accelerazione del processo unitario dopo Maastricht, anche le istituzioni dell’Unione europea sono intervenute sul terreno della memoria attraverso politiche del ricordo sempre più incisive. Alla tradizionale narrativa europea della riconciliazione e della pace fra i paesi che si erano scannati nella prima e nella seconda guerra mondiale si è presto affiancata un’azione istituzionale – promossa soprattutto dal Parlamento di Strasburgo – per la costruzione di una comune memoria europea. Questa è stata fondata su due cardini: la Shoah e l’antitotalitarismo.
Dopo la dichiarazione del Forum internazionale di Stoccolma sull’Olocausto nel 2000, l’Unione europea ha trasformato progressivamente la memoria della Shoah in una sorta di religione civile alla base dei suoi valori fondamentali di democrazia, pace e difesa dei diritti umani. Come già fatto da numerosi Stati membri, anche a livello europeo il 27 gennaio è stato scelto dieci anni fa come Giornata europea della Shoah e nel novembre 2008 il Consiglio dell’Unione europea ha approvato la Decisione quadro sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia volta ad uniformare la legislazione comunitaria attraverso l’adozione di una normativa antinegazionista.
All’allargamento dell’Unione europea ad est nel 2004 e nel 2007 ha fatto seguito una spinta crescente dei nuovi membri dell’Europa centrale ed orientale per l’adozione a livello comunitario di politiche della memoria incentrate sull’antitotalitarismo attraverso l’equiparazione fra nazismo e comunismo. A questo ha puntato la Dichiarazione di Praga del giugno 2008, primo firmatario l’ex leader del dissenso e Presidente cecoslovacco Vaclav Havel. Il documento chiedeva di riconoscere comunismo e nazismo come “eredità comune” dei paesi europei, definiva i crimini del comunismo come crimini contro l’umanità, perorava l’istituzione di una specifica giornata europea in ricordo delle vittime dei due totalitarismi, auspicava la revisione dei manuali di storia europei e la nascita a livello comunitario di un istituto scientifico e di un museo dedicati ai totalitarismi. Molte di queste proposte sono state recepite dalle istituzioni europee. Già nel settembre 2008 il Parlamento europeo ha istituito una “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo” scegliendo come data il 23 agosto, giorno della firma nel 1939 del Patto Ribbentrop-Molotov, letto come un accordo per la spartizione dell’Europa fra la Germania nazista e l’Unione sovietica. L’anno successivo (aprile 2009) il Parlamento ha votato la risoluzione su “Coscienza europea e totalitarismo” che pone al centro della memoria europea il ricordo dei due totalitarismi. Nel 2011 è nata la Piattaforma della memoria e della coscienza europea, un progetto educativo dell’UE per la diffusione della conoscenza dei regimi totalitari. Inoltre, ricordiamo che già dal 2007 l’Azione 4 del Progetto “Europa per i cittadini”, istituito dal Parlamento e dal Consiglio per promuovere la “cittadinanza europea attiva”, ha previsto un cospicuo finanziamento destinato alla memoria delle vittime del nazismo e dello stalinismo.
Dalla prospettiva delle istituzioni europee, questo intenso investimento economico e culturale indirizzato alla creazione di una memoria comune dovrebbe rafforzare se non creare quei legami di appartenenza e di identità fra i paesi membri indeboliti dal fallimento del trattato costituzionale dopo l’esito negativo dei referendum in Francia e in Olanda (2005). Legami che sono stati messi ancor più a repentaglio dagli effetti della crisi economica dopo il 2008, segnata da una contrapposizione interna all’Europa lungo l’asse nord-sud, dal diffondersi di movimenti populisti antieuropei, nonché dalla reviviscenza generalizzata di sentimenti e stereotipi antitedeschi.
Ma che effetti ha avuto la politica della memoria promossa da Bruxelles? Sul piano generale, essa ha ripreso e rafforzato alcuni indirizzi di fondo che, come abbiamo visto, si erano già manifestati nel contesto europeo post-89: una raffigurazione molto semplificata del Novecento come secolo della violenza, dei crimini e dei genocidi scatenati dalle opposte ideologie totalitarie, nazista e comunista, con i rispettivi apparati del terrore; una veloce erosione (radicale nei paesi ex-comunisti) del paradigma antifascista rimpiazzato da quello fondato sull’antitotalitarismo; la sostituzione come figura centrale dell’eroe partigiano con quella della vittima, la vittima innocente delle stragi naziste e delle violenze comuniste; l’arrivo sulla scena memoriale dei cosiddetti “giusti”, ovvero uomini e donne comuni che si sono distinti in azioni di solidarietà e protezione nei confronti dei perseguitati dai regimi totalitari. Si veda a questo proposito l’istituzione della “Giornata dei giusti” votata dal Parlamento europeo nel 2012.
Nel tentativo di abbinare la Shoah e il paradigma antitotalitario, la UE ha assunto con ogni evidenza come proprio modello la Vergangenheitsbewältigung tedesca, prima messa in atto da Bonn e, dopo la riunificazione, da Berlino. Nel caso della Germania, non vi è dubbio che si possa parlare di un percorso virtuoso che ha mantenuto al centro della memoria nazionale la resa dei conti con i crimini del nazismo culminati nello sterminio degli ebrei d’Europa e ha poi integrato tale memoria con quella del regime comunista nella DDR, la Germania orientale. Il più importante monumento tedesco è quello dedicato agli Ebrei d’Europa assassinati che sorge a Berlino, a due passi dal Bundestag,
Ma il modello tedesco, legato alle esperienze storiche vissute dalla Germania, può essere “europeizzato”? In verità, quel che funziona bene nella vigile democrazia tedesca non sembra funzionare altrettanto bene a livello europeo, dove sono emerse varie ombre. Innanzitutto, persiste una frizione memoriale fra est e ovest caratterizzata da una persistente concorrenza fra le “vittime del Gulag” e le “vittime del Lager”. Dietro la forte insistenza da est sul paradigma antitotalitario è poi apparso in molti casi un atteggiamento asimmetrico, tutto sbilanciato nella condanna del comunismo, che ha finito per riabilitare in maniera indiscriminata come eroi della patria tutti i nemici del comunismo, compresi noti – o meglio famigerati – esponenti di spicco del collaborazionismo filonazista degli anni della seconda guerra mondiale, come ad esempio Ante Pavelic in Croazia, il maresciallo Antonescu in Romania, Josef Tiso in Slovacchia; per non dire dei giovani volontari lettoni delle Waffen-SS cui gli ex-commilitoni hanno dedicato alcuni anni fa a Tallin una targa commemorativa come “combattenti della libertà”. É giusto che i paesi dell’Europa occidentale prendano coscienza di cosa hanno rappresentato per l’altra metà d’Europa i decenni di dominio comunista, ma non al prezzo di riabilitare collaborazionisti che molto spesso hanno avuto parte attiva nella persecuzione degli ebrei.
L’Italia non è immune da rischi di questo genere. Solo pochi anni fa, ad esempio, è stata realizzata con soldi pubblici ad Affile, un paesino vicino a Roma, la costruzione di un mausoleo dedicato al Maresciallo Rodolfo Graziani, capo delle forze armate della Repubblica sociale italiana e responsabile di numerosi crimini di guerra nelle colonie africane. Persiste poi l’attitudine a scaricare su altri le nostre responsabilità. Questo è particolarmente evidente proprio osservando la memoria della Shoah. Le leggi razziste del 1938 contro gli ebrei, volute da Mussolini e firmate dal Re, sono state – per riprendere un’espressione usata lo scorso anno dal presidente Rossi – “una vergogna assoluta che pesa ancora sulla storia dell’Italia, del nostro amato Paese”. Ebbene, non sono pochi in Italia coloro che continuano a credere che quelle leggi siano state imposte al Duce riluttante dallo spietato Führer di Berlino. Un’autentica frottola che nasconde le responsabilità del governo fascista che agì invece in piena autonomia. Ma c’è anche un altro aspetto importante. La celebrazione mediatica dei “giusti”, dei generosi “salvatori di ebrei”, come l’abile e coraggioso Giorgio Perlasca, ha finito per oscurare le responsabilità avute da tanti italiani nella persecuzione dei loro concittadini ebrei. Come ha scritto Simon Levis Sullam, l’Italia sembra essere passata dall’”era del testimone” – imperniata sulla memoria delle vittime – all’”era del salvatore” senza passare per alcuna “era del carnefice”. Un “colpevole oblio” sembra sceso sui tanti italiani che furono attori e complici della Shoah, coloro che parteciparono all’arresto degli ebrei (poco meno della metà degli arresti fu compiuto da italiani), i delatori che li denunciarono, coloro che si appropriarono dei loro beni e dei loro posti di lavoro, quanti semplicemente stettero a guardare o rivolsero lo sguardo altrove. Figure di salvatori di ebrei, come Perlasca, sono giustamente molto famose, ma quanti in Italia conoscono ad esempio il commissario prefettizio Giovanni Francesco Martelloni capo dell’Ufficio Affari ebraici di Firenze, uno spietato cacciatore di ebrei responsabile di decine di arresti di uomini, donne e bambini finiti ad Auschwitz? Basta dare un’occhiata a Google per farsi un’idea: per Perlasca risultano 139 mila contatti; per Martelloni 150!
Anche in Italia, infine, come in Europa, si è assistito negli ultimi quindici anni ad una competizione fra memorie diverse della seconda guerra mondiale, tutte riconosciute e promosse dalle istituzioni statali. Mi riferisco alle principali di esse: la memoria appunto della Shoah, che stiamo celebrando oggi, la memoria delle foibe legata alla celebrazione del Giorno del ricordo il 10 febbraio, la memoria della Resistenza incentrata sul 25 aprile. Secondo alcuni storici come Giovanni De Luna e Sergio Luzzatto, la memoria della Shoah avrebbe eroso se non scalzato la memoria della Resistenza. Ora, la memoria della Shoah ha sicuramente – e per fortuna – guadagnato spazio nella coscienza pubblica, ma la memoria della Resistenza – grazie soprattutto all’impegno del Quirinale, da Ciampi a Mattarella – è rimasta un punto di riferimento fondamentale. Non sono due memorie in conflitto. Anzi, per certi aspetti sono complementari: infatti, se la memoria della Shoah può essere vista come strumento di salvaguardia dei diritti umani contro ogni tipo di discriminazione, la memoria della Resistenza – col suo forte vincolo alla Costituzione – resta una base di riferimento per i diritti di cittadinanza, il diritto al lavoro, alla salute, all’educazione, ad un ambiente sano… Entrambe sono vitali per la salute della nostra democrazia.
Introdotta dal Parlamento nel 2004, la memoria delle foibe ha avuto nei primi anni un carattere antagonistico rispetto a quella della Resistenza e competitivo rispetto a quella della Shoah. Restano impulsi in questa direzione, ma è importante – a mio avviso – che negli ultimi anni del suo mandato l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia fatto molto per trasformarla da una memoria di matrice nazionalista con venature antislave in una memoria europea riconciliata basata su un impegno comune fra Italia, Slovenia e Croazia. Un impegno a riconoscere i torti che storicamente un paese ha inflitto all’altro (prima delle foibe ci sono stati i crimini italiani in Jugoslavia) per collaborare attivamente da ora in poi, senza il peso di un passato conflittuale, come membri dell’Unione europea. Questo quadro europeo è del resto la corretta cornice di riferimento in cui agisce nella sua azione memoriale la Regione Toscana, grazie anche all’impegno dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e della rete degli istituti collegati.
Sono dunque tornato al contesto europeo da cui ero partito. E vorrei qui concludere con alcune considerazioni finali.
All’indomani dei sanguinosi attacchi jihadisti a Parigi dello scorso 13 novembre, una delle firme di punta del Sole24Ore, Alberto Negri, ha dedicato un articolo lucido e appassionato alla lotta cui siamo chiamati oggi per sconfiggere la minaccia dell’ISIS. E Negri ha esordito citando quello che secondo Sartre era (e potremmo dire – è) il più bel romanzo dedicato alla Resistenza: “Educazione europea”, opera del grande scrittore Romain Gary, ebreo lituano – eroe della resistenza francese. “Come va la battaglia di Stalingrado dei russi contro i nazisti?”, si chiedono i partigiani polacchi nel romanzo.
“Come va la battaglia contro il Califfato? Se avessimo ancora un’educazione europea – scrive Alberto Negri – questa è la domanda che dovremmo farci tutti i giorni e che forse si faranno adesso (…) i francesi. Rispondere al terrore con la solidarietà e le bandiere a mezz’asta va bene ma se avessimo ancora un’educazione europea dovremmo replicare colpo su colpo al terrorismo e alla sua minaccia, entrata nella nostra vita quotidiana con una strage di innocenti”.
Di fronte alla minaccia e alla sfida del terrorismo dunque Negri, e insieme a lui molti altri, si richiamano – in molti casi riscoprono – l’eredità della Resistenza, un’eredità che era sembrata molto appannata dopo il 1989. Ma attenzione: alla Resistenza contro il pericolo islamico si sono appellati e si appellano anche i movimenti xenofobi europei. “Widerstand, Widerstand!” (Resistenza! Resistenza!) hanno gridato i sostenitori di Pegida (i cosiddetti Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente) dopo i gravi fatti di Colonia fomentando la caccia agli immigrati. Dobbiamo dunque fare attenzione e tenere assieme l’eredità della Resistenza con quella della Shoah. La prima ci sprona ad una difesa attiva della democrazia, la seconda ci ricorda di essere vigili contro ogni forma di razzismo e di xenofobia, inclusa l’islamofobia. É questa la nostra “educazione europea”.
Vi ringrazio dell’attenzione.

Articolo pubblicato nel gennaio del 2016.




Cristo si è fermato in piazza Pitti

«Nel mezzo del cimitero si apriva una fossa, profonda qualche metro, con le pareti ben tagliate nella terra secca pronta per il prossimo morto. Una scaletta a pioli mi permetteva di entrarci e di risalire senza difficoltà. In quei giorni di calura avevo preso l’abitudine di scendere nella fossa e di sdraiarmi sul fondo… In quella solitudine, in quella libertà passavo delle ore». Così scrive Carlo Levi nel Cristo si è fermato a Eboli. Il cimitero è quello di Aliano, in provincia di Matera, dove il fascismo confinò l’intellettuale torinese nel 1935. Il camposanto era anche il luogo che non doveva oltrepassare. E qui, in un angolo, si fermava a dipingere, sorvegliato da una guardia che non lo perdeva mai di vista. Anzi, il cimitero è stato il primo soggetto che dipinse in questa terra abbandonata da Cristo e dagli uomini. In quello stesso angolo riusciva a scorgere la casa del confino, poco dopo la Fossa del Bersagliere dove i briganti avevano spinto un soldato che si era perso su questi monti. Ed è qui che Carlo Levi ha voluto essere sepolto, dopo la morte avvenuta nel gennaio 1975.

La casa del confino di Carlo Levi

La casa del confino di Carlo Levi

Per otto anni Carlo Levi raccontò i giorni del confino. Ma solo a Firenze, fra l’inverno del 1943 e l’estate del 1944, trovò la forza di scrivere Cristo si è fermato a Eboli, definito da Vittore Brancail libro più importante del nostro dopoguerra”. A Firenze Levi c’era già stato a vent’anni e c’era tornato poco dopo per fare il militare come allievo medico ufficiale nella caserma di via Monte Oliveto. Carlo Levi tornò a Firenze una terza volta nel 1941 indirizzato dalla donna che amava, Paola Olivetti, fiorentina, moglie di Adriano, l’industriale delle macchine da scrivere. Paola e la zia Drusilla, compagna di Eugenio Montale, gli trovarono uno studio nel piazzale Donatello. Ci doveva restare un mese. Si fermò, invece, per quattro anni.

Nell’autunno del 1943 trovò rifugio in casa di Anna Maria Ichino in piazza Pitti. In quell’appartamento Levi scrisse Cristo si è fermato a Eboli, mentre per le strade di Firenze si eseguivano retate di ebrei e si uccidevano renitenti alla leva. Dal cielo gli Alleati bombardavano gli scali ferroviari per impedire i rifornimenti ai tedeschi. Nella casa dove alloggiava Carlo Levi si riunì più volte la Commissione Stampa del Comitato Toscano di Liberazione nazionale. Ed è lì che venne ideata e preparata “La Nazione del Popolo”, organo del Comitato di Liberazione, diretto da Carlo Levi.

Un libro ricostruisce ora la vicenda umana e politica di Carlo Levi. Il volume, scritto da un giornalista, Nicola Coccia, è stato pubblicato da Ets e si intitola L’arse argille consolerai: Carlo Levi dal confino alla Liberazione di Firenze attraverso foto, testimonianze e documenti inediti (pagine 299, 15 euro).

Vi si racconta, fra l’altro, di un partigiano milionario, delle carognate dei fascisti in un convento di clausura, delle stragi di bambini e civili, dell’uccisione della donna più bella del mondo, di Manlio Cancogni portiere di un torneo di pallone nella villa di Mussolini, del furto della valigia di Carlo Cassola, dell’olio e della farina portati a Giorgio Bassani in fuga da Ferrara, dell’erede al trono finito a vendere motorini, del matrimonio della figlia di Amedeo Modigliani con l’uomo che si era gettato in acqua col cappotto per sfuggire all’arresto. Il libro parla soprattutto di Carlo Levi, medico, pittore, componente del Comitato Toscano di Liberazione, della donna che lo protesse, del bambino di cui fu padre putativo, della figlia segreta, della scrittura del Cristo si è fermato a Eboli. Ci sono testimonianze e foto mai pubblicate prima e anche un quadro molto significativo di quel periodo, rimasto chiuso in una stanza. E poi c’è la foto e la storia della persona che suggerì a Levi il titolo del suo capolavoro.
“L’arse argille consolerai” è il verso di una poesia che l’intellettuale torinese scrisse durante il confino ad Aliano. Ed è da quel paese che cominciano le ricerche di Nicola Coccia.

Nicola Coccia ha lavorato all’Avanti, al “Lavoro” di Genova, diretto da Sandro Pertini e per 30 anni alla Nazione dove si è occupato dei principali fatti di cronaca.

Articolo pubblicato nel dicembre 2015.




Oreste Ristori: una storia antifascista tra Toscana e Sudamerica

Oreste Ristori nasce il 12 agosto 1874 sulle colline del Pino, nei pressi di San Miniato. Suo padre fa il pastore, ma a causa della crisi agricola del 1878 la famiglia si deve trasferire a Empoli. Oreste cresce in un ambiente di grande povertà senza poter frequentare la scuola. La madre esegue lavori con la paglia e alleva animali che vengono poi venduti nei mercati di Empoli e San Miniato. Oreste accompagna spesso i genitori e ha occasione di conoscere vari giovani che “blasfemano contro la chiesa” e discutono di politica e anarchia. Inizia a frequentare il gruppo anarchico di Empoli, dove conosce Antonio Scardigli ed Enrico Petri. Con questo viene arrestato per la prima volta durante una manifestazione a San Miniato il 21 marzo del 1892. Nel maggio dello stesso anno muore il padre. Giudicato dalle autorità “anarchico esaltato, di pessimo carattere, contrario al lavoro capace di qualsiasi azione criminale”, negli anni successivi viene arrestato altre volte, e inviato in carcere o al domicilio coatto. Prima a Porto Ercole, da dove fugge assieme ad altri 6 compagni, ripreso finisce alle Tremiti. Qui le condizioni di vita provocano una rivolta, capeggiata dal gruppo degli anarchici, che viene repressa nel sangue e nella quale muore Argante Salucci, anarchico fiorentino del gruppo di Santa Croce sull’Arno. Ristori è processato per incitamento alla violenza e finisce a Pantelleria. Nel settembre ottiene la libertà e ritorna a Empoli, dove è sospettato di voler formare un gruppo per compiere attentati contro persone e cose. Entra in clandestinità ma viene rintracciato e mandato di nuovo al domicilio coatto, questa volta a Ventotene. Di nuovo liberato, ritorna a Empoli, dove fonda un gruppo e inizia a fare propaganda lungo la costa toscana tra Piombino e La Spezia. Siamo nel 1898 e, a seguito dei fatti di maggio a Milano, si succedono varie rivolte un po’ ovunque. Oreste passa clandestinamente a Marsiglia, dove si stabilisce nella folta colonia italiana con il nome di Gustavo Fulvi; identificato, a settembre è rimpatriato e poi inviato al domicilio coatto, a Favignana. Comincia a scrivere articoli per diversi giornali, nell’ottobre del 1899 viene trasferito a Ponza dove conosce Luigi Fabbri. Partecipa alla pubblicazione del numero unico «I Morti» e viene confinato nella fortezza di Gavi. Nel marzo del 1900 organizza una manifestazione in ricordo delle vittime della Comune di Parigi, ma è scoperto e trasferito a Ustica. Intanto, da giovane anarchico irrequieto e ribelle diventa, come segnala la polizia, un capace oratore, guadagnandosi il soprannome di Beccuto, propagandista e stimato giornalista: “Dal 1901 era già un noto corrispondente dei giornali anarchici «L’Agitazione» di Ancona, «Il Risveglio», di Ginevra, «Le Libertaire», di Parigi e «L’Avvenire», di Buenos Aires”. All’inizio del 1901, messo in libertà e rimandato a Empoli, comincia a maturare l’idea di emigrare in Argentina dove ci sono molti anarchici italiani coi quali è in corrispondenza. Dopo un primo vano tentativo riesce a salire come clandestino su una nave e raggiungere, nell’agosto del 1902, Buenos Aires.

Foto segnaletica di Oreste Ristori, anni Venti del '900

Foto segnaletica di Oreste Ristori, 1911

La sua vita in America Latina è degna di un romanzo. Costretto a spostarsi più volte tra Argentina, Uruguay e Brasile a causa delle persecuzioni poliziesche, nei primi trent’anni del nuovo secolo Ristori è un protagonista delle battaglie del movimento operaio. Per ben tre volte riesce a sfuggire, in modi sempre più rocamboleschi, ai rimpatrii forzati applicatigli dalle Autorità, durante l’ultima si frattura entrambe le gambe e ciò lo renderà zoppo per il resto della vita. Fonda due giornali di grande diffusione: «La Battaglia» a São Paulo e «El Burro» (L’Asino), a Buenos Aires. In Brasile, casa sua è frequentata da intellettuali come Oswald de Andrade, uno dei maggiori poeti brasiliani, e vi passa anche il giovane Jorge Amado, come racconta nel suo Anarchici grazie a dio Zelia Gattai, sua futura compagna e che all’epoca era una ragazzina la cui famiglia era amica di Ristori. Dagli anni Venti in poi è particolarmente importante il suo impegno unitario antifascista.

Nel giugno del 1936, a causa della sua attiva partecipazione alle agitazioni popolari che nei primi anni Trenta attraversano la città di São Paulo contro le formazioni paramilitari brasiliane che si ispirano al fascismo, le Autorità riescono infine rimpatriarlo. Pur essendo sorvegliato, poco più di un mese dopo essere arrivato in Italia, riesce a raggiungere la Spagna, ove collabora – vista l’età, probabilmente solo in veste di propagandista – con le forze antifasciste e tenta inutilmente di organizzare l’arrivo di Mecedes, l’amata compagna rimasta in Brasile; verso la fine della guerra raggiunge la Francia, sempre con l’obiettivo di riuscire a riunirsi con Mercedes. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il governo francese lo confina e, nel marzo del 1940, lo rimpatria. Le Autorità lo obbligano a risiedere a Empoli, ma Oreste è indomito, cerca gli antichi compagni e in novembre si fa due settimane di carcere per avere diffuso notizie “allarmistiche” sulle sorti della guerra e del regime. Intanto anche lo scambio di corrispondenza con Mercedes termina perché la guerra determina l’interruzione dei contatti tra Italia e Brasile. Nel 1943, è uno dei primi a scendere in strada per festeggiare la deposizione di Mussolini. Nuovamente arrestato, è rinchiuso alle Murate a Firenze. Nella notte del primo dicembre i partigiani uccidono il capo del Comando militare Gino Gobbi. Al mattino seguente Ristori, l’anarchico Gino Manetti e i tre militanti comunisti, Armando Gualtieri, Luigi Pugi e Orlando Storai, vengono prelevati dalla milizia fascista, condotti al campo di tiro delle Cascine e fucilati per rappresaglia. Si dice che Ristori sia morto fumando la sua pipa e cantando l’Internazionale.

Articolo pubblicato nel dicembre del 2015.