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Hill 366: una storia da raccontare

Il 7 ottobre 2017, il Comune di Carrara e la Pro Loco di Fontia hanno promosso un’iniziativa per onorare la memoria di due uomini: Don Dario Fazzi e il Lieutenant-Colonel John James Phelan. L’evento, celebrato in occasione del 73° Anniversario dell’incendio di Fontia, rientra nel programma di iniziative inserite nel progetto “In cammino verso la Costituzione (1948-2018)” a cura del Gruppo di lavoro del Comune di Carrara per le celebrazioni e la promozione della memoria della Resistenza e dei principi della Costituzione.

La commemorazione a cui ha aderito Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery (American Battle Monuments Commission), ha visto la partecipazione del partigiano carrarese Giorgio Mori e ha avuto il riconoscimento del veterano di guerra britannico Harry Shindler (96 anni, militare sulla Linea Gotica), che ha scritto un discorso di cui è stata data lettura durante la manifestazione.

Durante la Seconda guerra mondiale, Fontia rappresentava un centro strategicamente importante per la Wehrmacht. Su ordine del Feldmaresciallo Albert Kesselring la zona rientrava nella Linea Gotica, il sistema difensivo realizzato dai tedeschi per fronteggiare l’avanzata degli Alleati. L’Organizzazione TODT costruì diverse postazioni tobruk, bunker e trincee, tuttora visibili.

03A Santa Lucia si trovava l’osservatorio tedesco da cui venivano diramati ordini per i cannoni a lunga gittata presenti sul promontorio di Punta Bianca. Proprio per questo Fontia e Santa Lucia furono teatro di aspre battaglie durante l’avanzata della Quinta Armata USA che battezzò quel luogo “Hill 366”. Tra i militari caduti per la liberazione dell’Italia nel territorio carrarese c’è stato il Lieutenant-Colonel John James Phelan, decorato della Silver Star, caduto nei combattimenti svoltisi per la conquista dell’osservatorio tedesco di Santa Lucia.

L’iniziativa ha avuto inizio con gli onori al cippo che ricorda l’incendio del paese e ha visto la partecipazione degli studenti delle scuole del territorio (Scuola Media “A. Dazzi” e ITC “D. Zaccagna”). La giornata del 7 ottobre è stata l’occasione per ricordare non solo l’incendio del borgo, ma per raccontare, attraverso una mostra, allestita nei locali della Pubblica Assistenza di Fontia, gli importanti avvenimenti e combattimenti svoltisi per la liberazione del paese durante la Seconda guerra mondiale.

E’ stata riaperta al pubblico la Cappella di Don Dario Fazzi, il coraggioso parroco di Fontia che difese la popolazione del paese durante i 20 terribili mesi dell’occupazione nazi-fascista, sulla cui lapide il Sindaco di Carrara Francesco De Pasquale ha deposto una corona.

Dopo la Messa in suffragio delle vittime della guerra, celebrata nel vicino Santuario di Santa Lucia, si sono svolti gli interventi delle autorità . Dopo il saluto del Sindaco, sono intervenuti: la senatrice Laura Bottici, il consigliere regionale Giacomo Bugliani e il segretario ANPI della sezione di Carrara Ferdinando Sanguinetti. Toccante la testimonianza della sig.ra Eda Corsini, che nel 1944 era una bambina, ha ricordato Don Dario Fazzi, che rischiò la vita pur di salvare i suoi paesani. Il Presidente della Pro Loco di Fontia Cristiano Corsini ha letto una lettera che Don Fazzi scrisse nel 1970 a Dusseldorf in occasione dell’incontro dei reduci della 148ª Divisione di fanteria tedesca. Don Fazzi dopo la guerra si impegnò² nella ricostruzione della Chiesa di Santa Lucia, distrutta dai bombardamenti, con il progetto di fare di quel colle dove si erano scontrati uomini di diverse nazionalità, un luogo dedicato alla pace. L’orazione ufficiale è stata affidata al Dott. Pierpaolo Ianni che ha ricordato l’importanza della Resistenza e ha tratteggiato il profilo di Don Fazzi e del Lieutenant-Colonel Phelan. Nel suo intervento ha inoltre descritto quanto emerge dal diario della 473rd United States Infantry, che costituisce una fonte essenziale per ricostruire quanto avvenne in quei drammatici giorni del 1945 tra Fontia e Santa Lucia. La giornata si è conclusa con il discorso di Angel Matos, Direttore del Florence American Cemetery, e lo scoprimento di una targa in marmo in memoria del Lieutenant-Colonel John James Phelan (1914-1945).




Il racconto di un doppio disinganno: l’ultima lezione di Giuliano Foggi

Di Giuliano Foggi (1922-2010), ormai grande vecchio già oltre gli ottant’anni, colpivano la perenne passione educativa e la lucidità intellettuale con cui continuava a dipanare il filo di una memoria lontana: gli anni della guerra, l’8 settembre, la fine del fascismo, la Liberazione, i difficili anni della ricostruzione… E, per la ricchezza dei riferimenti storici e letterari, le sue parole andavano ben oltre il racconto di una storia personale, per farsi vicenda più larga, utile e interessante a far comprendere, soprattutto a quei giovani a cui Giuliano tanto amava riferirsi, il tormentato cammino della conquista della libertà, delle regole condivise, dei diritti.

Un itinerario che Giuliano ha saputo percorrere da protagonista per oltre mezzo secolo, impegnato in innumerevoli battaglie, piccole e grandi, per la democrazia, per l’accesso di tutti all’istruzione, per la diffusione della cultura, per la difesa della bellezza in particolare della sua città, Lucca, dove era nato nel 1922 da una famiglia operaia. Laureatosi a Pisa con una tesi sugli storici della Repubblica lucchese, Foggi ha insegnato sino alla fine degli anni ottanta nelle scuole superiori di Lucca, Viareggio, Barga, Montecatini, Volterra, Pisa formando generazioni e generazioni di studenti che ne ricordano ancora oggi, a tanti anni di distanza, con commozione e gratitudine le straordinarie doti professionali ed umane. Socialista e poi dirigente del Psiup, tra i fondatori del Potere operaio pisano e poi del Centro Karl Marx, Giuliano ha accompagnato gli impegni educativi e politici con un’incessante attività sindacale nella Cgil-Scuola locale e nazionale: incarichi svolti sempre con intelligenza, dedizione, attenzione alle novità che emergevano nella scuola e nella società, e grande capacità di trovare in ogni lotta il punto di equilibrio più avanzato insieme praticabile.

Più appartati e coltivati con una discrezione quasi assoluta i suoi interessi letterari, storici e filosofici. Ne fa fede un diario in prosa e in versi che si estende per oltre un sessantennio, dal 1942 al 2004, dal titolo Fedeltà-Giorno dopo giorno, a cui attinge il suo I miei giorni 1942-1945, libro pubblicato nel 2005 dalla casa editrice lucchese Maria Pacini Fazzi e prefato dall’allora presidente dell’Amministrazione provinciale Andrea Tagliasacchi, che così ebbe a scrivere: “Giuliano Foggi fa parte di quella leva di intellettuali che, senza chiedere nulla in cambio, ha svolto un ruolo importante nella storia del nostro Paese, sempre presente, operosa e combattiva in processi importanti e talora decisivi della storia d’Italia: la ricostruzione negli anni duri del centrismo, i formidabili anni sessanta, quelli dell’’assalto al cielo’. Giuliano Foggi vi appartiene di diritto e non solo per motivi anagrafici: piuttosto, perché è stato costantemente tra i primi a cogliere i segni dei tempi nuovi e ad impegnarsi con lucidità per trasformarli in programmi e progetti politici e sindacali sempre all’insegna di una generosa radicalità, di un’aspirazione a cambiare dal profondo i metodi, i contenuti e le finalità della politica”.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca.

5 settembre 1944, Porta San Pietro: una delle prime immagini della Liberazione alleata della città di Lucca, operata dai soldati afroamericani della 92ª Divisione “Buffalo”.

Testo per molti versi sorprendente, I miei giorni 1942-1945 (di cui il lettore può trovare alcuni passaggi fra i “Documenti dalle fonti”) è il ‘diario dell’anima’ di un giovane che aveva vent’anni nei momenti più bui della nostra storia nazionale a cui, però, il 25 luglio e l’8 settembre, la spaccatura dell’Italia e la lotta antifascista, i giorni tormentati dell’immediato dopoguerra non fanno dimenticare la propria problematica vicenda privata, i rapporti con i coetanei e la famiglia, il difficile equilibrio fra ragione e sentimento, una complessa e contraddittoria ricerca di senso.

Libro antieroico, I miei giorni, scandisce “la storia di un doppio disinganno: quello proprio di ogni generazione che sempre a proprie spese apprende il difficile mestiere di vivere; il disincanto, poi, di quella leva di giovani, che nati e vissuti all’interno del regime e dei suoi miti, si affacciava alla vita civile in tempi indelebilmente sfregiati dalla funerea isteria della dichiarazione di guerra dal balcone di palazzo Venezia. E i modi letterari scelti più di sessant’anni or sono dall’autore di queste pagine sono quelli propri della ‘meglio gioventù’ di allora, l’ermetismo e l’esistenzialismo: le due chiavi con cui quei giovani cercavano faticosamente di aprirsi all’esercizio della libertà, oscillando, come ha scritto qualcuno, tra ‘equivoco e fronda’, tra un’adesione, sia pure critica, al fascismo, e un sempre più sicuro, netto e ribadito rifiuto del regime e delle sue scelte” (dalla Prefazione).

Per conoscere più nel dettaglio l’esperienza di Giuliano Foggi durante la Seconda Guerra Mondiale, s’invita il lettore a consultare l’interessante articolo di Emmanuel Pesi “L’odore delle mele o il sogno della maturità. Giuliano Foggi tra fascismo, guerra e liberazione”, rintracciabile fra gli allegati della sezione “Materiali correlati”.




«Scrittura Resistente»

È cosa nota come nel senso comune la parola storia sia associata più all’attività del raccontare e dell’ascoltare vicende reali o fantastiche che non a quella dell’indagare e del ricostruire fatti del passato. Sulla questione ha scritto lo stesso Jacques Le Goff, facendo notare come il vocabolo si riferisca a ben tre concetti differenti: all’indagine sulle azioni degli uomini, all’oggetto stesso di quella ricerca e, infine, a un racconto che può essere vero o falso, ancorato a una base di realtà storica o puramente immaginario.

Pensare alla storia come arte o racconto è qualcosa che ci viene di fatto più spontaneo e immediato che riferirci a essa come a una scienza fondata sulla ricerca e ricostruzione analitica delle vicende del passato; proprio il ricorso a ciò che “viene naturale” può costituire uno strumento utile ed efficace per tentare di dare una risoluzione al problema del come tradurre in didattica la complessità della disciplina. In tal senso, la dimensione narrativa, nel suo duplice aspetto di scrittura e lettura, se collegata in modo corretto all’insegnamento del passato, può contribuire in modo efficace ad avvicinare gli studenti alla materia, dando loro la possibilità di accedere direttamente alle fonti. È proprio ciò che si è cercato di fare con «Scrittura Resistente».

L’idea del progetto, curato da Eugenia Corbino e Paolo Mencarelli e inserito ormai da qualche anno all’interno dell’offerta didattica dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età contemporanea di Firenze, è nata in seguito alla pubblicazione nel 2013 di un romanzo storico contemporaneo, «In territorio nemico». Il volume ripercorre, attraverso le storie di tre personaggi, momenti e luoghi della guerra di Liberazione in Italia. Accanto alla tematica resistenziale, narrata con lo sguardo dell’oggi, ciò che ha suscitato interesse è stato, in particolare, il metodo di scrittura con cui è stato costruito il testo. I coordinatori -Vanni Santoni e Gregorio Magini- l’hanno definito «Scrittura industriale collettiva» (Sic), dal momento che si tratta di un romanzo storico a 230 mani (115 autori tra scrittori ed esperti a vario titolo). Esso si fonda essenzialmente sulla creazione di un sistema di fonti (letterarie) che porta tutti gli scrittori a produrre schede relative ai personaggi, ai luoghi e alle scene di cui si compone il romanzo (o il racconto), tramite un continuo rimando a quelle definitive, assemblate e composte da chi coordina (il così detto “Direttore artistico”). È così che, lavorando insieme ai vari “pezzi” e condividendo le fonti, gli scrittori si allineano tra loro al fine di giungere a una necessaria visione condivisa.

La particolarità di questo approccio alla scrittura sta anche nella sua adattabilità ai più vari contesti, compreso un suo possibile uso didattico. Esso offre infatti la possibilità di interagire con un’intera classe o gruppi più piccoli di studenti chiamati a collaborare alla scrittura di testi narrativi basati su una solida documentazione archivistica e bibliografica, in cui “micro” e “macro” storia, vicende individuali e collettive possono intrecciarsi e dar luogo a un racconto in cui non manchino però interpretazione e creatività. Si tratta di uno schema a “maglie aperte”, un modello modificabile a seconda delle circostanze, che permette, anzi punta a favorire, la collaborazione tra docenti delle diverse discipline al fine di affiancare all’attività di scrittura anche altre forme di produzione: una rappresentazione teatrale, una mostra, la realizzazione di un prodotto multimediale o la preparazione di un reading da presentare al pubblico (genitori, professori, compagni).

Mentre i ragazzi affrontano attraverso il programma scolastico tradizionale gli eventi più generali della Seconda guerra mondiale, un progetto come «Scrittura Resistente» permette loro di confrontarsi in prima persona e in modo concreto con la storia della comunità di appartenenza, rispetto a cui sono chiamati a “fare esperienza”.

L’impressione è che ricostruire vicende che hanno per teatro strade, piazze, luoghi familiari permetta di suscitare nei più giovani un interesse e una partecipazione che avvenimenti geograficamente più lontani e “astratti” non sono in grado di originare. La tematica resistenziale, inoltre, con i suoi mille episodi “avventurosi” ben si presta a una attività di produzione letteraria: i ragazzi riscrivono con gli occhi della contemporaneità una storia distante dal loro vissuto quotidiano attraverso un approccio che dimostra di essere certamente più empatico rispetto alla classica lezione frontale e che li incoraggia a dare a quegli eventi colore, forma calore.

Il progetto prevede che il momento della scrittura sia sempre preceduto da una fase di studio e documentazione. Occorre infatti dare agli studenti una formazione di contesto che permetta loro di lavorare in modo corretto sui documenti -carte d’Archivio, fogli di giornale, materiali audiovisivi e fotografie dell’epoca- che, nella fase successiva, sono poi chiamati ad analizzare e utilizzare in modo critico.

«Scrittura Resistente» nasce, in fondo, con l’obiettivo di offrire ai ragazzi l’opportunità di “uscire” dalle classi e di andare oltre i manuali, dando loro gli strumenti per confrontarsi in prima persona e in modo diretto con le fonti storiche, di cui possono fare esperienza diretta. È questo lo spirito con cui sono nati i due racconti prodotti, realizzati applicando una versione semplificata del metodo di scrittura collettiva e con alla base le riflessioni fin qui esposte.

«Fuori tutte!» è stato scritto nel 2014 da alcuni studenti del Liceo Scientifico Rodolico di Firenze (con la collaborazione della Prof.ssa Antonella Sarti); il testo riscostruisce in modo romanzato la vicenda della liberazione di diciassette detenute politiche dal carcere femminile di Santa Verdiana, il 9 luglio 1944; un’azione ideata e portata avanti da un gruppo di gappisti travestiti da membri della GNR e da un tedesco disertore. Dietro ai nomi di fantasia dati ai personaggi reali, che nello scritto interagiscono con figure di fantasia, non è difficile individuare alcune delle personalità più note del partigianato fiorentino, due in particolare: Bruno Fanciullacci (Giulio) e Tosca Bucarelli (Chiara). Dal testo è stato tratto un reading presentato presso le Murate.

«Il ritorno della Primavera» è, invece, il titolo dello scritto prodotto da alcuni alunni del Liceo Artistico Leon Battista Alberti nel 2016. I ragazzi, insieme alla Professoressa Alessandra Vettori e al Professor Luca Romano, hanno studiato la questione del salvataggio delle opere d’arte a Firenze durante la Seconda guerra mondiale. Partendo da uno dei saggi contenuti nel volume della storica dell’arte Alessia Cecconi, «Resistere per l’arte», il testo prodotto ha ricostruito e romanzato l’esperienza di Cesare Fasola, Direttore della Biblioteca degli Uffizi, che nel 1944, su incarico del Soprintendente Giovanni Poggi, si impegnò con grande passione nella salvaguardia di una parte del patrimonio artistico pubblico e privato della città, adoperandosi, in particolare, nel proteggere la famosa Primavera del Botticelli. Il testo, assieme a un video-documentario realizzato dagli stessi ragazzi utilizzando suggestive fotografie d’epoca e documenti d’archivio, è stato presentato al pubblico presso la Biblioteca degli Uffizi.

I due racconti sono il risultato di un lavoro di squadra intenso e costruttivo. Una bella opportunità di riflessione e confronto che forse -questo è l’auspicio- ha permesso agli alunni che vi hanno preso parte di cambiare idea sul valore e la funzione della storia: non una disciplina inutile, polverosa, per “topi di biblioteca o d’archivio” -inutile negare il fatto che la maggior parte la pensa così-, ma uno strumento per conoscere noi stessi come umani abituati a vivere in società, con alle spalle un passato da cui abbiamo ricevuto e continuiamo a ricevere condizionamenti e con innanzi un futuro aperto su più prospettive.




11 agosto 1944: insurrezione!

Nell’estate del 1943, lo sbarco degli anglo-americani e la caduta del fascismo fecero sperare nella imminente fine della guerra. La Toscana visse invece un anno di durissima occupazione nazifascista, colpita dai bombardamenti aerei degli Alleati, vessata da ruberie e deportazioni, martoriata da rappresaglie e stragi di civili.
Nell’estate seguente divenne teatro di aspri combattimenti tra l’esercito tedesco in ritirata verso le difese della linea Gotica, approntata sulla cresta appenninica, e gli Alleati che, conquistata Cassino a maggio erano giunti ai primi di luglio fino a Siena e alla Valdichiana. Da lì, fermati alle porte di Arezzo, mossero attraverso il Chianti direttamente verso Firenze.

Per otto mesi la città aveva assistito alla lotta impari quanto cruenta tra i gruppi armati della Resistenza e le forze, anzitutto la feroce banda guidata da Mario Carità, che davano la caccia ai cittadini ebrei, ai resistenti, ai renitenti, a quanti non sottostavano all’occupante tedesco e al governo fascista repubblicano. Anche nelle campagne, le formazioni partigiane si erano consolidate, passando all’offensiva.
In giugno, il Comitato toscano di liberazione nazionale, guida politica della Resistenza, chiamò per la prima volta in Italia all’insurrezione armata, che cacciasse i tedeschi dalla città già prima dell’arrivo degli Alleati, per affiancarne apertamente l’azione militare e così affermare la propria capacità di autogoverno. Un progetto tanto chiaro quanto difficile da realizzare.

I timori diffusi per i rischi notevoli, le preoccupazioni delle forze più moderate, le lusinghe di chi propugnava un ritiro concordato sotto le insegne della “città aperta”, guadagnarono campo con il forzato rallentare degli Alleati. Mentre i fascisti più compromessi abbandonavano la città, ma lasciandovi molte decine di “franchi tiratori” pronti a colpire nascostamente gli avversari e gli stessi civili, l’incertezza cresceva: i tedeschi si sarebbero ritirati o avrebbero atteso il nemico dentro la città d’arte? Gli Alleati avrebbero accettato lo scontro? E i partigiani, dotati di coraggio più che di uomini e armi, quale ruolo avrebbero potuto giocare?

Foto 1 fronteInterrogativi travolti infine dagli eventi. A fine luglio, sgomberate le rive dell’Arno, i tedeschi si attestarono su quella settentrionale e distrussero i ponti e una vasta area attorno al Ponte Vecchio, l’unico risparmiato, nella notte tra il 3 e il 4 agosto, giorno in cui gran parte delle forze partigiane e le prime pattuglie Alleate entrarono nei quartieri d’Oltrarno, subito aggredite dai “franchi tiratori”.

L’insurrezione fu proclamata soltanto l’11 agosto, quando i tedeschi lasciarono il centro cittadino e i partigiani poterono finalmente guadare il fiume. Dovettero subito impegnarsi in intensi combattimenti contro gli avversari, attestati da est a ovest lungo il passante ferroviario e il corso del Mugnone. Affiancati alcuni giorni dopo da pattuglie Alleate, ne contennero le controffensive e, attorno al 18 del mese, li respinsero sulle alture collinari. Ma solo alla fine di un lunghissimo agosto riuscirono a liberare i quartieri più settentrionali della città.
Foto 2 fronteOltre duecento morti e molte centinaia di feriti furono il prezzo pagato dagli uomini e dalle donne della Resistenza nella battaglia di Firenze. Un prezzo oltremodo elevato, giacché i partigiani giunti in città furono meno di millecinquecento e le squadre cittadine ne contavano pochi di più e nemmeno per metà armati. Ancor di più furono le vittime civili, notevolissimi i danni agli edifici e i disagi conseguenti per gli sfollati.

Eppure, l’insurrezione fu anche e soprattutto una festa, per la libertà riconquistata con le proprie forze e il proprio sacrificio e per la dimostrata capacità – legittimata anche dagli Alleati – di fondare sull’assunzione di responsabilità democraticamente condivise il diritto e il potere di governare la città e gli istituti della sua vita civile, economica e sociale.




19 luglio 1944: gli alleati liberano Livorno, “città fantasma”

«L’opposizione e la resistenza [sono] costrette dentro un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile»; questa frase, scritta da Cesare Ciano, rende meglio di tante descrizioni le terribili condizioni in cui si trovava Livorno nel 1944. Parole simili si ritrovano nella descrizione fornita da un soldato americano, al suo ingresso in città: «a ghost town, lying in ruins, pulverised by Allied bombing» («una città fantasma, che cade a pezzi, polverizzata dai bombardamenti alleati»). Non è un caso se quando Luigi Comencini diresse il film Tutti a casa, nel 1960, molte scene furono girate a Livorno, che ancora in pieno boom economico era lo scenario adatto per fingere di essere ancora in guerra.

Il 1943 era stato un anno particolarmente funesto per la città: luogo di imbarco per il materiale bellico che doveva servire all’esercito italiano e a quello tedesco per sostenere le battaglie contro gli Alleati nell’Africa settentrionale, oltre che principale centro logistico per gli spostamenti delle truppe da e per la Corsica e la Sardegna, il porto di Livorno fu sottoposto a una serie di bombardamenti devastanti per l’intera città, in particolare quello del 28 maggio. Le vicende successive non fecero che aggravare la situazione: i combattimenti successivi all’8 settembre con il tentativo di resistenza all’occupazione tedesca da parte delle truppe italiane (e l’uccisione tra gli altri del maggiore Gamerra a Stagno), così come l’istituzione da parte dei comandi nazisti della “Zona nera” il 12 novembre, che imponeva per decreto lo sgombero completo del porto e del centro urbano, contribuirono ad annichilire la vita nella città portuale. La strategia militare degli Alleati mirava a far mantenere sulla costa toscana un grande quantitativo di truppe tedesche, facendo credere all’imminenza di uno sbarco navale che avvenne invece ad Anzio, nel gennaio 1944. I bombardamenti continui nell’area labronica si devono spiegare anche con questa funzione di ‘diversivi’, per quanto la cosa possa suonare paradossale.

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Piazza Grande, un cumulo di macerie (Raccolta Giancarlo Sandonnini, Archivio Istoreco Livorno)

Quando poi si realizzò l’avanzata di terra, tra il giugno e il luglio 1944, i combattimenti furono durissimi. Mentre procedeva l’avanzata alleata, l’importanza della Resistenza divenne sempre più evidente: i partigiani furono decisivi nelle azioni di contrasto ai tedeschi e nel mostrare il territorio alle truppe alleate per accelerare il processo di liberazione. Dopo la battaglia di Rosignano del 12 luglio, l’obiettivo per gli angloamericani divenne Livorno, la cui liberazione fu preceduta da un accerchiamento della corona di paesi che vanno dal Castellaccio a Collesalvetti. Il contributo alla liberazione di Livorno venne proprio dai partigiani del 10º Distaccamento: dopo aver fatto alcuni sopralluoghi nei giorni precedenti, il 19 luglio 1944 entrarono a Livorno insieme alle truppe americane.

La storia della liberazione di Livorno non può prescindere da questi elementi, dalla vicenda di un tessuto urbano devastato dalle bombe e dalle truppe tedesche. Il valore della Resistenza sta anche in questo, nella capacità di rinascere dalle rovine provocate dal fascismo e dalla tragedia bellica, creando un nuovo tessuto connettivo a partire dai germi diffusi dell’antifascismo. Quest’aspetto si coglie molto bene in un brano scritto da Mario Lenzi, uno dei primi a entrare nella Livorno liberata: «Dall’alto delle Rocce Rosse, sul Castellaccio, mi fermai a guardare Livorno, distrutta dalle bombe americane e dalle mine tedesche, con il cannocchiale che gli americani mi avevano assegnato. Si vedevano distintamente le rovine del porto, decine di navi affondate che emergevano dall’acqua bassa, le macerie della piazza Grande, il Duomo sventrato. Percorsi lentamente tutto il panorama della città morta: via Ricasoli, via Roma, Piazza Magenta. Puntai il cannocchiale dove era Villa Medina, ma la mia scuola non c’era più. […] Forse quel mondo non era mai esistito. E se era esistito, poi era scomparso. Un baratro si era aperto, ingoiando per sempre la scuola, le strade, i miei compagni. Erano andati via tutti e con loro se n’era andato anche il ragazzo che io ero stato. Dalla città che c’era una volta, ora si alzavano pigramente nell’aria colonne di fumo».

*Stefano Gallo è assegnista di ricerca presso l’ISSM-CNR di Napoli. Il suo principale campo di ricerca è la storia delle migrazioni e del lavoro, ma si dedica anche alle vicende della Seconda guerra mondiale e della Resistenza. Collabora con l’Istoreco di Livorno, per il quale sta conducendo una ricerca sulla storia della Resistenza, ed è socio fondatore della SISLav (Società Italiana di Storia del Lavoro), di cui copre attualmente il ruolo di segretario coordinatore.




La liberazione di Siena

Il mattino del 3 luglio 1944 i soldati del corpo di spedizione francese entrarono a Siena da Porta S. Marco, mentre gli ultimi reparti tedeschi uscivano, in direzione opposta, da porta Camollia. Paolo Cesarini, giornalista e letterato, se ne accorse affacciandosi alla finestra della sua abitazione su Piazza del Campo. Da lì, in un silenzio quasi irreale, vide una camionetta tedesca allontanarsi e, poco dopo, una jeep alleata arrivare. Paolo Goretti , un ragazzo che abitava a pochi passi da Piazza Salimbeni, percepì che qualcosa era cambiato sentendo passare per strada una fila di soldati le cui calzature non faceva quasi rumore, a differenza degli scarponi chiodati della Wehrmacht.

Quella di Siena fu dunque una liberazione dolce, senza scoppio di cannonate, crepitio di mitragliatrici, fucilate di cecchini. Ciò dipese da almeno tre fattori. I tedeschi decisero di non difendere la città, perché inadatta a costituire il perno di una delle linee di contrasto che predisposero laddove la topografia le consigliava, dall’Amiata al torrente Farma, dal fiume Merse ai Monti del Chianti. Il CLN, nel quale prevalse la componente favorevole ad un compromesso con le autorità fasciste – il podestà Luigi Socini Guelfi promosse, con il CLN, la costituzione di una guardia civica – contrastò l’ipotesi di un’insurrezione, peraltro inficiata da un forte rastrellamento germanico nella zona di Tegoia ai danni di un distaccamento della Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini che aveva ricevuto l’ordine di avvicinarsi al capoluogo. Infine, la ventura volle che il comandante delle truppe francesi che si apprestavano all’assalto fosse un estimatore del gotico senese e desse ai suoi subalterni l’ordine impossibile di tirare cannonate soltanto al di là del XVIII secolo, confortato, in questa sua decisione, da un ufficiale del Raggruppamento patrioti Monte Amiata, il quale, attraversate le linee, lo informò che i tedeschi se ne stavano andando.

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Il 3 luglio 1944 a Siena (Archivio ISRSEC)

Ma questo epilogo della guerra a Siena – peraltro in linea con una lotta antifascista sfociata in azioni armate molto tardi, nella seconda metà di giugno, con la liberazione dei prigionieri politici del carcere di S. Spirito, l’uccisione di alcuni fascisti e uno sfortunato attacco alle retroguardie tedesche proprio nella giornata del 3 luglio – non deve trarre in inganno. Anche Siena aveva infatti conosciuto la sua parte di violenze: la deportazione di cittadini ebrei catturati dai fascisti locali, il processo e la fucilazioni di alcuni partigiani, la distruzione di infrastrutture civili e il saccheggio di negozi per mano dei soldati germanici. Neppure i bombardamenti aerei le erano stati risparmiati – il tentativo del capo della provincia Giorgio Alberto Chiurco e dell’arcivescovo Mario Toccabelli di farla dichiarare città aperta, in virtù dei suoi numerosi ospedali, non aveva avuto esito presso gli alleati perché tedeschi e fascisti non avevano proceduto alla sua completa smilitarizzazione – e soltanto l’ubicazione periferica della stazione ferroviaria, obiettivo principale delle incursioni aeree, bastevolmente distante dagli insediamenti più densamente abitati, aveva fatto sì che il numero di vittime civili fosse stato inferiore rispetto ad altre città toscane.

Se nel capoluogo l’attività partigiana combattente fu esile, robusta e intensa si manifestò invece nel territorio provinciale, evidenziando un marcato dualismo città-campagna su cui la storiografia ha riflettuto a lungo. Nel corso di nove mesi di lotta, a partire dall’8 settembre del 1943, i partigiani combattenti nel senese arrivarono ad oltre millecinquecento e ad oltre mille i patrioti della rete informativa e logistica. Di essi, più di trecento rimasero uccisi in centinaia di azioni, fra sabotaggi, agguati, occupazioni temporanee di centri abitati, combattimenti e rastrellamenti. Sul fronte opposto, i morti fra i fascisti superarono i duecento e anche le perdite tedesche furono consistenti.

Protagoniste di una guerriglia così diffusa furono numerose bande che, superando spontaneità e isolamento, vennero man mano inquadrate nella Brigata Garibaldi Spartaco Lavagnini, nella Brigata Garibaldi Guido Boscaglia, nel Raggruppamento patrioti Monte Amiata e nella SiMar, quattro grosse formazioni di differente orientamento politico – comuniste le prime due, monarchiche le altre due – che operarono a cavallo con le province di Grosseto, Pisa, Arezzo, Perugia.

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Soldati alleati sotto il monumento della Lupa a Siena (Archivio ISRSEC)

L’apporto militare della Resistenza senese, tutt’altro che trascurabile, accelerò il collasso dell’apparato militare e politico fascista – già nel mese di aprile il questore annotava che la GNR non aveva più il controllo di molte zone -, impegnò forze fasciste e tedesche che avrebbero potuto confluire al fronte, favorì in vario modo un’avanzata degli alleati per nulla agevole.

Truppe sudafricane dell’esercito inglese, truppe algerine e marocchine del corpo di spedizione francese e truppe americane si affacciarono ai confini meridionali della provincia di Siena alla metà di giugno. Schierate rispettivamente ad est, al centro e ad ovest, si mossero verso i centri abitati della Val di Chiana con direzione Chianti, verso quelli dell’Amiata, Val d’Orcia, Val d’Arbia con direzione Siena e verso quelli delle Colline Metallifere con direzione alta Val d’Elsa. Il contrasto tedesco, spesso così forte da originare sanguinosi combattimenti di più giorni – Radicofani, Chiusi, Brolio, per limitarsi a tre soli esempi -, fu causa di una nutrita serie di cannoneggiamenti in cui rimase pesantemente coinvolta la popolazione civile. I primi comuni liberati furono Piancastagnaio e Abbadia S. Salvatore, il 18 giugno, l’ultimo Radda in Chianti, il 20 luglio. Più di un mese fu dunque necessario agli alleati per coprire una distanza di poco superiore ai cento chilometri, a ulteriore dimostrazione dell’asprezza dei combattimenti.

La fine dei quali non segnò tuttavia il termine della lotta per oltre ottocento partigiani, i quali si arruolarono nei gruppi di combattimento del rinato esercito italiano – in maggioranza nel Cremona – per continuare la guerra al di là della linea Gotica.

 




Comunicare la Resistenza: sfide e proposte

Una riflessione sulla complessa, contraddittoria immagine della Resistenza nel panorama politico italiano può agevolmente partire da un’immagine recente: il corteo per il 25 aprile organizzato a Milano dal centro-sinistra. Scevra di una preventiva discussione capace di giustificarne i presupposti e di evidenziarne i legami con decenni di celebrazioni resistenziali, la giallo-blu festa della libertà e dell’Unione Europea ha attutito la percezione della festa della Liberazione dal nazi-fascismo. Il problema non è l’infondatezza del collegamento, peraltro ragionevole e giustificabile: le dimensioni transnazionali ed europee della Resistenza e l’elaborazione, proprio in quel drammatico contesto e davanti alle atrocità della seconda guerra mondiale, di un’unione politica che scongiurasse simili eventi, danno ai due processi un sostrato comune. A lasciare dubbiosi sono le modalità con cui temi e problemi nuovi sono stati giustapposti all’esistente come una patina, senza alcun legame con la Resistenza e le sue ricorrenze celebrative; e tutto ciò rende evidente, a mio avviso, quanto ora più che mai sia urgente e necessaria una discussione sul tema.

Da diversi anni l’“oblio della Resistenza” ricorre con insistente puntualità in articoli, pubblicazioni e discorsi accademici. Non è certo un vezzo professorale. Per accorgersene, è sufficiente prestare un po’ d’attenzione e osservare tutte le “memorie di pietra” – dai cippi alle lapidi, dalle targhe ai monumenti – dedicate agli anni ’43-45 da enti locali e associazioni, chi ricordano e in quali anni sono state inaugurate. Non è la rarefazione delle nuove testimonianze a saltare all’occhio, quanto piuttosto un cambiamento dei temi e delle modalità espressive: a essere ricordate – con pietre a inciampo o targhe contenute, scarsamente osservabili dall’occhio distratto del cittadino o del visitatore occasionale – sono soprattutto le vittime del conflitto, che siano per i bombardamenti o per le retate naziste. I monumenti, più costosi e maggiormente suscettibili, con la loro stazza, di cambiare il paesaggio cittadino, sono poco presenti nelle nuove politiche della memoria; ugualmente rare sembrano anche le testimonianze a favore di chi attivamente contribuì alla guerra.

Questa consapevolezza apre la strada a ulteriori considerazioni su come guerra e resistenza siano differentemente commemorate e recepite. Non abbiamo guerre sul nostro suolo da più di settant’anni, è vero. Ma chi non sa cosa sia una guerra? Chi non ha letto o guardato un reportage sulle innumerevoli tragedie belliche che ancora si consumano nei più disparati angoli del pianeta? La guerra, nonostante tutto, fa ancora parte del nostro orizzonte mentale e culturale. E la Resistenza, invece? È questo, indubbiamente, un concetto molto più difficile da assumere e da collocare nei nostri schemi mentali, soprattutto da quando, come ha giustamente notato Ersilia Perona, l’89 e la fine del comunismo hanno rivoluzionato i nostre prospettive. Spesso, per incardinarla nella narrazione politica italiana, la Resistenza è stata accostata al Risorgimento fino a farne un “secondo Risorgimento”, come ricorda Aldo Agosti nel volume Resistenza e autobiografia di una nazione: un paragone che alla Resistenza, soprattutto in questi ultimi anni di contestazione e revisione del processo di costruzione nazionale, non ha certo portato fortuna.

È tuttavia indubbio che un’efficace divulgazione della Resistenza e dei suoi valori debba incardinarsi sulle tematiche dell’oggi. Deve sapersi indirizzare alle inquietudini e alle problematiche contemporanee coinvolgendo, e coinvolgendo emotivamente, visitatori e fruitori, fino a renderli parte viva e attiva del reperimento e della costituzione della mostra. È certamente un processo rischioso e denso di pericoli, come è stato giustamente notato nel corso della conferenza: ma, se diretto e controllato passo per passo da storici ed esperti, può garantire, a mio avviso, un apprendimento più radicato e duraturo. In questa prospettiva si sono mossi in questi anni gli Istituti della Resistenza e dell’età contemporanea in Toscani con progetti che, in particolare a partire dal 70° della Liberazione, hanno conseguito significativi risultati di divulgazione scientifica e partecipazione di pubblico: dall’esposizione “Firenze in guerra” curata dall’Istituto storico della Resistenza in Toscana al “La Storia in soffitta” dell’Istituto lucchese, dal progetto “Cantieri della memoria” realizzato dall’Istituto grossetano alla mostra diffusa “Cupe vampe” allestita dall’Istituto di Pistoia per ricordare  il bombardamento dell’ottobre 1943 fino a quella sugli “Ebrei in Toscana” curata dall’Istoreco livornese.

Bisogna innanzitutto puntare al significato di scelta che per molti significò la partecipazione alla Resistenza – sia che vi avessero aderito in modo attivo combattendo nelle formazioni partigiane oppure che, con il sostegno dalle retrovie, avessero assicurato ai combattenti vitto, equipaggiamento e materiale. Non un mero tornaconto personale, ma un fine collettivo ne animò l’azione: quello di poter vivere in una società più giusta e democratica. È un significato che dobbiamo recuperare, perché sottende quella cura dell’altro e del bene pubblico che è alla base del moderno concetto di cittadinanza e che, oggi più che mai, latita. Quel che dobbiamo ricordare con le nostre esposizioni e le nostre mostre, e che ha valore tanto oggi quanto settant’anni fa, è che solo quando si ritiene il benessere della collettività la necessaria condizione per far avverare anche il proprio che si realizza una società giusta e democratica.

Chiara Martinelli ha conseguito il dottorato in storia contemporanea all’Università di Firenze nel 2015. Dal 2013 ricopre la carica di consigliere nel consiglio direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, con cui collabora dal 2007. E’ autrice di diverse pubblicazioni sulla storia della scuola, tra cui:  Schools for workers? Industrial and artistic industrial institutes in Italy (1861-1914); in E. Berner and P. Gonon (edd. by), History of Education and Training in Europe: Cases and concepts, Lang, 2016; Branding technical institutes in Italy (1861-1913), in A. Heikkinen and L. Lassnigg (edd. by), Myths and Brands in Vocational Education, Cambridge, 2015; Esigenze locali, suggestioni europee: le scuole industriali e d’arte applicata all’industria in Italia (1861-1886), “Passato e presente”, XXXII (2014); Lo sguardo ambivalente sulla tradizione nei quaderni di scuola durante il periodo fascista: Pistoia 1929, “Società e storia”, 137 (2012).

 




La Resistenza in un piccolo comune pistoiese: Lamporecchio

L’inizio dell’attività partigiana e della Resistenza armata in provincia di Pistoia deve essere collocato poco dopo l’inizio dell’occupazione nazista nel settembre 1943, quando le prime squadre sorsero sulle montagne pistoiesi, nelle aree collinari e nella zona valdinievolina. Erano formate da soldati sbandati, renitenti alla leva, uomini di altre nazionalità fuggiti dalla Wehrmacht, donne e antifascisti.

Nell’accezione più ampia del termine, la Resistenza è un fenomeno complesso che coinvolse, a vari livelli, un’ampia maggioranza della nazione e tutti gli strati sociali della popolazione: dal fornire cibo e alloggio a un estraneo, che sia un partigiano o un soldato sbandato, al rivelare informazioni a un “bandito” o agli alleati; dall’ascoltare Radio Londra al non presentarsi alla leva obbligatoria; dal combattere attivamente i tedeschi all’effettuare sabotaggi.

In Toscana il 9 ottobre 1943 fu costituito il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale (CTLN), erede dei comitati interpartiti e dei fronti antifascisti già attivi durante il ventennio fascista. La resistenza pistoiese s’inserisce nel quadro di quella toscana: in parte ebbe origini autoctone e in parte fu promossa, coordinata e supportata dall’esterno e dai partiti. Militarmente fu suddivisa in due zone: undicesima e dodicesima.

A Lamporecchio, l’unica formazione costituita fu la “Squadra di Azione Patriottica” (S.A.P.), chiamata anche “Lamporecchio”, di ispirazione profondamente comunista. Nel comune operarono sporadicamente anche le formazioni “Comunista n. 1”, “Ribelli del Montalbano” e “Silvano Fedi” di Pistoia.

La S.A.P., guidata dal comunista Giovanni Calugi, aveva sede presso la Cisterna di Montefiori, situata sulle colline, svolse la sua attività sul Montalbano e operò nei comuni di Lamporecchio, Larciano, Vinci, Serravalle Pistoiese. La sua forza raggiungeva e superava la cinquantina di uomini, specialmente quando venivano effettuate azioni e si aggregavano vari patrioti; la squadra sostenne dieci scontri a fuoco e inflisse ai tedeschi 4 morti, 13 feriti e 8 prigionieri. Due partigiani morirono, tre restarono feriti; un russo che si trovava nella formazione da due mesi, chiamato Ivan, rimase ucciso da una raffica di mitra durante uno scontro il 12 agosto 1944 e venne sepolto al cimitero di Larciano; Leonetto Neri, residente in Cerbaia, fu ferito in uno scontro il 2 settembre e morì dopo qualche settimana all’ospedale di Siena; Enzo Verdiani, residente a San Baronto, fu ferito a una gamba da una pallottola di mitra il 28 luglio; Ivo Ancillotti, residente in Cerbaia, fu ferito a una mano da una pallottola di mitra; Osvaldo Desideri, residente a Larciano, rimase ferito in seguito allo scoppio del proprio fucile il 12 agosto.

La formazione lamporecchiana, oltre agli scontri a fuoco, si occupò della raccolta delle armi, del servizio informazioni, dei sabotaggi e di aiuto nei confronti dei fuggiaschi e della popolazione. Fu continuamente in contatto con la brigata “Bozzi” con la quale effettuò alcune azioni sulla montagna pistoiese. Un personaggio di spicco della formazione fu Giovanni Frediani con ruoli di comando, di collegamento con altre formazioni e di rifornimento alimentare.

La squadra “Comunista n. 1” si scontrò il 2 e il 4 agosto con pattuglie tedesche nella zona di Lamporecchio; la “Silvano Fedi” di Pistoia effettuò alcune azioni di sabotaggio presso San Baronto il 15 agosto; i “Ribelli del Montalbano” sostennero combattimenti armati il 4 e il 5 settembre lungo la strada che da San Baronto conduce a Casalguidi e obbligarono i repubblichini a ricostruire le vie e i ponti distrutti.

Lamporecchio venne liberata dall’occupazione nazifascista dopo circa un anno, esattamente il 2 settembre 1944. La liberazione ricalcava in molte zone lo stesso schema. Può essere applicato in maniera appropriata al caso lamporecchiano e a quello di parte della provincia pistoiese: i tedeschi scappavano dal territorio e arretravano verso nord, gli angloamericani prendevano contatto con le formazioni partigiane e avanzavano prudentemente, i partigiani assumevano il possesso della città, infine gli angloamericani arrivavano definitivamente e imponevano il proprio controllo sul paese.

Gli alleati a fine agosto si avvicinarono a Pistoia da sud e gli inglesi presero contatto il 1° settembre con le formazioni partigiane valdinievoline.

La formazione partigiana S.A.P. di Lamporecchio partecipò attivamente alla liberazione insieme alla banda Silvano Fedi di Pistoia, comandata da Enzo Capecchi e Artese Benesperi. Giunta la notizia che gli alleati avevano attraversato il fiume Arno, la squadra si divise in varie pattuglie per “rastrellare la zona”. Il paese fu occupato dopo vari scontri a fuoco: il primo avvenuto in Cerbaia e costato la vita a Leonetto Neri, il secondo nei pressi di Lamporecchio, il terzo nella località Giugnano, il quarto nella frazione Vaccareccia.

Quel giorno vennero catturati alcuni nazisti e consegnati agli inglesi, i primi ad arrivare in paese. Successivamente, il 3 settembre, la formazione partecipò alla liberazione di San Baronto, seguita da quella di Pistoia, occupata l’8 settembre in collaborazione con le altre squadre partigiane della provincia.

I partigiani residenti e riconosciuti in città furono 35; i patrioti, invece, 31.

Fu fondamentale la presenza di numerose donne all’interno della Resistenza, anche lamporecchiane, come possiamo intuire dalla relazione sull’attività svolta dai gruppi di “Difesa della Donna” nella provincia di Pistoia: “Tutte le organizzate hanno prestato la loro opera con fede e costanza, senza avvertire la stanchezza e rifiutando la paura, viaggiando attraverso i posti di blocco tedeschi, soggette a perquisizioni e requisizioni. Hanno continuato la loro lotta contro i nazi-fascisti, adoperandosi a seguirne i movimenti, ad ostacolare le loro opere di rastrellamento, fiduciose che i loro sacrifici sarebbero stati coronati dalla vittoria completa”.

Il giorno dopo la liberazione, il 3 settembre 1944, il CLN si riunì nell’ufficio comunale del paese: i componenti progettarono un piano di attività basato sulla collaborazione di tutti e destinato esclusivamente al bene della collettività; vennero anche salutate le truppe di liberazione dell’esercito alleato che, per mezzo di cinque rappresentanti, assistettero all’assemblea.

Il 6 settembre, su richiesta angloamericana, fu nominata la giunta comunale che si sarebbe riunita per la prima volta l’11 settembre alle 9.30. La giunta a sua volta nominò Foscolo Maccioni, già presidente del CLN, come primo sindaco di Lamporecchio dopo la liberazione.

Decine di cittadini lamporecchiani continuarono la lotta di liberazione, arruolandosi nei Gruppi di Combattimento (Legnano, Folgore, Cremona, Friuli, Mantova e Piceno.) e affiancando le truppe alleate durante la risalita nel nord Italia. Furono circa 500 i pistoiesi partiti da piazza del Duomo il 16 febbraio 1945: ex militari, ex partigiani, semplici cittadini che desideravano dare il loro contribuito alla liberazione del resto d’Italia, avvenuta ufficialmente nell’aprile 1945.

Matteo Grasso, laureato in storia contemporanea con una tesi sull’occupazione nazifascista di Monsummano terme, è direttore dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Pistoia. Svolge attività di ricerca archivistica, orale e bibliografica finalizzata all’approfondimento locale e nazionale di particolari momenti del Novecento e lavora presso l’Associazione Culturale Orizzonti di Lamporecchio che diffonde il mensile Orizzonti. In precedenza ha svolto un tirocinio annuale per la valorizzazione culturale di Villa La Quiete a Firenze. Fra le pubblicazioni ricordiamo: “Giovanni Fattori. Lettere di un montalese dal lager nazista” (2017); “Sulle tracce della memoria. Percorsi pistoiesi nei luoghi della guerra” (2015); “Guerra e Resistenza. Vicende partigiane per uno della «Bozzi», la storia personale di Doriano Monfardini” (2014).