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«Verso le 1,30 di stanotte ho udito…»

Il 30 maggio 1924 Giacomo Matteotti nel suo ultimo intervento alla Camera dei deputati denuncia le violenze e i brogli elettorali effettuati dai fascisti durante le ultime elezioni politiche, quelle che si erano svolte il 6 aprile, chiedendo «l’annullamento in blocco delle elezioni della maggioranza» e mettendo di fatto in crisi il risultato politico che più sta a cuore a Mussolini e ai fascisti: la parvenza di legalità, che con la realizzazione della legge Acerbo volevano perseguire.
La riforma elettorale approvata prima dalla Camera, il 23 luglio, e poi dal Senato il 3 novembre 1923, istituiva il collegio unico nazionale e la scheda di Stato, abolendo il sistema proporzionale e stabilendo la regola dell’attribuzione di due terzi dei seggi alla lista che avesse raccolto la maggioranza dei voti validi, senza fissare in origine alcun tipo di quorum. I votanti sono il 63% del corpo elettorale e il «listone» ottiene 4.305.936 voti[1], ai quali si aggiungono i 347.552 voti delle «liste bis» raggiungendo così il 56,54% dei voti su un totale di quelli validi di 7.021.551. Al Nord Italia, a dispetto delle pressioni e delle violenze, le forze dell’opposizione raccolgono più voti di quelle fasciste, ma nonostante questo il plebiscito ottiene un notevole successo. Nella provincia pisana al «listone» vanno 72.163 voti a fronte dei 14.792 raccolti dall’opposizione[2].
Matteotti denuncia con audacia le violenze e le manipolazioni del voto effettuate dalle squadre fasciste con la collaborazione di numerose prefetture e apparati dello Stato, ma questa coraggiosa presa di posizione gli vale solo la condanna a morte. Il 10 giugno è rapito e ucciso dalla banda fascista dei sicari di Dùmini[3].
Le violenze degli squadristi perpetuate nei mesi e nelle settimane precedenti il voto elettorale spesso si tramutano in veri e propri attacchi criminali: ad esempio, il 28 febbraio 1924, i fascisti uccidono a Reggio Emilia a colpi di pistola il candidato socialista Antonio Piccinini, tipografo e sindacalista, mentre in altre località feriscono altri esponenti dell’opposizione come i riformisti Enrico Gonzales, Giovanni Battista Canepa e Bruno Buozzi.
L’uccisione di Antonio Piccinini avviene con una dinamica ben precisa, la stessa che i fascisti utilizzano in altri casi. L’esponente socialista è prelevato al suo domicilio da alcuni fascisti, che si sono fatti aprire la porta con uno stratagemma: gli squadristi si presentano come socialisti esibendo una tessera sottratta a veri iscritti, aggrediti in precedenza. Piccinini è poi trucidato da lì a poco nella casa di due dei sequestratori, che dopo averlo stordito di bastonate lo appendono a dei ganci in un locale per la lavorazione dei maiali e lo finiscono con quattro colpi di rivoltella sparati a bruciapelo. Il corpo straziato è fatto trovare all’alba sotto un albero lungo la ferrovia Reggio-Ciano d’Enza, non lontano dalla sua abitazione, affinché i lavoratori che arrivano in città col treno locale per recarsi al lavoro possano constatare la fine che i fascisti fanno fare ai dirigenti operai.

Ugo Rindi

Anche la provincia pisana è attraversata da numerosi episodi di violenza e intimazioni: il 20 marzo una squadra di fascisti a Pontedera devasta la casa del comunista Antonio Romboli bastonando l’intera famiglia e ferendo il figlio con un colpo di pistola; nello stesso giorno è aggredito e ferito l’ex sindaco di Bientina, Annibale Iacopetti; il 24 marzo a Nodica i fascisti feriscono un socialista; il 29 marzo a Latignano gli squadristi picchiano un invalido di guerra iscritto al Partito popolare; il 4 aprile viene bastonato un ex consigliere del Partito popolare e a Ponsacco un gruppo di iscritti al Partito di Don Sturzo sono percossi selvaggiamente.
L’episodio più grave, sempre legato alle tensioni nate intorno alla data delle elezioni, è quello dell’uccisione di Ugo Rindi, tipografo, segretario della locale Federazione italiana del libro (il sindacato dei tipografi)[4], che avviene a Pisa nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1924[5].
Recentemente l’Archivio di Stato di Pisa ha ricevuto un consistente fondo di documenti provenienti dall’archivio del Tribunale di Pisa che sono stati oggetto di un primo ordinamento e che contribuiscono a chiarire ancora meglio la dinamica dell’assassinio[6].

L’8 aprile, intorno alle 20, Emilio Gnesi, ufficiale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, si reca insieme al console Francesco Adami dal questore Pace e dal prefetto Renato Malinverno per denunciare il grave ferimento di un fascista. Il presunto responsabile è Ulico Caponi, colono abitante in località Villa Filippi a circa un chilometro e mezzo da Porta a Lucca sulla via per San Giuliano Terme. Nel frattempo, la notizia viene fatta girare ad arte in città[7].
Il racconto degli squadristi afferma che un’auto guidata dallo squadrista Dino Poli, con a bordo Gualtiero Bacci e Ruffo Lester e i militi della MVSN Emilio Gnesi, Giulio Susini, Ruffo Monnosi e Guido Marradi, aveva raggiunto «Villa Filippi», la casa colonica abitata della famiglia Caponi per dare una lezione a Ulico, che il giorno delle elezioni ha dichiarato, all’uscita del seggio, la propria fede antifascista di fronte agli squadristi presenti. Evitato il linciaggio grazie all’intervento di un ufficiale dei carabinieri il Caponi si è rifugiato a casa sua. Secondo i fascisti quando Caponi li vede entrare nel proprio cortile si dà alla fuga nei campi sparando e ferendo gravemente lo squadrista Poli[8]. Il ferito è immediatamente trasportato in ospedale ma le sue condizioni, nonostante l’intervento dei sanitari, peggiorano rapidamente nella notte e intorno alle 14 del 9 aprile spira tra le braccia della moglie[9].
Il Prefetto e il Questore di Pisa credono ai fascisti e si prodigano immediatamente per dare ordini affinché il presunto assassino venga assicurato alla giustizia e chiedendo agli stessi squadristi di collaborare alle ricerche. Questi ultimi non si fanno ripetere la richiesta una seconda volta e immediatamente si mobilitano attivando quattro squadre che perlustrano Pisa e dintorni, colpendo tutti coloro che gli capitano a tiro, compreso, come ricorda il Procuratore generale della repubblica di Firenze, «persone indifferenti e innocue»[10].
Tra le due e trenta e le tre del 9 aprile due barrocciai, Riccardo Cioni di Empoli e Armando Matteucci di Firenze, sotto un’incessante pioggia escono da Porta a Lucca con i loro carri dirigendosi a sinistra verso Viareggio per la via del Marmigliaio quando i loro cavalli all’improvviso si bloccano perché qualcosa impedisce loro di procedere. Scesi dai loro carri i due barrocciai si accorgono che in mezzo alla strada giace insanguinato il corpo di un uomo. Subito si dirigono verso la vicina stazione daziaria avvisando gli impiegati presenti, due dei quali si recano sul posto e riconoscono immediatamente il corpo di Ugo Rindi, una persona molto nota nel quartiere e in città[11].
Avvertite le autorità, i carabinieri e il commissario di PS giunti sul posto confermano il riconoscimento di Rindi, ucciso da due pugnalate, una delle quali gli ha reciso l’aorta. Il corpo viene rimosso dal selciato intorno alle 9 di mattina[12].

Alessandro Carosi

In poco tempo la notizia della morte di Rindi fa il giro della città. Il sindacalista aveva seguito le orme paterne sia dal punto di vista professionale che ideale[13]: da giovane era stato affascinato delle idee libertarie ed era una persona molto amata e impegnata nel sociale, tanto che le stesse autorità durante l’inchiesta più volte sottolineano nei loro rapporti che Rindi era una persona «idealista» e «proba e innocua», ricordando come si fosse distinto nel settembre del 1920 negli aiuti ai terremotati della Garfagnana e Lunigiana. Come scrive il Procuratore generale di Firenze, anche il parroco di Porta a Lucca, don Angelo Petrini, ne «esalta le virtù e i meriti sebbene il Rindi non accettasse la religione cattolica»[14].
Le indagini vengono espletate velocemente e le autorità ben presto comprendono la reale dinamica dei fatti grazie anche alla collaborazione fondamentale e inaspettata del capitano Bruno Santini, leader di una delle fazioni del fascismo locale, che fin dalle prime ore del 9 aprile si prodiga, facendo visita anche alla famiglia Rindi, per comprendere la dinamica della brutale aggressione e individuare i responsabili. È grazie proprio alla denuncia di Santini e di altri suoi commilitoni alle autorità che vengono identificati gli assassini di Rindi[15].
L’11 aprile è arrestato il sindaco di Vecchiano, il già allora famigerato Alessandro Carosi[16], che come ricorda il Procuratore generale di Firenze amava presentarsi come «Tenente Carosi, sette volte omicida». Un personaggio che è animato al pari di altri sicari fascisti, sempre in base alle parole del Procuratore di Firenze, da «un istinto ferino» con assoluta mancanza di «moralità», che ha l’abitudine di ferire e uccidere per «brutalità, spavalderia e intimidazione»[17]. Carosi fa parte, dunque, di quella genia di «squadristi famigerati, accaniti e sanguinari, espressione di ceti e ruoli sociali ben definiti e tutt’altro che marginali e spostati»[18].

Filippo Morghen

Nei giorni e nelle settimane successive vengono arrestati anche i complici di Carosi: Antonio Sanguigni[19], segretario del fascio di Avane, Ranieri Cola[20], Giuseppe del Pellegrino[21] e Giulio Malmusi[22]. Sono arrestati anche il presunto mandante, Francesco Adami, console della MSVN[23] e il suo padrino, Filippo Morghen[24], segretario provinciale della Federazione e presidente del consiglio provinciale, oltre ai suoi più stretti collaboratori, gli squadristi Girolamo Grimaldi[25], segretario del fascio di San Giuliano Terme, Giuseppe Biscioni[26] e Ovidio Chelini, segretario del fascio di Nodica[27].
Vasta è l’eco dell’efferato assassinio sulla stampa locale e nazionale, Rindi è, come già ricordato, un personaggio assai conosciuto nella città, da tutti indicato come «uomo mite e onesto»[28]. Una grande sottoscrizione popolare nei confronti della famiglia del tipografo assassinato è lanciata dal periodico cattolico «Il Messaggero toscano»[29]. I funerali e le molte testimonianze dell’affetto della Pisa popolare e antifascista sono la prova di un’unanime condanna del delitto. La morte di Rindi ha lasciato nella disperazione la famiglia: la moglie Nella e i figli Emilio e Vera, la madre Rosa, la sorella Lavinia, che, subito dopo che Rindi è uscito di casa con i «fascisti», hanno cercato in città il proprio congiunto rivolgendosi invano anche alla Questura[30].
È molto probabile che Santini colga al volo l’occasione dell’assassinio di Rindi per cercare di liberarsi una volta per tutte

Giulio Malmusi, squadrista complice di Carosi nell’omicidio Rindi.

del gruppo legato a Filippo Morghen che, dall’autunno del 1922 ai primi mesi del 1924, si è distinto nell’occupazione di tutti i posti di potere chiave del territorio[31]. Questa occupazione di poltrone, una vera e propria ingordigia di potere, ha aperto delle fratture e «una furiosa e selvaggia lotta di gruppi» nelle file fasciste lasciando una parte degli squadristi della prima ora senza un corrispettivo adeguato di riconoscimenti e palesando un tradimento degli «ideali» del fascismo sansepolcrista[32].
Il 10 aprile giunge in città Luigi Freddi, responsabile dell’ufficio stampa del PNF, squadrista milanese della prima ora e «fedelissimo» di Mussolini, inviato a Pisa come commissario straordinario per rimettere ordine in una Federazione locale ormai profondamente dilaniata dai contrasti interni. Tutti i vertici della Federazione sono obbligati alle dimissioni e anche il prefetto Malinverno, troppo accondiscendente verso alcuni dei ras locali è sostituito da Giovanni Battista Rossi.
In giugno poi la notizia del rapimento dell’on. Giacomo Matteotti, con la sua eco emotiva, ha l’effetto, anche nel pisano, di un’ulteriore onda d’urto nelle file del fascismo e dell’opinione pubblica. Il clima politico è caratterizzato dall’incertezza, le autorità sono disorientate e gli stessi fascisti sembrano per un istante più indecisi e confusi sul da farsi.
Una lettera del capitano Santini alla redazione de «Il Messaggero toscano» della fine di agosto fotografa con chiarezza il clima politico di Pisa di quell’estate:

La situazione della città di Pisa è angosciosa, terribile, e non è soltanto una situazione del partito, ma l’imposizione di un sistema che offende la cittadinanza e gli onesti di tutte le tendenze, poiché mira all’apologia della delinquenza che ogni partito deve saper distruggere in se stesso se vuole vivere e prosperare. Pisa vive da tre mesi una tragica ora che non si vuol comprendere. Pisa ha visto l’8 aprile commettere nelle sue mura un assassinio obbrobrioso davanti al quale impallidisce un fatto come quello di Matteotti e i delinquenti furono consegnati alla giustizia dai fascisti stessi che non potevano ammettere nella loro buona fede che il fascismo si imbastardisse convivendo con l’inutile e deleteria delinquenza[33].

Nel frattempo nei primi giorni di luglio Freddi è sostituito nel suo incarico di commissario straordinario dall’on. Ezio Maria Gray che cerca di riportare alla «normalità» la vita della Federazione, ma in realtà alla fine chi paga maggiormente è il gruppo di Santini che l’anno successivo, non senza aver ricevuto minacce e pressioni di ogni tipo, decide di abbandonare Pisa e la militanza per trasferirsi a Milano.
La figura che si afferma in questo periodo di transizione è quella di Guido Buffarini Guidi, decorato di guerra, avvocato, massone e sindaco di Pisa, dal 1923 al giugno 1924, quando lascia l’incarico perché eletto in Parlamento. Noto per il motto «Ci penso io», ripetuto più volte a fronte di problemi e richieste di interventi, Buffarini non abbandona a se stessi gli esecutori dell’assassinio di Rindi, garantendo loro sussidi, assistenza e coperture.
La violenza del fascismo pisano ha un’altra occasione di mettersi in mostra il 2 gennaio 1925, il giorno prima del noto discorso di Mussolini al Parlamento sulle responsabilità del delitto Matteotti, quando sono assaltate le sedi delle organizzazioni dell’opposizione che ancora sopravvivevano e della massoneria. Viene tentato anche un assalto alle Carceri giudiziarie di S. Matteo al fine di liberare Carosi e Adami ma il tentativo fallisce per l’intervento massiccio di carabinieri e guardie di P.S. Sono devastate anche la redazione e la tipografia del «Messaggero toscano», che vengono distrutte da una forte esplosione, le abitazioni e gli studi di vari «notabili», rei di aver abbandonato il sostegno al fascismo, come Alfredo Pozzolini e Arnaldo Dello Sbarba, mentre gli squadristi non riescono ad entrare nello studio di Adolfo Zerboglio, noto giurista e senatore, perché sulla porta trovano un capitano degli alpini che impedisce armi alla mano alla squadra fascista di eseguire l’ordine di distruzione[34].
Il Procuratore generale di Firenze alla fine dell’anno conclude la sua istruttoria rinviando a giudizio Carosi, come esecutore dell’assassinio di Rindi, Malmussi e Grimaldi come complici, Adami e Biscioni come mandanti, mentre Morghen, Sanguigni, Cola e Del Pellegrino sono prosciolti dalle accuse per insufficienza di prove[35].
Il processo si svolge al Tribunale di Genova nel settembre del 1925, in un clima totalmente diverso rispetto a quello dell’anno precedente: nonostante le prove raccolte durante l’inchiesta, la sentenza finale è di assoluzione piena per tutti gli imputati. La corte di Genova ha subito forti pressioni politiche, proveniente anche da Roma, al fine di impedire una condanna che in quel contesto avrebbe significato una sconfessione piena di tutta l’organizzazione fascista locale. Il processo è anche l’occasione per la resa dei conti tra le due fazioni del fascismo a Pisa che nei mesi trascorsi hanno continuato a darsele di santa ragione, anche a colpi di revolver. In settembre un fascista seguace di Santini, Pilade Fiaschi, ingaggia a Marina di Pisa uno scontro a fuoco con un fascista «ufficiale», Gino Salvadori, entrambi rimangono feriti sul selciato ma ad avere la peggio è il secondo, che muore poco dopo[36].
Gli imputati assolti a Genova ricevono calorose accoglienze sia nella città ligure che a Pisa, dove i loro camerati li portano in «trionfo» per le vie delle città come dei «vincitori» di una gara sportiva[37].

Nel 1945, quando la guerra ancora non è terminata la Cassazione annulla la sentenza del 1925 e il caso viene riaperto ma nel frattempo uno dei principali esecutori dell’omicidio, Alessandro Carosi, si è dato alla macchia. Verrà condannato in contumacia a 21 anni di reclusione, come gli altri due imputati, ma non farà mai un giorno di carcere per il delitto Rindi, continuerà a vivere e lavorare a Roma, con la complicità di amici potenti, sotto il falso nome di Filippo Filippi[38]. Morirà nella capitale il 29 gennaio 1965 e la sua scomparsa avrà una vasta eco sui maggiori quotidiani italiani[39].
Carosi in carcere in precedenza ci era finito per un’altra tragica storia. Nel 1931 a Viareggio, dove risiedeva, uccide Assunta Beneforti (Tina), la sua amante e madre del figlio Sergio nato nel 1927. Per questo omicidio verrà condannato dalla Corte d’Assise di Firenze ad una lunga pena detentiva. Il 9 aprile 1943 inspiegabilmente Carosi è liberato con la condizionale e posto in regime di libertà vigilata. Decide di stabilire la propria residenza a Guardistallo dove viveva e lavorava la figlia Liliana avuta da una precedente relazione. Qui il 1° agosto 1943 sposa Cesarina Cesari la madre di Liliana. Il Prefetto preoccupato della presenza di Carosi e temendo le sue attività lo fa arrestate proponendolo per l’internamento in un campo di concentramento. Dopo l’8 settembre Carosi è liberato e nominato triumviro della Federazione pisana del nuovo Partito fascista repubblicano. Nei mesi seguenti collabora attivamente con la RSI e con gli occupanti nazisti.
Il 24 giugno 1944 si perdono le sue tracce, pare che si sia diretto al Nord insieme ai reparti e autorità fasciste della provincia. Secondo alcune testimonianze sembra che Carosi sia coinvolto nella denuncia alle autorità tedesche dell’antifascista e membro del CLN, Sisto Longa, che aveva retto il municipio di Guardistallo nei giorni seguenti la caduta di Mussolini. Longa il 29 giugno viene trucidato insieme ad altri 51 civili e 11 partigiani dalla Quarta compagnia della 19ª divisione da campo della Luftwaffe[40].

Il 14 maggio 1965, il senatore Umberto Terracini presenta un’interrogazione al Ministro dell’Interno, il senatore Paolo Emilio Taviani – democristiano ed ex membro del CLN ligure –, chiedendo come il ricercato Alessandro Carosi avesse potuto vivere e lavorare indisturbato a Roma nonostante la pesante condanna ricevuta. A Terracini rispose il sottosegretario all’interno, Crescenzo Mazza, con argomentazioni generiche e inconcludenti[41].
La vicenda Carosi mostra bene come l’eredità del fascismo abbia pesantemente condizionato la vita della giovane Repubblica italiana e come i suoi fantasmi si siano di volta in volta materializzati lasciando ferite profonde e aperte nella società civile del nostro Paese.
Il delitto Rindi è per Pisa quello che l’assassinio di Matteotti rappresenta per l’Italia: una svolta decisiva nell’evoluzione del fascismo, dove un partito politico da solo, il partito fascista, si autoproclama unico rappresentante di tutta la nazione. Un secondo effetto di questi episodi ricade soprattutto sulla tenuta dell’ordine pubblico e sulla gestione della giustizia. È evidente come in ambedue i casi lo Stato abdica a gruppi di potere locali e nazionali che si ergono in modo violento e spiccio, a volte in forme contraddittorie, a gestori della sicurezza nazionale.
Mussolini con il discorso del 3 gennaio 1925, assume la responsabilità storica di aver condotto il fascismo attraverso l’illegalità e la violenza al potere, mettendo al bando le residue forme democratiche del vecchio sistema monarchico/liberale, verso la costruzione di uno stato totalitario.
Pisa antifascista ricorderà Ugo Rindi nel secondo dopoguerra con varie manifestazioni e con l’intitolazione della strada che costeggia l’Arena e che partendo da via L. Bianchi arriva fino alla via del Marmigliaio.

NOTE:

1 La Lista nazionale nota comunemente come Listone oltre al Partito nazionale fascista (PNF), che l’anno prima aveva assorbito l’Associazione nazionalista italiana, comprendeva la maggioranza degli esponenti liberali come Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra e, inizialmente, anche Enrico De Nicola (che però ritirò la sua candidatura prima delle elezioni), ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti filofascisti, oltre a numerose personalità della destra liberale e cattolica italiana.
2 Si v. gli art. La elezione politica è stata un plebiscito nazionale e La Votazione di Pisa, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
3 Cfr. G. Mayda, Il pugnale di Mussolini: storia di Amerigo Dùmini, sicario di Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M. Canali, Il delitto Matteotti, Bologna, Il mulino, 2004; M.L. Salvadori, L’antifascista: Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Roma, Donzelli, 2023.
4 All’anagrafe Ugo Gustavo Ruffo Rindi nasce a Pisa il 21 maggio 1882 da Emilio e Rosa Lorenzetti. Per un inquadramento generale sulla storia del lavoro e sindacale di Pisa nel periodo cfr. A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS edizioni, 2016.
5 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il funzionario di servizio della Questura di Pisa al Procuratore del Re, 9 aprile 1924. Il quotidiano dei socialisti il giorno dopo la notizia della morte di Rindi riporta il fatto con il titolo esemplificativo: L’esecuzione capitale di un tipografo a Pisa, «L’Avanti!», 10 aprile 1924. Nell’articolo si fa riferimento alla similitudine del caso Rindi con quella del socialista Piccinini assassinato a Reggio Emilia in febbraio. 6 6 Per la cronaca pisana si v. anche Misterioso assassinio a Pisa. Un tipografo ucciso a pugnalate, «La Nazione», 10 aprile 1924 e Il tipografo ucciso, «Il Ponte di Pisa», 12-13 aprile 1924.
7 Il progetto di riordino è stato realizzato grazie ad un contributo della Fondazione Pisa e della Biblioteca Franco Serantini e realizzato dalla dr.ssa Giulia Vierucci. Ringrazio la direttrice dell’Archivio di Stato di Pisa, dr.ssa Jaleh Bahrabadi, per la disponibilità e la collaborazione e per l’autorizzazione alla consultazione dei materiali.
8 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Firenze, Rinvio a giudizio Carosi Alessandro … [et al.] per omicidio premeditato, 13 febbraio 1925 (d’ora in poi Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …)
Caponi si eclissa ma raggiunto dalle notizie delle minacce fatte alla famiglia decide il giorno dopo di costituirsi alle autorità rimanendo in carcere per circa due mesi. La «falsa» notizia dell’agguato nel quale sarebbe rimasto ferito Poli propagata dai vertici della Federazione pisana del fascio è immediatamente ripresa dalla stampa nazionale. Cfr. “Chauffer” ferito da uno sconosciuto mentre attende a una riparazione, «Il Corriere della sera», 9 aprile 1924.
9 La moglie accorsa in ospedale ebbe il tempo di ascoltare dalla voce del marito morente la nuda e tragica verità dei fatti. Poli nell’inseguire il Caponi attraversò un fosso e risalì la sponda opposta mentre i suoi iniziavano a sparare. Nella concitazione degli avvenimenti gli squadristi non si accorsero che sparavano nella sua direzione ed un colpo da fuoco «amico» lo prese in pieno. Alla moglie furono fatte molte pressioni da parte dei «camerati» di suo marito e gli venne garantito un vitalizio da parte della Federazione pisana del fascio e al processo Rindi dell’anno successivo confermò la versione «ufficiale» sulla dinamica dei fatti contribuendo all’assoluzione degli imputati. Solo dopo vent’anni, alla riapertura del procedimento contro i responsabili dell’omicidio di Ugo Rindi la vedova Poli racconterà la verità. Va qui ricordato che all’epoca la magistratura non aprì nessun fascicolo per perseguire i responsabili della morte dello squadrista, nonostante dopo pochi giorni fosse a conoscenza di tutti i nomi dei presenti al fatto. Poli venne sepolto con tutti gli onori del caso entrando nell’albo dei «martiri» del fascismo.
10 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
11 Ib.
12 Archivio di Stato di Pisa (d’ora in poi ASPi), Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Verbale di visita di località e rimozione di cadavere, Pisa, 9 aprile 1924 e Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Stazione di Portanuova, Verbale di omicidio in persona di Rindi Ugo ad opera di 5 sconosciuti, Pisa, 9 aprile 1924. Carosi, accompagnato da Malmusi e da altri tre squadristi, si è presentato intorno all’1,30 a casa della famiglia Rindi, annunciandosi come commissario di P.S. si è fatto aprire la porta e ha chiesto a Rindi di seguirlo perché indiziato di omicidio.
13 Il padre Emilio, nato a Pisa il 30 giugno 1858, operaio tipografo è stato un attivo militante internazionalista nelle Pisa post-unitaria. Cfr. M. Bacchiet, Malfattori e birrri nel fosco fin del secolo morente. Pisa 1872-1900, Ghezzano, BFS edizioni, 2023, pp. 86-88.
14 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
15 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, a. 1922 e sgg., Carosi Alessandro … [et al.], Comando della Legione territoriale dei carabinieri di Livorno, Compagnia di Pisa, Verbale della denuncia di Bruno Santini … [et al.] in ordine all’omicidio volontario in persona Rindi Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
16 Alessandro Carosi nato a Roma il 9 febbraio 1899 da Emilio e Pia Antilli, commerciante, arrestato l’11 aprile 1924. Cfr. L’arresto d’un sindaco fascista per l’uccisione del tipografo pisano, «Il Corriere della sera», 12 aprile 1924.
17 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
18 M. Palla, I fascisti toscani, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Toscana, Torino, Einaudi, 1986, pp. 473.
Antonio Sanguigni nato a Pisa il 12 febbraio 1896 da Giuseppe e Assunta Del Rosso, residente a Vecchiano, possidente, detenuto dal 23 aprile 1924. Sanguigni verrà poi «giustiziato» dai partigiani nella notte tra il 4 e 5 agosto 1944 in località Faeta.
19 Ranieri Cola nato a Vecchiano il 18 maggio 1899 da Luigi e Teresa Pardi, terrazziere, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
20 Giuseppe Del Pellegrino nato a Vecchiano il 16 settembre 1900 da Amadio e Zoraide Bartelloni, orticultore, detenuto da l’11 giugno al 22 ottobre 1924.
21 Giuseppe Malmusi nato a Modena il 21 maggio 1897 da Giuseppe e Margherita Malmusi, studente, arrestato il 21 luglio 1924.
22 Francesco Adami nato a San Paolo in Brasile il 7 settembre 1893 da Pio e Maddalena Stefani, residente a Pisa, studente, detenuto dal 19 aprile 1924. Adami durante gli anni del fascismo continuerà la propria militanza, dopo la caduta del fascismo sarà tra i fondatori del Fascio repubblicano. Nominato il 1° ottobre 1943 Prefetto di Pisa, carica che mantiene fino alla fine del mese, seguirà poi Buffarini Guidi al nord. La sua nomina a Prefetto è contraddistinta da continui arresti di molti antifascisti e una gestione dell’ordine pubblico violenta e arrogante.
23 Filippo Morghen nato a Castellina Marittima il 22 febbraio 1882 da Antonio e Margherita Werner-Debeauvert, residente a Pisa, avvocato, arrestato e detenuto dal 19 aprile al 24 ottobre 1924.
24 Girolamo Grimaldi nato a Livorno il 27 luglio 1888 da Ernesto e Argia Cappelli, capostazione ferroviario, residente a San Giuliano Terme, detenuto dal 19 aprile 1924.
25 Giuseppe Biscioni nato a Calci il 3 marzo 1900 da Gino e Marianna Malanima, studente, detenuto dal 21 aprile 1924. Biscioni la sera dell’8 aprile ha l’incarico di guidare una seconda squadra verso Porta Nuova alla ricerca della famiglia Bucchioni, ben noti esponenti antifascisti e libertari della zona. Trovati a casa il padre Ferruccio e i figli, Azelio e Libertaria, non passa a vie di fatto solo perché i membri della sua squadra si rifiutano di eseguire l’ordine di uccidere i malcapitati. ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
26 Ovidio Chelini verrà arrestato a fine aprile del 1924 anche per un altro tentativo di omicidio nei confronti di Alfredo Gemignani, antifascista, ferito a colpi di rivoltella la sera del 23 marzo. Cfr. Un altro delitto scoperto presso Pisa, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
27 Per la cronaca si v. i nn. del «Messaggero toscano» del 10 e 23 aprile e 3 maggio 1924. Inoltre gli art. Nuovi particolari sui fatti di Pisa, «L’Avanti!», 25 aprile 1924 e Rivelazioni sui misfatti di Pisa. Il Rindi ucciso con due pugnalate, «L’Avanti!», 1° maggio 1924.
28 La sottoscrizione raccolse nelle settimane successive una quota considerevole, circa undicimila lire, poi venne bloccata su pressione del commissario straordinario Freddi timoroso che questo gesto di solidarietà si tramutasse in un affronto al potere locale del fascio. Venne ripresa in autunno raggiungendo le dodicimila lire per poi essere immediatamente chiusa. 29 Si v. «Il Messaggero toscano», nn. del 30 aprile, 10 giugno e 29 ottobre 1924.
30 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Legione territoriale dei Carabinieri reali di Livorno, Compagnia di Pisa, Dichiarazione resa da Rindi Lavinia in merito all’uccisione del proprio fratello Ugo, Pisa, 10 aprile 1924.
31 Il caso Rindi mette in luce una radice leggermente diversa sulla natura delle divisioni tra i fascisti in città, di genere più personale e legata strettamente al controllo del potere, rispetto alla narrazione fino ad ora accreditata sul piano storiografico e cioè di un dissidio politico nato tra la componente, più in linea con alcuni dei valori originari del primo squadrismo, radicale, ancorato agli ideali dell’interventismo e del mito della guerra nazionale, e quella di origine agraria, con una matrice nel conservatorismo antidemocratico delle classi medie della provincia e dichiaratamente più violento. Emerge dalle biografie personali dei protagonisti, in gran parte di estrazione piccolo borghese, un «ceto» e una «generazione», con un profilo psicologico e antropologico di uomini che aspirano ad un benessere e ad un prestigio che credono acquisito di diritto con la partecipazione alla guerra e bramano un potere rivendicato manu militari attraverso un breve periodo di stragi e baldoria. Va ricordato che il problema della violenza dello squadrismo pisano, spesso espressione di una rabbia sorda e furiosa, che si mantiene anche dopo gli anni caldi del 1921-’22, è un tema che viene dibattuto anche nel 5° congresso provinciale del PNF del dicembre 1923, che approva una risoluzione di condanna dei continui abusi, soprattutto nel capoluogo, esercitati da squadre provenienti anche da altre località. La risoluzione afferma: «Se gli atti commessi nella giurisdizione del fascio pisano da fascisti appartenenti a qualunque fascio, saranno considerati reato, il direttorio denuncerà all’autorità competente i fautori assumendone piena e completa responsabilità» («Il Messaggero toscano», 15 dicembre 1923).
32 E. Ragionieri, Il partito fascista (appunti per una ricerca), in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), t. 1, Firenze, L.S. Olschki, 1971, p. 68.
33 «Il Messaggero toscano», 30 agosto 1924.
34 L’episodio è ricordato da Piero Zerboglio, figlio di Adolfo. Il capitano degli alpini, forse lo stesso Santini, si presenta agli astanti «camerati» affermando che non avrebbe permesso a nessuno di entrare nello studio di Zerboglio, padre di un eroe della Prima guerra mondiale. Infatti il figlio Enzo era caduto combattendo valorosamente alla fine dell’ottobre del 1918 e per questo era stato decorato con la medaglia d’oro al valore. Cfr. Biblioteca F. Serantini, sez. Archivio, P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto.
35 ASPi, Tribunale di Pisa, Corte d’Assise, aa. 1922-1946, Carosi Alessandro … [et al.], Procura generale di Firenze, Rinvio a giudizio …, cit.
36 Cfr. Conflitto tra fascisti a Pisa, «Il Popolo», 20 settembre 1924. Fiaschi verrà poi condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere, Giudici, Giudizi e Giudicati, «Il Ponte di Pisa», 5-6 settembre 1925.
37 Cfr. La fine del processo per l’assassinio del tipografo Rindi. Tutti gli imputati assolti, «La Stampa», 27 settembre 1925.
38 Cfr. G. Ghislanzoni, La doppia vita dell’ex squadrista Carosi, «Corriere dell’informazione», 1-2 febbraio 1965.
Tra i numerosi articoli si v. ad esempio quelli pubblicati dal quotidiano «La Stampa» di Torino: Scoperto dopo la morte l’uccisore di due socialisti vissuto sotto falso nome a Roma, e 39 L’ex squadrista ricercato per due omicidi aveva anche ucciso e bruciato l’amante, «La Stampa», Torino, 31 gennaio e 2 febbraio 1965. Cfr. anche Chi ha aiutato il fascista pluriomicida?, «L’Unità», 1° febbraio 1965.
40 Cfr. P. Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il mulino, 1997, ad indicem.
41 Senato della Repubblica, IV Legislatura, 296a seduta pubblica, Resoconto stenografico, venerdì 14 maggio 1965, pp. 15594-15598.




Uno scritto giovanile di Ferdinando di Targetti

Proponiamo, con lievi modifiche, ai lettori di ToscanaNovecento il testo di un intervento tenuto il 7 dicembre 2023 presso la Biblioteca Roncioniana di Prato per illustrare il contenuto di uno scritto giovanile di Ferdinando Targetti.

Ferdinando Targetti è un nome ben noto a chi si occupa di storia del movimento operaio e socialista. Nato a Firenze nel 1881, Targetti, pur appartenendo ad una famiglia di grandi industriali (uno dei suoi fratelli, Raimondo, sindaco della città all’epoca del regicidio, fu anche presidente della Confindustria), maturò assai presto la scelta di campo socialista, lasciando la sua quota in azienda ad un altro fratello e vivendo solo dei proventi della professione di avvocato. Fu il primo sindaco socialista di Prato (1912-1914) e venne poi eletto deputato alle politiche del 1919. Antifascista fermo e coerente, scampò per caso alla morte in occasione della famigerata «notte di San Bartolomeo» fiorentina (3 ottobre 1925) e dovette poi trasferirsi a Milano ed in Svizzera, ma non cessò mai di battersi contro il regime. Nel secondo dopoguerra fu vicepresidente della Costituente e successivamente della Camera dei deputati (carica dalla quale si dimise nel 1953 in segno di protesta contro la cosiddetta «legge truffa»). Negli anni del conflitto egli aveva maturato il convincimento che l’unità proletaria, intesa come costituzione di un partito unico dei lavoratori comprendente socialisti e comunisti, fosse la condizione imprescindibile per la difesa della pace, la conquista del potere e la realizzazione del socialismo. Socialismo che per lui significava superamento del capitalismo, il che spiega il suo rifiuto del cosiddetto centrosinistra organico e l’adesione al Partito socialista italiano di unità proletaria nel 1964. Morì a Milano quattro anni dopo.

L’opuscolo che costituisce il tema di questo intervento fu pubblicato da Targetti nel 1902, all’età di ventun anni: a quanto ci risulta, la Biblioteca Roncioniana è l’unica in tutta Italia a possederne una copia. Si tratta di uno scritto d’occasione – composto per le nozze della cugina Emma Indri col professor Mariano Desideri – che si intitola La nuova tendenza della nostra letteratura. Appunti critici: in esso Targetti delinea gli stadi di sviluppo della letteratura italiana dal Risorgimento in poi.

Targetti comincia con l’osservare che, nel periodo risorgimentale, la letteratura italiana aveva avuto un «carattere eminentemente politico», dato che il problema della cacciata dello straniero e della realizzazione dell’unità nazionale era allora di gran lunga il più importante ed occupava anche la mente e l’animo degli artisti.
Conclusosi il Risorgimento – osserva l’Autore – e venuta meno la tensione ideale che lo aveva animato, la nostra letteratura attraversò un periodo di crisi, caratterizzato da un’evidente carenza sul piano dei contenuti e dal prevalere di motivi intimistici e di atmosfere languidamente sentimentali: Aleardo Aleardi, Giovanni Prati, Giacomo Zanella (cui si deve l’ode Sopra una conchiglia fossile) ed i tanti epigoni di Alessandro Manzoni sono i rappresentanti di questa fase di decadenza che indusse il pubblico italiano a rivolgersi ad opere di autori stranieri, in primo luogo francesi (ed infatti, in quel torno di tempo, non era infrequente trovare nella biblioteca di tante famiglie, anche di livello culturale non elevato, opere di autori transalpini, magari in un’edizione a dispense, a cominciare dai Miserabili di Victor Hugo). Dalla letteratura francese – prosegue Targetti – presero spunto anche i poeti ed i romanzieri italiani, che cominciarono a svolgere nuovi temi traendo ispirazione dai fatti concreti ed umani ed inaugurando così una tendenza al reale che diede nerbo alle loro opere. Fra gli esempi del nuovo indirizzo letterario spiccava il nome di Giovanni Pascoli, che sentì il bisogno di ispirarsi ad avvenimenti correnti (come, ad esempio, la morte di William Ewart Gladstone – nella poesia La quercia d’Hawarden – o l’assassinio di Elisabetta d’Austria, avvenuto nel 1898 per mano dell’anarchico Luigi Lucheni – nella poesia Nel carcere di Ginevra, contenuta in Odi e inni) ma anche il romanzo (con Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro, Il marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana ed Il vecchio della montagna di Grazia Deledda) palesò la stessa tendenza realistica. Da questo filone letterario di matrice francese, ispirato ai principi del realismo, scaturì poi un filone più propriamente sociale: lo spettacolo fornito dallo sfruttamento degli operai e dei contadini fece nascere in alcuni scrittori un vero e proprio odio per la società, che si tradusse in un aperto invito alla rivolta, mentre in altri generò un profondo desiderio di pace, di apertura verso le esigenze del popolo ispirata all’idea di fratellanza. Del primo gruppo facevano parte Giovanni Cena (Gli ammonitori), Lorenzo Stecchetti (Postuma) e Mario Rapisardi (Lucifero), del secondo Ada Negri, Annie Vivanti ed alcuni minori. Tutto questo – concludeva l’Autore – induceva a ritenere che in futuro la letteratura italiana avrebbe avuto «un contenuto in prevalenza sociale» e che «il valore delle manifestazioni artistiche [sarebbe stato] … determinato dall’utilità sociale».

Lo scritto di cui parliamo non è particolarmente originale e contiene delle affermazioni opinabili (ovviamente il fatto che un artista parteggi per i più deboli e che le sue opere abbiano un contenuto sociale non è di per sé sufficiente a garantire la qualità della sua produzione: Targetti trascura a questo proposito l’insegnamento di Francesco De Sanctis – che certamente non ignorava – a proposito dell’arte come contenuto formalizzato, come perfetta sintesi di contenuto e forma), ma, cionondimeno, esso è di grande interesse per lo storico. In parte perché esso costituisce una prova della vastità della cultura e degli interessi di Targetti (che qui non si occupa né di politica né di diritto, come in altri suoi lavori), ma soprattutto perché consente di far luce su un punto finora rimasto oscuro nella biografia politica del Nostro, cioè il momento della sua adesione al socialismo: nell’opuscolo, infatti, non solo Targetti mostra di apprezzare l’indirizzo realistico di parte della nostra letteratura, in accordo con i principi del marxismo (che dà una valutazione positiva dell’arte realistica in quanto essa, col suo contenuto di verità, rappresenta la realtà com’è effettivamente e non come la dipinge la classe dominante), ma afferma anche con chiarezza che la letteratura stessa sarebbe stata in futuro strettamente legata alle trasformazioni socioeconomiche del Paese, rifacendosi con ogni evidenza a quanto sostenuto da Marx e da Engels a proposito del rapporto fra struttura e sovrastruttura. In altre parole, l’opuscolo in questione è un lavoro scritto da un marxista: si può pertanto affermare con ragionevole certezza che nel 1902 Targetti, poco più che ventenne, avesse già maturato la sua adesione al marxismo e, verosimilmente, al Partito socialista. Il documento posseduto dalla Biblioteca Roncioniana consente quindi di aggiungere un altro importante tassello alla storia del movimento socialista in città.




Bandiere sovietiche, ritratti di Lenin e altri cimeli

Nell’ottobre 2023 si è avviato alla sua conclusione il progetto di ricerca promosso dall’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia “L’identità comunista: il PCI in Toscana e il mito dell’URSS”. Il progetto, realizzato grazie al contributo della “Presidenza del Consiglio dei Ministri. Struttura di Missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni”, ha inteso analizzare e documentare il radicamento del mito sovietico entro il Partito Comunista Italiano in Toscana, dalla data della sua fondazione fino al suo scioglimento. Il libro fotografico Il mito sovietico nel PCI in Toscana, edito
da ISRPT Editore, è il frutto tangibile del suddetto lavoro di ricerca: a cura di Andrea Borelli, il volume riunisce documenti, articoli e foto che richiamano, per l’appunto, quel mito sovietico di cui il PCI e i suoi militanti toscani erano imbevuti, a testimonianza della loro forte connessione politico-sentimentale con l’URSS.
Avendo avuto il piacere di collaborare a quest’opera, in questa sede andrò ad approfondire il “pezzo” di ricerca da me curato, ovvero la raccolta delle fonti iconografiche: fonti che, nel volume, sono confluite in maniera particolare nella sezione Cimeli e souvenir, in quanto il mio obiettivo è stato quello di “catturare”, fotograficamente parlando, oggettistica a tema sovietico dei generi più disparati. Ho quindi deciso di indagare, in primis, sulla presenza di eventuali cimeli sovietici nelle Case del popolo e nei Circoli Arci della Provincia di Pistoia, limitatamente alla zona della piana. Case del popolo e Circoli, spesso, hanno infatti ospitato le sezioni e le cellule del PCI: quali luoghi migliori, dunque, per andare a caccia di memorabilia che richiamassero il collegamento fra PCI e URSS? E, in effetti, nonostante siano ormai passati più di tre decenni dalla Bolognina, posso anticipare che qualche traccia di questo legame è rimasta proprio in quelle costruzioni che dell’attività politica del PCI frequentemente furono teatro.
La mia esplorazione è dunque iniziata coinvolgendo, in totale, una quarantina di Case del popolo e Circoli: c’è purtroppo da dire che, nella grande maggioranza dei casi, i cimeli “del tempo che fu” sono andati perduti nel corso degli anni (vuoi per traslochi, vuoi per rimaneggiamenti dei locali, vuoi per la delusione portata, fra gli attivisti, dalla fine del PCI dopo la cesura della Bolognina). Ho infatti rinvenuto oggetti a tema con la mia ricerca solo in sette Case del popolo e Circoli Arci. Si tratta delle Case del popolo di Tobbiana e Fognano (Comune di Montale), del Circolo Rinascita di Agliana, della Casa del popolo di Bottegone, del Circolo Garibaldi, del Circolo Niccolò Puccini di Capostrada e del Circolo di Iano (tutti siti nel Comune di Pistoia). Purtroppo, per motivi di spazio, non tutti questi Circoli e Case del popolo hanno trovato spazio tra le pagine de Il mito sovietico nel PCI in Toscana; ma, nonostante ciò, tutta l’oggettistica a tema sovietico da essi posseduta è stata fotografata e poi catalogata nel fondo archivistico appositamente creato dall’ISRPT in occasione di questo progetto di ricerca.
È dunque iniziata una sorta di “caccia al tesoro”, al termine della quale sono stati riportati alla luce oggetti di vario tipo a tema URSS: gagliardetti, bandiere, libri, busti, quadri, cartoline e manifesti; l’elemento iconografico ivi raffigurato più di frequente è l’immagine di Lenin, assurto a una sorta di icona pop del comunismo (di profilo, di fronte, realistico, stilizzato e così via). Nella maggior parte dei casi, questi “antichi tesori” sono stati conservati nelle stanze delle Case del popolo e dei Circoli pur essendosi perso, nel tempo, il ricordo della loro provenienza, andata dispersa nel lungo periodo trascorso dal secondo dopoguerra a oggi. Ciò che è sicuro è che ho riscontrato ovunque, di fronte alla mia richiesta di “riesumare le vestigia del passato”, una grande voglia di partecipazione e una certa gioia nell’avere l’occasione di ridonare valore a un patrimonio, ormai storicizzato, testimoniante la passione politica e il legame dei comunisti toscani nei confronti dell’Unione Sovietica. Le bandiere, i quadri, i gagliardetti e tutti gli altri oggetti a tema sovietico non sono infatti solamente delle “cose”, ma sono invece vere e proprie rappresentazioni simboliche di un omaggio a un Paese – l’Unione Sovietica – che, per molti militanti del PCI, rappresentava niente di meno che la concreta realizzazione dell’utopia social-comunista. Spero dunque che questo progetto possa fungere da apripista per un ulteriore lavoro di ricerca sul tema che riesca a coprire l’intera Provincia di Pistoia, in quanto sono pronta a scommettere che altre “reliquie sovietiche” siano in attesa di essere scoperte, proprio nelle tante Case del popolo e nei Circoli Arci disseminati nel nostro territorio. Un patrimonio disperso che, senza dubbio, andrebbe valorizzato come merita, in quanto testimonianza tangibile di quel filo rosso che, per lungo tempo, ha legato la nostra Regione con il Paese dove si pensava – col senno di poi, forse ingenuamente –che la “futura umanità” si fosse incarnata, faro di civiltà a cui tendere e ambire, per un domani e un avvenire migliore.

Daniela Faralli collabora con l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia, di cui è membro del consiglio direttivo. Fa parte del comitato redazionale della rivista “Farestoria” ed ha lavorato nell’ambito del progetto di ricerca “Il Mito sovietico dell’URSS in Toscana”, finanziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. 




Il nuovo inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea

Nelle prossime settimane sarà presentato al pubblico il nuovo Inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea – ISREC (consultabile qui), realizzato con il patrocinio del Ministero della Cultura, e già disponibile e scaricabile in formato PDF dal sito istituzionale, nella sezione ‘Archivio e Biblioteca’. Questo testo nasce dall’esigenza di aggiornare e dare una nuova forma a quello che era stato redatto al momento della catalogazione curata da Antonietta Cutillo e Cecilia Rosa nel 1999. Da allora l’Archivio dell’ISRSEC ha acquisito nuova documentazione e preso in deposito diversi fondi archivistici di persona, donati dai diretti interessati o da eredi, e catalogati via via da Aldo Di Piazza e da altri collaboratori dell’Istituto, in singoli file di lavoro, disponibili presso la Sala studio dell’Ente. Il progetto iniziato tra la fine del 2022 ed il 2023, si è prefisso lo scopo di compiere una revisione di tutti questi cataloghi, frutto del lavoro di mani diverse, ed elaborati in tempi diversi, al fine uniformare il testo e di ottenere uno strumento di ricerca completo ed esaustivo, ma di facile lettura per l’utente che fosse interessato a compiere ricerche all’interno del vasto materiale che compone l’Archivio storico dell’Istituto.

Il risultato è un inventario che si compone della descrizione dei documenti raccolti dall’ISREC nel corso della sua attività, prevalentemente materiali, in originale ed in copia, relativi agli eventi che hanno interessato Siena durante il Governa fascista, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Resistenza partigiana; la serie che risulta senz’altro essere quella più consistente, è quella che raggruppa la documentazione prodotta dalle Brigate partigiane e dei Gruppi di combattimento, in particolare quella relativa all’attività della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, operante con i suoi distaccamenti in buona parte della provincia senese. Il catalogo passa poi a descrivere gli archivi aggregati, come ad esempio quelli che raccolgono i documenti relativi all’attività dell’ANPI, a partire dal 1945, e dell’ANPIA, ma soprattutto archivi di persona. Questa sezione è ampia e composita: alcuni fondi raccolgono poche carte specificatamente legate alla Resistenza e all’attività politica – come quelli di Giorgio Salvi e di Giovanni Guastalli –, altri molto consistenti raccontano anche la vita privata e lavorativa dei loro produttori. Così incontriamo, uno dopo l’altro, gli archivi personali del libraio ed editore senese Nello Ticci, di Vittorio Meoni – unico sopravvissuto all’eccidio del Montemaggio, ma anche presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’ANPI provinciale di Siena –, di Sergio Vieri – partigiano e in seguito esponente del Partito Comunista Italiano e dirigente della CGIL –, di Martino Bardotti – Deputato della Repubblica sotto le fila della Democrazia Cristiana –, e di Fortunato Avanzati – partigiano, presidente dell’ANPI provinciale di Siena, assessore al Comune di Siena e membro della Segreteria della Federazione senese del PCI. I documenti raccolti in questa serie di archivi aggregati sono variegati e ricchi di contenuti; lo studio e l’approfondimento di questi materiali possono fornire allo studioso della storia contemporanea del territorio senese – e non solo- ampi spunti di indagine.

Questo nuovo strumento di ricerca, al momento consultabile unicamente in formato digitale, ha lo scopo di guidare il ricercatore a comprendere la quantità di tematiche diverse, che è possibile approfondire con lo studio attento di questi documenti, e di dare conto della consistenza e di una sintetica descrizione dei contenuti, per un primo approccio dell’utente all’Archivio. Una guida insomma, che non ha l’intento di descrivere analiticamente, carta per carta, tutto quello che si conserva presso l’Istituto storico della Resistenza senese, ma di invogliare gli studenti delle scuole, gli universitari, gli studiosi che si occupano della storia recente di questo territorio, a visitare questo archivio così ricco di informazioni, che raccontano episodi, più o meno noti, del nostro recente passato.




Guido Cerbai, un percorso sghembo e coerente

Le stagioni più vivaci della sinistra italiana – quelle, diciamo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – sono state animate da soggettività molto diverse e sono state tante le figure che hanno attraversato questi anni con bagagli politico-culturali e lungo percorsi non convenzionali.
Una di queste figure è Guido Cerbai, nato a Galliano di Mugello nel 1934, vissuto dal 1946 al 1959 a Firenze e successivamente trasferitosi a Pisa, dove attualmente risiede.
Oggi, alle soglie dei novant’anni, Cerbai è una figura sempre presente e visibile nella vita politica cittadina come attivista e dirigente di Rifondazione Comunista, ereditando una fitta rete di relazioni intessuta nel corso di sessant’anni di attività dapprima sindacale e quindi nelle istituzioni e portando sempre nelle assemblee e nelle iniziative politiche una voce autorevole che si appoggia a una memoria precisa, lucida e colta.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto in modo che diverse persone, indipendentemente tra loro, lo abbiano individuato nella seconda metà degli anni Dieci come testimone privilegiato di un lungo periodo di vita politica e sindacale cittadina. Questo riconoscimento si è materializzato nel febbraio 2019 in una lunga intervista di vita in video della durata di oltre quattro ore che è stata successivamente montata, suddivisa in sette scansioni cronologiche e caricata sulla piattaforma Youtube. Per favorire l’accesso all’intervista è stato quindi realizzato un apposito sito web (cerbairacconta.wordpress.com), dal quale è possibile anche scaricare una versione sintetica dell’intervista di poco più di un’ora.
È molto difficile se non impossibile individuare una fase saliente di questo lungo percorso di vita, in quanto in tutte le sue diverse fasi si ritrova lo stesso intreccio armonico tra universo affettivo, impegno politico e lavoro, segnato peraltro da una forte coerenza di fondo.
Ciò che cambia nel tempo sono gli scenari, raccontati con viva partecipazione emotiva e con ricchezza di particolari. Scenari molteplici e articolati ma che possono essere ricondotti a quattro fondamentali: la dura campagna mugellese della famiglia, dell’infanzia e degli anni della prima adolescenza, la Firenze della frequentazione della Madonnina del Grappa fino al compimento degli studi universitari, la vita di fabbrica a Pisa fino ai primi anni Novanta e infine l’impegno politico nel territorio, cioè nel quartiere e in città, prevalente negli ultimi decenni. Questi scenari si articolano poi internamente e si sovrappongono tra loro, come nel caso dell’impegno politico e di quello sindacale, entrambi intensi soprattutto a partire dal Sessantotto, oppure, più indietro nel tempo, come nel caso della vita all’interno della Madonnina del Grappa, dove la formazione scolastica e universitaria s’intrecciano con la vita dell’istituto ma anche con la vita politica fiorentina, fortemente segnata dalla presenza di grandi personalità del cattolicesimo progressista.

Roma, manifestazione per la pace 1991

Figura impegnata in prima fila e al tempo stesso osservatore analitico e capace di ricostruire il contesto storico e politico, Cerbai restituisce in modo altrettanto dettagliato e preciso gli eventi personali e quelli collettivi: i difficili anni del dopoguerra, la Firenze di Giorgio La Pira e di Don Lorenzo Milani, il clima oppressivo della fabbrica degli anni Sessanta, l’imprevista e galvanizzante svolta del Sessantotto, che sconvolge sia la sfera politica che quella culturale, il robusto impegno sindacale nella fase ascendente degli anni Settanta e poi in quella del lento regresso degli anni Ottanta e Novanta, ma segnata dallo straordinario successo costituito dalla salvezza dell’impianto pisano e di tutti i suoi posti di lavoro, il parallelo emergere di un impegno di partito che pur nelle successive formazioni non verrà mai meno e gli darà la possibilità di trasporre l’ispirazione democratica di base ereditata da Don Milani e da La Pira dal consiglio di fabbrica alla presidenza del consiglio di circoscrizione.
Questa interpretazione tenacemente radicale dell’impegno pubblico prende infatti varie forme e si traduce nell’adesione a diverse sigle, dalla Cisl al Movimento politico dei lavoratori, da Democrazia proletaria a Rifondazione comunista, ma non tradisce l’ispirazione di fondo maturata negli anni dell’adolescenza all’incrocio tra cattolicesimo progressista e un socialismo non burocratico, ma al contrario anzitutto autogestionario.
La testimonianza di Guido Cerbai permette di ripercorrere anche le trasformazioni economiche e sociali che hanno via via segnato gli anni della ricostruzione, quindi del miracolo economico e poi degli ultimi decenni e di osservare da vicino figure come quella di Don Giulio Facibeni o quella di Don Lorenzo Milani, oltre ad altri protagonisti della sinistra politica e sindacale pisana e nazionale.

Sitografia:

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Archivi:
BFS ISSORECO, Archivio della Federazione provinciale pisana di Democrazia Proletaria,
BFS ISSORECO, Carte «Consiglio di Fabbrica Guidotti»




Adolfo Zerboglio e la Prima guerra mondiale*

«L’on. Adolfo Zerboglio si dichiara interventista»: così il 26 marzo 1915 apriva in prima pagina «Il Popolo d’Italia» diretto da Benito Mussolini, che ancora si dichiarava «quotidiano socialista». Venivano poi riportate le parole dell’onorevole:

Il mio interventismo non è motivato da ragioni peregrine da me scoperte: io sono interventista in forza di motivi, che pesano sulla coscienza di coloro che ritengono la guerra necessaria, per una seconda pace ulteriore, per il raggiungimento dei fini nazionali e per la necessità che l’Italia non perda ogni influenza e ogni simpatia, nell’avvenire, per la libertà[1].

Zerboglio criticava le posizioni neutraliste del Partito socialista, considerate «negazione di ogni aspirazione ideale, visione miope dell’oggi, senza orizzonti un po’ remoti» e concludeva affermando che «la guerra mi sembra però destinata a creare i mezzi e l’ambiente per mutazioni profonde dei rapporti economici, politici quali finora non ci ha dato il socialismo»[2], considerazione che evidenziava il distacco dell’esponente politico dal mondo socialista, maturato sin dalla crisi della Guerra italo-turca.
Una postilla redazionale ricordava infine le differenze di posizioni tra Zerboglio e la corrente rivoluzionaria che faceva capo al giornale. Si riconosceva che la presa di posizione «fra i più autorevoli e geniali rappresentanti del pensiero socialista in Italia», tra i «migliori» a entrare nel movimento interventista, non era in contraddizione con le «teorie socialiste» nel «sostenere la necessità che l’Italia intervenga nel conflitto europeo»[ 3].

Zerboglio_Adolfo_deputato

Adolfo Zerboglio, nato nel 1866, d’origine piemontese ma toscano di adozione, era allora un giurista di fama internazionale: libero docente prima presso l’Università di Pisa, poi per un breve periodo a Roma e infine a Urbino – terminerà la sua carriera all’Università di Macerata -, era rappresentante di quel socialismo giuridico che ebbe tanta fortuna tra la fine dell’Ottocento e l’età giolittiana. Autore di numerosi volumi è promotore insieme a Alfredo Pozzolini e Eugenio Florian dei periodici, la «Rivista di diritto penale e sociologia criminale» e la «Rivista di diritto e procedura penale»[4]. Eletto deputato al Parlamento nel collegio di Alessandria per la prima volta nel 1904, collaboratore de la «Critica sociale» e di molti altri periodici socialisti nonché di molti quotidiani nazionali d’informazione, era uno dei riformisti più in vista del gruppo di Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, amico personale di Cesare Battisti di cui condivideva in pieno gli ideali irredentisti[5].
Il 15 maggio 1915, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, a Pisa un gruppo di studenti e professori universitari dopo aver votato un ordine del giorno contro il «traditore Giolitti» tentò d’inscenare un corteo diretto verso la prefettura; furono fermati e dispersi da una moltitudine di proletari e militanti socialisti e anarchici. La città in quei giorni viveva in stato d’assedio, con pattuglie di carabinieri e militari a presidiare i punti nevralgici e i palazzi del potere. Nonostante il divieto di una manifestazione antinterventista e antimilitarista convocata per il 19 maggio e impedita dall’intervento delle forze dell’ordine[6], le iniziative dei neutralisti si moltiplicavano in tutta la provincia, con comizi e cortei spontanei a rimarcare la netta separazione tra il mondo popolare e proletario e le élites «guerrafondaie» arroccate tra i docenti e studenti dell’università, i ceti commercianti, gli imprenditori della media e alta borghesia e i gruppi di nazional-patriottici. Al fronte interventista portava la propria benedizione anche il Cardinale Pietro Maffi[7], già sostenitore in precedenza della guerra italo-turca del 1911: alle posizioni espresse dal prestigioso prelato si adeguò l’intero mondo dell’associazionismo cattolico[8].
Come è stato rilevato dalla ricerca storica, profonda fu la frattura tra la «città patriottica» e la «città proletaria» e nella prima, grazie al prezioso intervento extra istituzionale dell’Università, si andava coagulando «un nuovo blocco politico-sociale», che sulla scelta bellicista auspicava una rinnovata forza politica d’ordine[9]. Zerboglio non fu il solo socialista riformista seguace di Bissolati in Toscana a scegliere decisamente di aderire al fronte interventista: anche altri “storici militanti” si schierarono per la guerra, come ad esempio il volterrano Arnaldo Dello Sbarba, il fiorentino Carlo Catanzaro[10], il senese Vittorio Meoni[11], il lucchese Quirino Nofri[12] e il pistoiese Pompeo Ciotti, allora segretario nazionale del Partito socialista riformista italiano[13]. Erano militanti della “vecchia guardia”, che avevano contribuito in maniera sostanziale alla genesi e alla storia del PSI in Toscana.
Lo spostamento in blocco di gruppi di intellettuali e militanti politici di lungo corso verso l’interventismo era un fenomeno sostanzialmente nuovo dal punto di vista politico, che però aveva radici lontane ben impiantate in alcuni settori del mondo culturale italiano. Questi gruppi svolsero un compito specifico, quello di “popolarizzare” la guerra, darle una forma ideale che poi si radicherà nell’immaginario collettivo dei decenni successivi[14].
Zerboglio, dunque, in questa scelta non era isolato: l’Università di Pisa, come ricordato, fin dall’inizio fu in gran parte schierata per l’intervento. Il rettore dell’Università, David Supino, già ai primi di maggio del 1915 aveva inviato al presidente del Consiglio Antonio Salandra una lettera di piena adesione alle scelte del governo[15]. Il coinvolgimento dell’Ateneo nella mobilitazione e partecipazione al conflitto fu impressionante: 37 furono i docenti e 68 gli aiuti e assistenti richiamati al fronte, 34 gli amministrativi, tecnici e inservienti, ma il grosso degli arruolati era composto dagli studenti, su 1.501 iscritti sono 1.484 coloro che vennero battezzati dal fuoco delle battaglie[16].
Come ricordò Ivanoe Bonomi, uno dei leader del socialismo riformista di destra, nonché volontario nel primo anno di guerra e che verrà dal primo ministro Boselli nel giugno del 1916 incaricato della gestione del ministero dei lavori pubblici, «i cinque anni di conflagrazione mondiale sono stati il periodo di educazione e di coltura della nuova gioventù italiana, e le lezioni della nostra guerra sono stati il solo libro della loro vita»[17]. Nell’aprile del 1917 anche il secondogenito di Zerboglio, Vincenzo comunemente chiamato Enzo, giovane studente universitario della facoltà di giurisprudenza poco più che diciottenne, partiva volontario[18].
Fu poi nei mesi successivi alla rotta di Caporetto, nell’autunno 1917, che Zerboglio maturò con ogni probabilità il suo definitivo distacco dall’area socialriformista, come testimonia una sua intervista rilasciata al «Nuovo giornale» nel dicembre del 1917. Il quotidiano aveva lanciato in quelle settimane un’inchiesta sulla situazione elettorale e politica, considerato che le ultime elezioni si erano tenute nel 1913. Era stato inviato un breve questionario ai deputati toscani per avere notizie sulla situazione del loro collegio, dei programmi dei loro partiti e sulle loro idee circa la Guerra di Libia, il Trattato di Losanna e la situazione internazionale.
Il giurista piemontese apriva la sua breve lettera dichiarando di non essere candidato di «nullo collegio», di aver abbandonato il partito socialista e non aver aderito a quello riformista, e, ormai di essere lontano dalla «politica militante». Si domandava poi con amarezza:

chi voterebbe per un originale, che crede antidemocratica una gran parte della odierna democrazia, in sé e nei suoi propositi? Che è tanto anticlericale da esserlo anche in confronto dei clericali… Rossi? Che odia la tirannide borghese, ma non ama la tirannide proletaria? Che mentre ha i suoi riveriti dubbi, così sulla utilità sociale come sulla efficienza sostanzialmente rivoluzionaria, di buon numero di moti operai, cari agli agitatori di professione, ritiene che sarebbe davvero benefica per tutti, e per la classe lavoratrice in specie, una lotta assidua contro i parassiti che si annidano nello stato ed intorno allo stato? Che considera primo obbligo di un deputato, sia quello di rifiutarsi al servizio di pressioni, di raccomandazioni presso il governo, che vincolando la sua libertà, moltiplica le ingiustizie, ed aumenta impiegati, funzionari ecc. a carico della collettività? Che …: ma questo sarebbe il programma per collegio che non esiste e che non nominerà mai a proprio rappresentante il di Lei dev.mo Adolfo Zerboglio[19].

Non ci fu in quei mesi iniziativa o dibattito a Pisa che non vedesse la partecipazione di Zerboglio, come durante la campagna lanciata dal governo per il prestito nazionale per finanziare le già esauste casse statali e sostenere lo sforzo bellico. Il docente, insieme ad altri colleghi, fece sentire la propria voce a sostegno delle scelte governative definendo il prestito un «buon affare» e la sua sottoscrizione una «buona azione patriottica» per garantire la «vittoria» e una «pace giusta»[20]. Questo ruolo, di attivista del fronte interno, propagandista e organizzatore portò il docente piemontese in tante località nel difendere la scelta interventista e nel sostenere lo sforzo bellico, anche con numerosi articoli su quotidiani e periodici. Più volte si recò al fronte portando aiuti alle truppe, soprattutto quando si trattava di ricordare e sostenere i propri studenti, vera avanguardia mobilitata in difesa della patria.
Con la fine della guerra e l’annuncio della vittoria, Adolfo Zerboglio, in qualità di presidente del Comitato di Resistenza, inviò un telegramma di congratulazioni al generale Diaz:

A Voi degnissimo duce di impareggiabili soldati, per la fede nei destini della Patria che serbammo incrollabile, in questi giorni di continuate, grandi, giuste vittorie, inviamo il più fervido omaggio di un’ammirazione infinita e di una gratitudine eterna[21].

Il 3 novembre 1918, in una Pisa imbandierata e festante, partecipò all’imponente manifestazione di giubilo per la vittoria indetta dalle associazioni combattentistiche che attraversò la città in un tripudio di folla e al suono della marcia reale, applaudendo la regina e il principe ereditario affacciatisi nel frattempo dal balcone del Palazzo Reale. Zerboglio, acclamato più volte, prese la parola, ogni intervento della manifestazione terminava con un corale «viva la Patria, viva il Re, viva l’esercito italiano», tanto che il «Messaggero toscano» scriveva di «deliranti dimostrazioni di Pisa per la vittoria e l’armistizio»[22].
Qualche giorno dopo, per Zerboglio e la sua famiglia l’entusiasmo per la vittoria venne funestato dalla notizia della morte dell’amato figlio Enzo. Il docente Italo Giglioli, nel commemorare il figlio dell’amico, sottotenente del Battaglione degli alpini «Aosta», caduto «eroicamente» il 26 ottobre 1918 sul Monte Solarolo, scriveva del legame ideale tra la sua morte a quella dei patrioti risorgimentali: egli era «l’ultimo della lunga serie (oltre un centinaio) degli studenti dell’Università di Pisa morti in questa guerra; la quale segna l’ultimo trionfo lontano dei combattenti di Curtatone e Montanara».
E parlando del padre e del figlio entrambi definiti «combattenti» rammentava che l’uno, vecchio lottatore per la giustizia sociale; ma non mai dimentico della patria e di quei principii di elevamento sociale, i quali nella solidarietà di patria e di razza, come nella santità e negli affetti della famiglia, hanno non crollabile fondamento. L’altro, giovane combattente dell’ora, puro volenteroso olocausto nella guerra immane per la libertà e il progresso sociale di Europa.
«Non vi parlo dalla casa di un morto, ma da quella di un vivo: di uno che mai fu tanto vivo come oggi» – diceva Adolfo Zerboglio nell’ultimo discorso di questi giorni al popolo pisano, adunato, nell’entusiasmo del trionfo nazionale, innanzi alla casa dove spirò Giuseppe Mazzini. L’oratore non sapeva che in quell’ora stessa, la parte più cara della propria vita, delle speranze, dei suoi più intimi affetti, non viveva più quaggiù, ma giaceva spento presso il Grappa glorioso[23].

La morte del figlio fu una cesura irreversibile per il giurista piemontese. Da questo momento in poi Zerboglio farà del ricordo del figlio[24] e dei valori della patria, rappresentati dalla guerra vittoriosa contro l’Austria, la bussola che orienterà ogni sua successiva azione politica[25]. Il figlio verrà insignito l’anno successivo della medaglia d’oro, sarà lo stesso Re in persona, in Piazza d’armi a Pisa, a consegnare al padre l’onorificenza[26].
Alcuni anni più tardi Zerboglio dedicherà al figlio un commosso ricordo, accostando il suo nome a quello di Enrico Toti, un altro «valoroso combattente» della Grande guerra . Verso la memoria del figlio, il docente piemontese avrà sempre una devozione inconsolabile che lo accompagnerà fino alla morte. Ogni anno, durante i giorni dell’anniversario della scomparsa, egli tornerà con la famiglia nei luoghi del Carso e sulla tomba del figlio nel cimitero di Crespano del Grappa, in una specie di rito laico familiare, un ritiro spirituale nel quale mantenere ad perpètuam rèi memòriam la figura del giovane Enzo.

* Questo articolo fa parte di un più ampio lavoro di ricostruzione della biografia intellettuale di Adolfo Zerboglio avviato dal alcuni anni dalla Biblioteca F. Serantini.

Note

  1. L’on. Adolfo Zerboglio si dichiara interventista, «Il Popolo d’Italia», 26 marzo 1915.
  2. Ivi.
  3. Ivi.
  4. Cfr. Sul socialismo giuridico si v. M. Sbriccoli, Elementi per una bibliografia del socialismo giuridico italiano, Milano, Giuffrè, 1976. All’interno del saggio, alle pagine 137-144, vi è una prima essenziale bibliografia delle opere di Adolfo Zerboglio edite tra il 1889 e il 1914.
  5. Si v. in proposito A. Zerboglio, Martirio di Cesare Battisti. Patriotta socialista. Commemorazione tenuta il 16 gennaio 1917 al Conservatorio G. Verdi di Milano per iniziativa del Circolo Trentino di Milano, Milano, Sede dell’Unione Generale degli Insegnanti italiani Comitato Lombardo, 1917.
  6. L’agitazione dei neutralisti pisani. Numerosi arresti, «Il Messaggero Toscano», 20 maggio 1915.
  7. Cfr. P. Maffi, Fede e patria. Discorsi patriottici per una più grande Italia, Pisa, Libreria Ecclesiastica, 1915. Inoltre, G. Cavagnin, La diocesi e il cardinale Maffi di fronte alla guerra, in I segni della guerra. Pisa 1915-1918. Città e territorio nel primo conflitto mondiale, a cura di A. Gibelli, G.L. Fruci, C. Stiaccini, Pisa, ETS, 2016, pp. 40-45.
  8. Il dovere dei giovani cattolici nel supremo cimento della Patria, «L’Eco del Popolo», Pisa, 23 maggio 1915.
  9. Sul dibattito e lo scontro tra neutralisti e interventisti a Pisa e provincia si v. C. Di Scalzo, Il dibattito in margine alla grande guerra a Pisa nei mesi della neutralità italiana, Tesi di laurea, Università di Pisa, a.a. 1978-79, relatore L. Gestri. Cfr. inoltre. G.L. Fruci, Pisa, in Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della Prima guerra mondiale in Italia, a cura di F. Cammarano, Firenze, Le Monnier, 2015, pp. 433-445. Id., La strana disfatta dell’interventismo pisano, in I segni della guerra. Pisa 1915-1918, cit., pp. 32-39. Cfr., anche. P. Nello, A chi la città? Pro e contro la guerra nella città “proletaria”, in La Toscana in guerra. Dalla neutralità alla vittoria, 1915-1918, a cura di S. Rogari, Firenze, Edizioni dell’Assemblea, 2019, pp. 125-135.
  10. Cfr. F. Taddei, Catanzaro Carlo, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1975, t. 1, p. 538.
  11. Cfr. T. Detti, Meoni Vittorio, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1977, t. 3, cit., pp. 427-428.
  12. Cfr. L. Guerrini, Nofri Quirino, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1977, t. 3, pp. 692-695.
  13. Cfr. M. Figurelli, Ciotti Pompeo, Movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Roma, Editori riuniti, 1976, t. 2, pp. 45-47. Ciotti muore l’11 ottobre 1915, nell’agosto è stato sostituito nell’incarico di segretario generale da Mario Silvestri.
  14. Cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, v. 4, Dall’Unità a oggi, t. 2, p. 1313. Si v. anche Gli intellettuali e la Grande guerra, a cura di M. Mori, Bologna, Il mulino, 2020.
  15. Archivio storico dell’Università di Pisa, Lettera del Rettore D. Supino al presidente del Consiglio A. Salandra, Pisa, maggio 1915.
  16. Archivio storico dell’Università di Pisa, Fascicoli vari riguardanti le chiamate alle armi dei docenti e studenti per gli anni 1915-1918. Si v. anche Nella vigilia del cimento, «Il Ponte di Pisa», 23 maggio 1915.
  17. Cfr. I. Bonomi, Dal socialismo al fascismo, Roma, A.F. Formíggini, 1924, p. 124.
  18. Cfr. P. Zerboglio, [Memorie familiari], pro manuscripto, in Archivio Biblioteca F. Serantini, p. 27.
  19. Nostra inchiesta sulla situazione elettorale e politica. Il pensiero dei parlamentari toscani, «Il Nuovo giornale», 19 dicembre 1917.
  20. La concordia di Pisa per il Prestito Nazionale, «Il Ponte di Pisa», 2-3 febbraio 1918. Già l’anno precedente Zerboglio aveva partecipato alla raccolta dell’oro per le casse esauste del governo con la donazione delle sue due medaglie di deputato ottenute per la XXI e XXIII legislatura. Cfr. Offrite l’oro alla Patria, «Il Messaggero Toscano», 30 marzo 1917.
  21. Cfr. Omaggi al generale Diaz e all’esercito, «Il Messaggero toscano, 3 novembre 1918, 2. ed., p. 3.
  22. Cfr. Le deliranti dimostrazioni di Pisa per la vittoria e l’armistizio, «Il Messaggero toscano, 4 novembre 1918, p. 2. V. anche Le imponenti dimostrazioni di ieri. I reali nuovamente acclamati dal popolo, «Il Messaggero toscano, 5 novembre 1918, p. 2.
  23. I. Giglioli, Un eroe: Enzo Zerboglio, «Il Fronte interno», 11-12 novembre 1918, p. 2.
  24. La notizia della morte del figlio di Zerboglio, il 105° tra gli studenti universitari di Pisa, viene comunicata ai pisani anche dal periodico «Il Ponte di Pisa» con una breve nota nel numero del 10 novembre 1918. Altri ricordi del giovane sottotenente si possono leggere nel numero successivo, quello del 16 novembre, del periodico pisano (Cfr. A. di Vestea, Enzo Zerboglio, e M. Razzi, In memoria di Enzo Zerboglio).
  25. Il giurista firmerà il principale articolo della prima pagine de «Il Ponte di Pisa» in occasione dell’annuncio della vittoria. Cfr. A. Zerboglio, La vittoria, «Il Ponte di Pisa», 10 novembre 1918.
  26. Cfr. P. Zerboglio, [Memorie familiari], cit., p. 30. Si v. anche Per non dimenticare, «Il Giornale della donna», 20 novembre 1920.
  27. Cfr. A. Zerboglio [a cura di], Medaglie d’oro: Enzo Zerboglio, Enrico Toti, Milano, Imperia, 1923.



Antifascismo, Antifascismi

Lo scorso marzo si è tenuto a Lucca il convegno nazionale “Antifascismi, antifasciste e antifascisti. Pratiche, ideologie e percorsi biografici”, organizzato dall’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea, e curato da Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura. L’appuntamento si è svolto su due intense giornate di studio e si è inserito all’interno del filone di iniziative promosse dagli istituti storici della Resistenza toscani per l’anniversario della marcia su Roma. La particolarità di questo convegno è che ha rappresentato la tappa in cui per la prima volta al centro del dibattito storiografico collettivo è stato posto il fenomeno stesso dell’antifascismo. Infatti, se negli altri momenti di discussione si era comunque sempre tenuto in considerazione l’intreccio indissolubile al fine della comprensione storica tra fascismo e antifascismo, quest’ultimo ne era rimasto ugualmente in qualche modo schiacciato, visto che ci si era concentrati prettamente sul primo fascismo, sul suo avvento e sul consolidamento del potere durante il ventennio nei vari territori.

L’incontro nazionale ha avuto alcuni importanti meriti, tra cui innanzitutto la capacità di affrontare la riflessione sull’antifascismo in tutta la sua complessità e secondo diversi livelli di analisi: esplicito fin dal titolo, la discussione si è mossa a partire dalla pluralità delle forme del fenomeno, delle sue varie declinazioni, senza dare per scontato un’univoca pratica antifascista, e con la scoperta (o riscoperta) di alcuni percorsi individuali biografici che hanno permesso di dare dignità a singoli spaccati di vita e al tempo stesso di comprendere meglio le specificità dell’agire politico. Anche in questo caso le singolarità non sono state rappresentate come fine a se stesse, ma ricondotte all’interno di una cornice unitaria, seppur multiforme, con un’attenzione non scontata al transnazionalismo come elemento sostanziale alla comprensione dell’antifascismo e delle sue riflessioni teoriche che troveranno poi una concretizzazione nel dopoguerra democratico. Altra caratteristica che secondo chi scrive ha dato un valore aggiunto al convegno è stata la scelta da parte degli organizzatori di raccogliere i contributi grazie ad una call for paper di ampio respiro tematico: ciò non solo ha dato la possibilità a storiche e storici di varie zone d’Italia di avanzare le proprie proposte, indipendentemente dalla provenienza accademica, ottenendo di fatto un allargamento democratico dell’offerta, degli spunti di riflessione e degli ambiti di ricerca, ma ha anche consentito una composizione intergenerazionale fra coloro che hanno esposto la propria relazione, una compresenza fra giovani che per la prima volta si confrontavano con l’esperienza convegnistica, con studiose e studiosi navigati, in una contaminazione che è parsa vincente.

Le relazioni selezionate dal comitato scientifico si sono tenute su due giorni e sono state suddivise all’interno di quattro sessioni: antifascismi come ideologie politiche, biografie dentro la guerra civile europea e le resistenze, antifascismi come vissuto quotidiano, storia e memoria. Assente ufficialmente come blocco tematico, ma presente trasversalmente in molte delle relazioni è stato quello del metodo storico e dell’approccio all’uso delle fonti per la storiografia dell’antifascismo. Durante ogni fase della discussione l’antifascismo, o meglio gli antifascismi, sono stati inquadrati in elaborazioni storiche di lungo periodo, che non di rado guardavano direttamente, pur mantenendo chiare le dovute differenze, anche alla Resistenza (e alle resistenze), se non addirittura al dopoguerra e all’Italia contemporanea. In particolare, in questo senso è stata pensata l’ultima sessione del convegno, in cui i vari interventi hanno portato i risultati di alcune ricerche ancora in corso che dimostrano come la narrazione di determinati avvenimenti storici sia cambiata nel tempo e come questa esprima molto della memoria pubblica. La storiografia e la memoria dell’antifascismo, quindi, come lenti privilegiate per analizzare l’Italia repubblicana.

In generale sono emersi, tra le altre cose, il consolidamento di riflessioni e persino gli avanzamenti sull’uso di fonti considerate classiche per lo studio dell’antifascismo, come ad esempio il Casellario Politico Centrale: da una parte continua ad essere proficuamente utilizzato per riscoprire biografie e costruire dizionari biografici o altre raccolte, dall’altra si studia per valutazioni innovative che riguardano il dopoguerra, per avere un riflesso di come all’indomani del 1945 veniva gestito l’ordine pubblico, quindi sostanzialmente analizzare chi fossero i funzionari dediti a tale lavoro, quali i soggetti controllati dal nuovo Cpc, quali le categorie considerate come possibili sovvertitrici delle nuove istituzioni. Ci permette, cioè, di osservare le ombre dell’Italia del dopoguerra, i motivi dietro la scelta di recuperare uno strumento liberticida e di controllo sociale all’interno di una cornice democratica, che risente fin da subito dell’incombere della guerra fredda. Inoltre, una certa attenzione degna di nota è stata posta alle riflessioni sul metodo riguardo lo studio delle figure femminili dell’antifascismo e della Resistenza con la consapevolezza di dover volgere con maggiore cura uno sguardo alle carte secondo la loro parzialità e contemporaneamente la necessità di fare approfondimenti attraverso un affinamento e fonti non convenzionali e non istituzionali.

Il convegno è stato inaugurato dalla lectio del professor Renato Camurri dell’Università di Verona, che ha posto al centro della sua relazione il carattere transnazionale dell’antifascismo, la particolarità di come biografie, culture e rotte di migrazioni si intreccino e si influenzino nello sviluppo di un’analisi politica collettiva. L’antifascismo degli esuli europei è stato osservato come laboratorio politico e culturale, come una comunità in cui la circolazione dei saperi e la riflessione teorica danno avvio ad un pensiero anticonformista e antitotalitario. All’estero gli antifascisti e le antifasciste si riuniscono e provano a immaginarsi oltre la crisi totalitaria del nazionalsocialismo e del fascismo, si proiettano verso un futuro democratico e iniziano in un certo qual modo a porre quelle che saranno le sue basi nel dopoguerra.

Infine, si riprende la valutazione conclusiva di Ventura su momenti collettivi di studio e discussione come quello lucchese: oltre all’importanza per quanto riguarda il piano della comprensione storica e della ricerca, che si arricchisce dei vari contributi e ci consente evoluzioni nella conoscenza del passato, ritornare ed esplorare i vissuti di uomini e donne che con le loro azioni hanno fatto dell’antifascismo una fondamentale scelta vita, è per noi oggi, a livello puramente personale, un modo per affrontare con maggiore fiducia questo presente così buio.

Tutti gli interventi divisi per sessioni di discussione sono consultabili online nel canale YouTube dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca.




Memoria ed eredità del PCI attraverso l’archivio della Federazione pisana.

L’archivio della Federazione pisana del PCI conservato presso la Biblioteca Franco Serantini[1] è stato depositato il 14 gennaio 2021, in occasione del centenario della nascita del Partito, con il trasferimento dei documenti dalla sede politica originaria, situata in via Antonio Fratti di Pisa, dove il fondo verteva in stato di abbandono. L’accordo tra la Biblioteca e l’Associazione Democratici di Sinistra, proprietaria delle carte, è avvenuto sotto forma di “deposito cautelativo”. I documenti che compongono l’archivio costituiscono un patrimonio eterogeneo consistente in materiale a stampa, dattiloscritto, manoscritto, materiale fotografico ecc.; essi coprono un arco temporale che va dalla fine degli anni ’60 – quando gli iscritti al Partito furono poco meno di 22.000 mentre i membri della FGCI quasi 1000[2] – fino allo scioglimento del Partito Comunista Italiano nel 1991.
Il progetto di riordino delle carte svolto dalla Biblioteca nel 2021 si inserisce all’interno di un più ampio contesto di valorizzazione degli archivi del PCI promosso dalla Fondazione Gramsci di Roma[3]. La finalità della Fondazione infatti è proprio quella di creare un portale in cui descrivere il patrimonio documentale prodotto dagli organismi nazionali e dalle varie organizzazioni territoriali del Partito Comunista Italiano[4]; così da formare un apparato informativo unitario in grado di descrivere la sua storia sia a livello locale che nazionale.

Manifestazione Vietnam 1972 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Manifestazione Vietnam 1972 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Per poter comprendere il ruolo del Partito a livello territoriale, basti infatti osservare il contributo che la Federazione ha offerto a Pisa e alla sua provincia nella ricostruzione della vita politica e sociale negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. I dati statistici prodotti durante il V Congresso provinciale del maggio 1954[5], ad esempio, riportano alla luce una realtà sociale permeata dall’impegno politico nel partito. Infatti, i tesserati a questa data sono 29.820[6], mentre gli iscritti alla FGCI ammontano a 6.743. Numerose sono state anche le iniziative democratiche sostenute dalla Federazione nel contesto provinciale; ancora oggi infatti nella memoria di tanti militanti è vivido il ricordo di quello che è passato alla storia come lo “scioperone” del ’62, quando gli operai della Piaggio manifestarono per ben 75 giorni. Il PCI è anche il partito da cui proviene il primo sindaco della città dopo la Liberazione del 1944; Italo Bargagna sarà inoltre rieletto nel marzo del 1946. Anche gli anni ’70 e ’80 vedono altri esponenti della Federazione a capo dell’Amministrazione comunale, come Vinicio Bernardini – eletto nell’aprile del 1971 e poi nel maggio del 1983 -, Elia Lazzari e Luigi Bulleri.
Ritornando all’archivio, il complesso dei documenti prodotti dal Partito si presentava come un insieme disorganico di carte che recavano scarse indicazioni esplicite per una loro possibile organizzazione strutturale, in quanto si tratta di documenti sedimentati nel tempo con alcune distinzioni di provenienza da uffici o da attività di dirigenti e funzionari della Federazione le cui mansioni venivano definite all’interno della struttura organizzativa del partito. Si è cercato dunque di mantenere questa impostazione, seguendo criteri non arbitrari, bensì suggeriti dall’attività e dalla vita del partito stesso, e rimanendo fedeli all’ordine temporale di sedimentazione dei documenti nel corso degli anni. A questo scopo si è dimostrata di aiuto la relazione redatta nel febbraio ’83 da un membro del Partito, Ciro Sbrana, e presentata alla segreteria della Federazione, dal titolo Per la costituzione dell’archivio della Federazione[7], nella quale si operava una prima suddivisione del materiale conservato fino a quel momento.
L’archivio proveniente dalla sede di via Fratti si caratterizza per la sola presenza di materiale prodotto a partire dalla fine degli anni ’60, mentre purtroppo sono andate perse le carte in parte riferite al periodo del primissimo secondo dopoguerra. Questa assenza è compensata, però, dall’integrazione del patrimonio documentale all’interno del complesso archivistico della Biblioteca grazie, ad esempio, al fondo di proprietà della famiglia Motta-Borri, donato all’Istituto nell’autunno del 2021, che contiene le circolari emesse dal Partito negli anni 1945-49, nonché materiale importante che copre gli un arco temporale che va dall’immediato secondo dopoguerra al primo decennio della Repubblica. Oltre a questo, la Biblioteca possiede un complesso di beni archivistici provenienti da diverse realtà politiche formatesi sul territorio pisano e protagoniste della scena politica cittadina negli anni successivi alla caduta del regime fascista; tra questi vale la pena citare, ad esempio, i materiali relativi al PSI e ad altre forze politiche, così come l’archivio della Democrazia proletaria. I materiali prodotti da queste realtà sono utili ed essenziali ai fini di una analisi approfondita e dettagliata della vita politica in ambito locale.

Regionale Antifascista 8 aprile 1973 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Regionale Antifascista 8 aprile 1973 Pisa (foto Giacomo Gensini)

I beni archivistici conservati all’interno dell’Istituto storico Franco Serantini si configurano pressoché come un unicum nel contesto conservativo pisano. Infatti, sebbene sia presente sul territorio La Rete Archivistica della Provincia di Pisa, costituita nel 2001 con l’intento di promuovere una comune gestione dei servizi archivistici al fine di una valorizzazione dei patrimoni comunali della provincia, emerge una quasi totale assenza di materiale riferito alla vita dei movimenti e dei partiti politici. Si registrano solo alcuni casi isolati come quello del fondo personale di Renzo Remorini, operaio della Piaggio e funzionario politico della Federazione del PCI, donato dal figlio alla Biblioteca civica G. Gronchi di Pontedera e contenente documentazione che testimonia l’impegno politico e sociale di un’intera generazione.
In contrasto con la realtà del pisano, nel contesto fiorentino, invece, possiamo ricordare il caso dell’Istituto Gramsci toscano – presso il quale è conservato l’archivio della Federazione fiorentina del PCI – e della Fondazione Filippo Turati, che possiede i fondi della Direzione nazionale del PSDI e del PSI. Allo stesso modo, è dovere ricordare, in territorio livornese, il lavoro di riordino e descrizione archivistica condotto nel 2011 dalla dottoressa Michela Molitierno sul fondo documentario della Federazione livornese del Partito Comunista, conservato presso l’Istoreco di Livorno. Dato il suddetto stato di cose all’interno del contesto toscano, è dunque possibile affermare che la Biblioteca Serantini rappresenta un caso significativo di atipicità e ricchezza in una realtà che fa fatica a fare i conti con il proprio passato.
La ricostruzione della storia dell’Italia repubblicana, di fatto, è resa possibile proprio grazie al supporto documentario in grado di illustrare il ruolo che i diversi partiti politici hanno sviluppato non soltanto nella vita politica, ma anche in quella culturale, economica e sociale del nostro paese[8]. E tra i partiti politici italiani del ‘900, il PCI è uno dei pochi ad aver preservato il patrimonio integrale delle sue carte «strutturandole in un archivio ordinato e preoccupandosi di aprire alla consultazione degli studiosi il proprio archivio storico già dalla fine degli anni ottanta»[9]. Non è da meno il caso dell’archivio della Federazione pisana del PCI, che, nonostante la lacuna antecedente agli anni ’70, si è dimostrato consistente e di considerevole interesse[10], e che attualmente, grazie al lavoro di riordino e organizzazione condotto nel corso del 2021, è liberamente consultabile; inoltre, una sintesi dei suoi contenuti e la gerarchia delle carte sono disponibili in forma digitale (bfscollezionidigitali.org). L’intervento di organizzazione si è strutturato mediante varie e diverse fasi: trattandosi di materiale eterogeneo sedimentato nel corso dei decenni, dapprima si è resa necessaria una razionalizzazione e suddivisione di tutto il patrimonio, attenendosi sempre a criteri oggettivi suggeriti dall’attività e dalla vita del partito stesso. Infatti, la struttura del fondo ha evidenziato fin da subito un totale disordine dato dal fatto che, come emerge dalla relazione del 1983, le carte, dal momento in cui non furono più di utilità alcuna, vennero conservate nel seminterrato della sede politica, senza alcun criterio né modello organizzativo dettato da un vero e proprio funzionario addetto all’archivio. Seguendo sommariamente le poche linee guida suggerite dalla relazione e dalla natura stessa dei documenti, in fase di una prima analisi si è deciso di suddividere il materiale in dieci serie. Ad integrare il materiale prodotto direttamente dalla Federazione pisana sono stati acquisiti, nel frattempo, alcuni archivi come quelli delle sezioni di Fornacette, Santa Croce sull’Arno e Volterra e di militanti come quello di Menotti Bennati.

Berlinguer 1975 PI- Giardino Scotto (Foto Giacomo Gensini)

Berlinguer 1975 PI- Giardino Scotto (Foto Giacomo Gensini)

In una seconda fase, grazie a un’analisi più approfondita, sono state create delle sottoserie, nelle quali sono stati suddivisi ulteriormente i documenti. In seguito a questa prima strutturazione, è stato possibile smistare il materiale all’interno delle serie e sottoserie individuate, e iniziare così la vera e propria fase descrittiva, per la quale sono stati adottati due criteri. Il primo è stato quello che ha permesso di individuare il materiale prodotto dai diversi uffici o dagli atti dei Congressi e dai convegni, così da poter riunire il tutto in fascicoli omogenei; in secondo luogo si è disposto l’ordinamento dei fascicoli secondo un principio cronologico all’interno delle singole serie e sottoserie. Una volta strutturata la gerarchia completa di tutto l’archivio, è iniziata la fase descrittiva, durante la quale i singoli fascicoli sono stati descritti in versione informatizzata utilizzando il software Archiui[11] e rendendoli poi visibili sul sito della biblioteca.
Il lavoro condotto delinea la composita attività politica e culturale del partito. Infatti, la descrizione delle partizioni archivistiche ha evidenziato lo sviluppo dell’attività politica nella successione degli eventi e, contestualmente, la descrizione analitica dei documenti, organizzati in fascicoli, illustra la modalità d’azione degli uffici e delle ramificazioni territoriali del partito.
In conclusione, gli archivi politici rivestono un ruolo di grande importanza per la storia locale e sono fonte inesauribile di conoscenza utile alla salvaguardia della memoria dell’iniziativa politica riguardante un’intera collettività. Oggi più che mai, considerati gli sviluppi storico-politici recenti, occorre confrontarsi con un passato non troppo lontano che influenza la nostra memoria e di conseguenza la nostra stessa identità.

 

NOTA:

1. La Biblioteca Franco Serantini, fondata nel 1979, entra a far parte della rete nazionale degli istituti storici della resistenza nel maggio del 2021, acquisendo la denominazione di Biblioteca Franco Serantini Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pisa e delineandosi in tal modo come unico istituto storico nella realtà pisana e della provincia.
2. PCI, FGCI. Federazione di Pisa, dal X all’XI congresso provinciale, Pisa, Federazione del PCI (a cura di) 1972.
3. L. Giuva (a cura di), Guida agli archivi della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1994.
4. https://www.fondazionegramsci.org/archivi/archivio-pci/.
5. PCI Federazione Comunista Pisana, V Congresso provinciale 14-15-16 maggio. Dati statistici sul partito e sul movimento democratico della provincia, Pisa, Tipografia Editrice Umberto Giardini, Pisa.
6. Nel 1954 la popolazione totale residente nella provincia di Pisa ammonta a 354.724 (di cui 81.140 residenti nel solo comune di Pisa) (dato Istat).
https://ebiblio.istat.it/digibib/Demografia/Movimentostatocivile/UFI0044838Pop1953_1954_1955_circ_amm_com_1956.pdf.
7. Relazione di Ciro Sbrana, Per la costituzione dell’archivio della Federazione, Pisa, 3 febbraio 1983 in Archivio.
8. Cfr, F. Ciacci e F. Trevisan (a cura di), Archivi umbri della Democrazia cristiana, Perugia, Soprintendenza archivistica per l’Umbria, 2001.
9. S. Pons e G. Bosman, Gli archivi del partito comunista italiano, in M. Valentini (a cura di), Gli archivi della politica: atti del convegno. Firenze, 11 aprile 2012, Consiglio regionale della Toscana, 2016, p. 33.
10. Per la ricostruzione delle origini e l’evoluzione storica della Federazione pisana del PCI: A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016; 12° congresso della Federazione comunista pisana: materiale per uno studio statistico sul partito a Pisa, Pisa, PCI, 1975; Federazione pisana del PCI [a cura della], Documenti e testimonianze sulla fondazione del P.C.I. in provincia di Pisa, [presentazione a cura di A. Marianelli], Pisa, [1981].
11. Il software Archiui è uno strumento che offre dei tracciati compatibili con gli standard nazionali e internazionali, quali ISAAR, ISAD(g), ICCD, Dublin Core, VIAF, FOAF ecc. Esiste anche la possibilità di esportazione del contenuto in formati di interscambio accessibili a lungo termine, come l’EAD3. Il sistema permette ovviamente anche l’interoperabilità verso SIUSA, SIAS e il SAN.