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Una giornata della Tecnica

4 Maggio 1941. É un giorno che cade di domenica, ma le scuole sono aperte, i laboratori funzionanti, i corridoi percorsi da torme di visitatori. Non è una situazione che si verifica dappertutto: chiusi sono i licei, e così le scuole elementari e le nuove scuole medie. Ad aprire le porte sono soltanto istituti tecnici, scuole d’avviamento e scuole tecniche. Così infatti il governo fascista, e soprattutto il Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, avevano programmato di celebrare la ricorrenza della neonata “Giornata della Tecnica”, che varata nel novembre 1939, aveva conosciuto la sua prima celebrazione il 2 Giugno 1940. A sancirne la nascita, un radiodiscorso del Ministro, pronto a evidenziare il ruolo che la manifestazione avrebbe dovuto assumere nel convincere giovani e famiglie a preferire
l’istruzione tecnica e professionale a quella liceale verso cui, asseriva, troppo alto continuava a essere il numero di iscritti.
Se istruzione tecnica e professionale appaiono unite in questa manifestazione, questo non vuol dire che non costituissero, oggi come allora, due percorsi nettamente divisi. Più lunga e consolidata la vicenda temporale dell’Istituto tecnico: sorto con la riforma Casati del 1859, era stato riformato dalla Legge Gentile che aveva previsto, come collegamento tra scuola elementare e Istituto tecnico superiore, un corso intermedio (denominato Istituto tecnico inferiore) di quattro anni dove centrale appare lo studio del latino. Frastagliato appare invece il percorso dell’istruzione professionale, che fino al 1928 fu sempre prerogativa di Ministeri di carattere industriale ed economico: basti qui sapere che le scuole di avviamento propriamente dette sorsero nel 1929 dalla fusione tra il corso post-elementare (sesta, settima, ottava elementare), le scuole complementari e le scuole professionali gestite fino ad allora dal Ministero dell’Economia Nazionale.
Lungi dal rivelarsi come un cruccio di natura esclusivamente fascista, le preoccupazioni ministeriali, così simili a quelle che avevano motivato il varo della riforma Gentile, traevano le proprie radici da un sostrato primo-novecentesco e liberal-conservatore – che, già in età giolittiana, innalzava alti lai contro la pur moderata crescita di iscritti che le scuole post-elementari, allora frequentate da un selezionatissimo numero di studenti (mai più del 7% delle coorti di età corrispondente), registrarono in quegli anni. Erano ansie destinate a saldarsi, e a giustificare, molti punti della “Carta della scuola” che proprio in quei mesi, dopo aver ottenuto l’approvazione del Gran Consiglio, Bottai si stava apprestando a concretizzare – invero con conseguenze assai limitate, se pensiamo che di tutta l’architettura prospettata solo la scuola media vide la luce, con il Regio Decreto 1° luglio 1940. Proprio l’istruzione media, e in particolare quella tecnico-professionale, era il principale oggetto delle attenzioni della “Carta”. Da una parte, infatti, la nuova scuola media avrebbe unificato i primi tre anni del ginnasio, dell’istituto tecnico inferiore e
dell’istituto magistrale; caratterizzata dalla corposa presenza dello studio del latino, si presentava come una scuola destinata alle élite, come dimostrava anche la presenza di un esame di ammissione tutt’altro che formale. Dall’altra, la scuola di avviamento professionale, teoricamente destinata alle fasce socialmente ed economicamente più deboli della società, sarebbe stata “sdoppiata” da due nuove scuole, entrambe di durata triennale: la scuola professionale, da fondarsi nelle città medio-grandi, e la scuola artigiana, che sarebbe stata invece inaugurata in tutti gli altri centri urbani e rurali. Più limitate erano le prospettive che questi due istituti, in confronto alla scuola di avviamento professionale, aprivano: mentre i licenziati dalla scuola professionale potevano proseguire i propri studi soltanto iscrivendosi alla biennale scuola tecnica, gli iscritti alla scuola artigiana non disponevano di ulteriori canali di formazione. Passati, come documentano gli Annuari Statitici Italiani del 1932 e del 1943, da 67224 iscritti nel 1930 (dato comprensivo delle scuole soppresse nel 1929 per dar luogo agli avviamenti) a 288558 iscritti nel 1941, gli avviamenti erano diventati, in quegli anni, l’istituto di istruzione media maggiormente frequentato in terra italica. Proprio per questo motivo, il disegno assumeva una caratura politica e sociale marcatamente conservatrice, che andava a intaccare la (pur ridotte) potenziale mobilità sociale assunta dalla scuola di avviamento professionale, che, attraverso la frequenza di un anno di corso integrativo oppure di un esame, consentiva l’iscrizione all’Istituto tecnico – e, in misura nettamente minoritaria, all’Istituto magistrale e persino al Liceo scientifico.
L’istituzione della “Giornata della Tecnica” coincideva dunque con un periodo delicato per il Ministero, coinvolto, nonostante le contingenze belliche, nell’attuazione di una riforma prima procrastinata, poi accantonata in misura definitiva. È sotto la luce di questa contingenza che possiamo leggere il corposo fondo che, nel 1941, i Provveditorati, dietro impulso governativo, produssero, editando monografie incentrate sullo sviluppo dell’istruzione tecnico-professionale nella propria provincia. Un corpus bibliografico che, nella generale carenza di informazioni disponibili per questo segmento scolastico, si rivela inaspettatamente prezioso: l’intento propagandistico, chiaramente evidente e anzi rimarcato anche dai documenti ufficiali e dalle riviste di Regime, consente infatti di vagliare quali, secondo Provveditori e Presidi, costituivano le caratteristiche più salienti delle scuole professionali da loro dirette, e soprattutto quale ruolo dovevano giocare nell’assetto socio-economico italiano: quello di preservare un ordine sociale da tutelare nella sua fissità? Oppure quello di favorire, nel caso di alunni particolarmente meritevoli, la
prosecuzione degli studi? Non derogano a questa diade le monografie dei Provveditorati toscani. Corsi integrativi di collegamento tra scuole di avviamento e istituti tecnici, innanzitutto, sono segnalati soprattutto negli istituti agrari, spesso privi, a differenza dei loro omologhi, di un corso inferiore: corsi integrativi sono infatti in funzione presso gli Istituti agrari di Pescia e Grosseto. Anche gli episodici accenni al collocamento dei licenziati e alla provenienza sociale degli studenti sembrano tradire un quadro socialmente composito: degli ex- studenti che avevano frequentato negli ultimi dieci anni la scuola di avviamento “Margaritone” di Arezzo, il 20,8% degli studenti continuava gli studi; tra gli iscritti alla scuola di avviamento di Foiano della Chiana, il 20% proviene da famiglie di commercianti e industriali e il 15% da nuclei di impiegati. È un quadro composito che convive con le dissonanti sfaccettature con cui, nel presentare a famiglie e funzionari ministeriali le loro scuole, i Presidi toscani, similmente ai colleghi del resto d’Italia, mostrano di nutrire concezioni differenti, a volte dissonanti, sulle prospettive che le scuole di avviamento avrebbero dovuto aprire ai loro licenziati. Se infatti a Chiusi della Verna il Preside afferma che «Numerosi sono gli alunni usciti da questi tre soli anni di avviamento i quali non interrompono i loro studi, ma li proseguono, frequentando le Scuole Tecniche e gli istituti Tecnici Industriali, animati dal desiderio di perfezionare le loro conoscenze, desiderio sorto in parte accanto alle macchine di questa scuola», per converso, il collega della scuola di avviamento “Giuseppe Giusti” di Pescia rimarca come «tale scuola della durata di tre anni ha carattere eminentemente popolare, ed accoglie, subito dopo la quinta elementare, i figli dei lavoratori e della piccola borghesia per avviarli ad un mestiere o ad un impiego s’intende di natura modesta». Emerge qui, nuovamente, la dimensione di contenimento sociale che l’istruzione professionale, fin dalla metà del XIX secolo, ha assunto negli occhi e nella mente di classi dirigenti per le quali le occasioni di mobilità sociale inducevano a preoccupazione e spavento.

Chiara Martinelli è docente a contratto in Storia dell’educazione presso l’Università degli studi di Firenze, dove collabora con il Laboratorio di Public History of Education. Membro della segreteria editoriale di “Rivista di storia dell’educazione” e della redazione della rivista “Farestoria”, è, dal 2016, parte del direttivo dell’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha all’attivo numerose pubblicazioni in storia dell’istruzione professionale, memorie scolastiche e letteratura per l’infanzia. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo “Educare alla Tecnica. Istituti tecnici e professionali alla “Giornata della Tecnica” (McGraw Hill, 2023).




Il massacro dei minatori di Niccioleta, 13-14 giugno 1944

Niccioleta è un villaggio minerario nel comune di Massa Marittima, al centro delle Colline Metallifere. La storia di Niccioleta è legata all’attività estrattiva della pirite i cui giacimenti furono acquisiti, agli inizi del secolo scorso, dalla Società Montecatini. Nel 1935 la scoperta di un grosso quantitativo di minerale dette un nuovo impulso alla miniera e la Società iniziò l’edificazione di un villaggio costruito su livelli altimetrici separati per classe sociale: i palazzi occupati dalle famiglie degli operai si trovavano in basso e circondavano la piazza, al livello superiore erano disposte le abitazioni degli impiegati e sulla sommità si ergeva la villa del direttore. I dipendenti provenivano in gran parte dal monte Amiata, dove le miniere di cinabro si erano esaurite, in particolare da Santa Fiora e Castell’Azzara, ma ve ne erano anche provenienti da altre località o regioni come Veneto e Sicilia: forza lavoro specializzata, che si trasferiva da un ambito minerario all’altro, in cerca di occupazione. Al personale impiegato nella miniera non era richiesta l’iscrizione al partito fascista, ma è probabile che i dipendenti vi fossero iscritti d’ufficio al momento dell’assunzione[1]. Le mansioni particolari dei minatori, non così facilmente sostituibili, concedevano loro il vantaggio di conservare le proprie opinioni politiche senza dover necessariamente rischiare la prigione o il confino. Si andava così costituendo sottotraccia, una base di opposizione al fascismo tutt’altro che risibile: «le famiglie contrarie al fascismo erano tante, più del 60% senz’altro, ma gli esponenti diciamo quelli più in vista, saranno stati una dodicina»[2].

La Direzione ne era senz’altro a conoscenza e ad ogni visita da parte delle autorità fasciste, si procedeva all’arresto preventivo dei più facinorosi, rilasciati all’indomani della manifestazione. Dopo l’8 settembre 1943, con la costituzione della Repubblica Sociale, a Niccioleta si contavano circa una quindicina di famiglie di fascisti, su una popolazione di circa ottocento persone. Il direttore Mori Ubaldini che aveva aderito convintamente al PNF, all’affermarsi del secondo fascismo se ne discostò, in particolare quando, dalla primavera del ‘44 nel villaggio si stagliò nettamente una maggioranza antifascista ed i fascisti iniziarono a chiudersi in difesa, nel timore che le forze partigiane potessero prendere il sopravvento e vendicarsi dei loro abusi (alcuni fascisti come Aurelio Nucciotti, segretario politico, avevano partecipato a rastrellamenti di partigiani).

I partigiani dell’area erano in contatto con il villaggio attraverso fiancheggiatori che li rifornivano di dinamite, chiodi a tre punte ed altri manufatti utili al sabotaggio. Alla fine di maggio i fascisti percependo il crescente isolamento, iniziarono ad apostrofare gli antifascisti e le loro famiglie minacciandoli dell’arrivo in loro aiuto di qualcuno che “avrebbe messo a posto la Niccioleta”. Il 5 giugno gli ufficiali tedeschi del presidio di Pian di Mucini in prossimità del villaggio, chiesero al direttore di poter interrogare cinque operai accusati di essere sostenitori dei partigiani. Si presentarono in tre, uno fuggì dalla finestra e gli altri furono redarguiti e rilasciati. Si trattò di una prima avvisaglia che denunciava la presenza di delatori al villaggio. Tre giorni dopo, mentre quegli stessi ufficiali si dirigevano in auto verso Boccheggiano, caddero in un’imboscata tesa dai partigiani e i soldati rimasti al presidio si diedero alla fuga.

Il 9 di giugno del 1944 alcuni antefatti, collegati tra di loro, determineranno le sorti del villaggio e della sua popolazione. Nel pomeriggio una squadra di partigiani della formazione “Camicia Rossa” giunse a Niccioleta; i giovani, accolti dalla popolazione festante, bruciarono qualche camicia nera e dopo aver disarmato i carabinieri e chiesto ai fascisti di restare in casa, se ne tornarono alla loro base, lasciando il paese nelle mani di un comitato pubblico costituito da vecchi antifascisti che organizzarono turni di guardia agli impianti e al paese. All’alba di quello stesso giorno, il III Freiwilligen Batallion Polizei Italien, partiva da San Sepolcro con destinazione Castelnuovo di Val di Cecina, ove giunse all’alba del giorno successivo, seguendo una logica poco comprensibile visto il contingente di reparti tedeschi in ritirata che transitavano in quei giorni sulla via Aurelia, o sulle strade più interne, verso la linea Gotica.

Il battaglione, costituito da truppa italiana e ufficiali tedeschi e italiani, era comandato dal maggiore Kruger che da subito si assentò, lasciando gli uomini sotto la guida tenente Emil Block. La mattina del 10 giugno il battaglione, al suo ingresso in Castelnuovo, catturava tutti gli uomini incontrati per strada e li conduceva presso il municipio in qualità di ostaggi. La popolazione, memore che il 7 giugno una squadra di partigiani della XXIII brigata aveva catturato e passato per le armi Pietro Palmerini, impiegato comunale fascista, al giungere del battaglione pensò ad una rappresaglia legata a quel fatto. In realtà accadde qualcosa di assolutamente indecifrabile. Durante la mattina del 10 giugno una squadra del battaglione in avanscoperta si scontrava presso Monterotondo Marittimo con una squadra di partigiani: cinque di loro persero la vita, ma furono colpiti anche numerosi militi. Il tenente Block, nonostante le perdite, non effettuerà alcuna rappresaglia su Monterotondo e neanche contro gli ostaggi di Castelnuovo che nel pomeriggio furono tutti rilasciati, tranne quattro giovani in età di leva deportati in Germania. Tuttavia, il 12 giugno il comandante chiedeva che fosse approntato un locale in grado di ospitare almeno 150 uomini; la notte stessa un reparto di circa 70 uomini lasciava Castelnuovo per Niccioleta e accerchiava il villaggio, prelevando tutti gli uomini dalle case.

Gli uomini del turno di notte fuggirono nascondendo le note con i turni di guardia nel rifugio antiaereo, gli altri furono trascinati nella piazza con le mitragliatrici puntate contro, sei di loro su indicazione di fascisti locali furono prelevati, percossi a lungo e poi passati per le armi quella stessa mattina: Ettore Sargentoni con i due figli Ado, che era in contatto con i partigiani, e Alizzardo; Bruno Barabissi, a cui fu trovato un fazzoletto rosso; Rinaldo Baffetti, noto antifascista, e Antimo Chigi che aveva un lasciapassare partigiano utilizzato per raggiungere i cantieri della Todt dove lavorava. Una volta trovate le note dei turni di guardia, gli uomini furono rinchiusi nel rifugio antiaereo e alla sera condotti a Castelnuovo Val di Cecina con i fascisti del paese e le loro masserizie.

Partirono con un moderato ottimismo, pensando che la fucilazione dei sei uomini al mattino avesse in qualche modo soddisfatto il desiderio di vendetta dei nazifascisti. Fu loro ordinato di prendere un cambio per tre giorni poiché sarebbero stati condotti a scavare trincee anticarro e a minare la centrale elettrica. Furono condotti a Castelnuovo e rinchiusi nei locali del cinematografo. Il giorno dopo avvenne la selezione: ventuno giovani nati tra il 1914 e il 1927 non presenti nelle note, pur avendo partecipato ai turni, furono condotti a Firenze e da qui in Germania ai lavori forzati; gli uomini di età superiore ai cinquant’anni furono inizialmente trattenuti, poi rilasciati successivamente alla strage dove perirono molti dei loro figli. Durante la selezione il fascista Calabrò ricevette il “privilegio” di salvare sei uomini, ma ne salvò solo due dal gruppo destinato alla fucilazione.

In settantasette furono quindi condotti in prossimità della centrale elettrica e qui uccisi da mitragliatrici occultate.

Il processo che seguì alla strage si concluse con una condanna dopo due gradi di giudizio ed un ricorso in Cassazione a 20 anni per Calabrò e Nucciotti, accusati di aver chiamato il battaglione a Niccioleta, e a 10 anni per Aurelio Picchianti, un milite riconosciuto da un giovane del villaggio. Un indulto nel 1952 liberò definitivamente i condannati. Gli uomini che fecero parte del plotone di esecuzione, denunciati inizialmente da un commilitone, saranno prosciolti in seguito al ritiro della denuncia. Il segretario del direttore, un ex capitano dei servizi segreti militari, tale Nicola Larato, si era allontano da Niccioleta ai primi di giugno e vi ritornò il giorno stesso in cui il battaglione aveva accerchiato il villaggio. Fu riconosciuto da un milite ed era atteso dal comandante; dunque, era precedentemente stato in contatto con il battaglione, forse attraverso il tenente medico Domenico Fracchiolla, pugliese come il Larato. Larato fu catturato dal CLN di Niccioleta nel dopoguerra e consegnato agli Alleati, che lo tratterranno due anni nel campo di concentramento di Padula; tuttavia non fu mai imputato al processo. Il tenente medico, invece, non fu mai ritrovato perché all’epoca si ignorava il suo nome. Molti anni dovettero passare prima che gli storici si interessassero all’eccidio e ritrovassero i documenti utili all’individuazione dei responsabili tedeschi, che tuttavia restarono impuniti.

Note

  1. Presso l’Istituto Storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea a Firenze sono conservati i registri contenenti l’elenco di tutti i dipendenti della Società Montecatini iscritti al PNF, tra questi anche oppositori al fascismo, e da un riscontro presso le famiglie risultava che nessuno ne fosse a conoscenza.
  2. Si veda l’intervista a Mario Fatarella, in Katia Taddei, Coro di voci, Il Ponte Editore, Firenze 2003, p. 310.

Per approfondimenti: https://memoriavittimenazismofascismo.it/ nel quale si possono consultare le interviste a Siliano Sozzi, Mario Fatarella, Bruno Travaglini, accessibili previa registrazione gratuita.




Rivendicazione di diritti negati

Sono numerose le motivazioni per cui, in epoca contemporanea, si è perpetrata a lungo la posizione subordinata delle donne rispetto agli uomini, che ha comportato la loro esclusione dalla sfera pubblica e ha accentuato la divisione dei sessi a livello lavorativo. In Italia, le cose iniziarono a mutare, soprattutto a livello legislativo, dopo il 1945, nonostante già precedentemente ci fossero stati scioperi e manifestazioni che avevano avuto come protagonista la compagine femminile.

Durante la Seconda guerra mondiale, come già era accaduto nel conflitto precedente, le donne occuparono posizioni lavorative e sociali dalle quali erano state fino a quel momento escluse. Con il crollo del regime fascista e il ritorno definitivo degli uomini dal fronte, si iniziò a riflettere su come accorciare la distanza lavorativa, sociale e culturale che separava donne e uomini. Nonostante non si ripropose l’aggressività che aveva caratterizzato il primo dopoguerra, in un primo momento l’atteggiamento dei sindacati e dei partiti non sembrò mutare rispetto ai primi decenni del secolo: le rivendicazioni riguardanti il diritto al lavoro femminile e la parità salariale sembravano non rientrare nell’agenda politica comunista, molto più interessata ai problemi di disoccupazione operaia maschile.

A livello legislativo furono sicuramente fondamentali il decreto legislativo luogotenenziale n. 74 (10 febbraio 1946) – che riconosceva anche alle donne il diritto di voto rendendole cittadine a tutti gli effetti – e l’approvazione della legge n. 860 del 26 agosto 1950, sulla «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri», proposta da Teresa Noce (Pci) e sostenuta da Maria Federici (Dc).

Per quanto riguarda l’attività dei sindacati e delle organizzazioni femministe e democratiche, un momento di svolta fu rappresentato dalla Conferenza Nazionale della donna lavoratrice (Firenze, 23-24 gennaio 1954) patrocinata dalla Cgil e di cui ricorre quest’anno il 70° anniversario. In tale occasione si affrontarono le questioni considerate più urgenti e che la Costituzione italiana avrebbe dovuto garantire: il raggiungimento della parità salariale; il diritto al lavoro; la tutela della salute e della maternità; il rispetto della libertà nei luoghi di lavoro; l’attuazione di una legislazione che difendesse le categorie più sfruttate.

A gettare le basi per la Conferenza furono due distinti momenti nel 1952: il primo risalente all’aprile, quando su «Le nostre lotte» venne pubblicato un resoconto di quanto emerso il 25 marzo durante la riunione a Roma della Commissione Femminile Nazionale della Cgil. In quell’occasione si iniziò a riflettere sull’importanza di un’azione concreta, svolta attraverso riunioni e assemblee, per discutere delle problematiche che interessavano le lavoratrici. Dai momenti di confronto, sarebbero dovute scaturire «proposte, rivendicazioni, richieste concrete e precise che, raccolte in quaderni» sarebbero state studiate e analizzate, rappresentando la base per la loro realizzazione. La C.F. riteneva che per garantirsi l’appoggio dell’opinione pubblica sui diritti delle lavoratrici, fosse fondamentale il contributo dei comitati cittadini, delle organizzazioni sindacali e delle singole personalità che «con iniziative e attività, ciascuna nell’ambito che le è proprio, contribuisca alla liberazione delle lavoratrici dalla schiavitù e dall’oppressione ed al raggiungimento della loro completa emancipazione». Quanto emerso sarebbe poi culminato in una conferenza nazionale.

Il secondo momento in cui si parlò di una possibile conferenza nazionale fu durante il III Congresso Nazionale della Cgil (Napoli, 26 novembre-3 dicembre 1952), durante il quale si chiese al sindacato di patrocinare una conferenza di tutte le associazioni e gruppi femminili nazionali, che avrebbe portato all’elaborazione della «Carta dei Diritti» per un miglioramento della situazione non solo lavorativa, ma anche abitativa e sociale delle donne italiane.

I lavori di preparazione dell’evento iniziarono molto presto, intensificandosi a inizio autunno 1953. La Commissione di coordinamento e di direzione spronò il coinvolgimento alla mobilitazione delle lavoratrici iscritte alla Cisl e alla Uil, ma anche di coloro non sindacalizzate. Furono invitate a prendere parte all’iniziativa anche tutte le associazioni interessate ai diritti delle donne, tra cui l’Unione delle donne in Italia (Udi), che aveva organizzato a Roma, tra il 10 e il 12 aprile 1953, il Congresso della Donna Italiana. Nonostante si trattò di un evento distinto da quello patrocinato dalla Cgil, permise di iniziare a parlare di temi che sarebbero stati approfonditi durante la Conferenza fiorentina. La Commissione di coordinamento invitò, inoltre, le segreterie delle Camere Confederali del lavoro e le federazione a organizzare assemblee preparatorie e diede le indicazioni per l’elezione delle delegate che avrebbero presenziato a Firenze, scelte durante le assemblee aziendali o interaziendali.

Durante le assemblee provinciali avrebbero preso la parola le lavoratrici del territorio per portare le testimonianze delle condizioni nelle quali si trovavano, così da creare delle Carte rivendicative, attraverso cui avanzare le proprie richieste. Esse avrebbero dovuto indicare una serie di informazioni: tipo e numero di riunioni realizzate in preparazione della Conferenza provinciale e di quella nazionale; numero di partecipanti; azioni rivendicative già intraprese ed eventuali risultati raggiunti. La documentazione prodotta sarebbe stata poi raccolta in ‘album’ con anche materiali fotografici: oltre alle immagini che ritraevano le lavoratrici durante lo svolgimento delle assemblee, si chiedeva di inserire anche quelle che potessero testimoniare le loro condizioni di vita e di lavoro.

Molti risultati positivi dati dall’impegno alla preparazione della Conferenza si ebbero anche dalle attività svolte da alcune federazioni di categoria, tra cui la Federmezzadri, che riuscì ad organizzare un’Assise nazionale e che nella provincia di Firenze promosse la «Giornata della ragazza mezzadra», per dare rilievo anche alle condizioni in cui si trovavano le più giovani.

Per quel che riguarda l’organizzazione della Conferenza, in un primo momento Renato Bitossi sperò che la manifestazione si potesse svolgere al Teatro della Pergola, in quanto sede adatta ad accogliere le numerose persone in arrivo da tutta Italia, ma Eugenio Saccenti, a causa della programmazione del Teatro, non riuscì a soddisfare tale richiesta. Gli organizzatori decisero così di svolgere la prima giornata all’interno dei locali del Parterre, dove sorgeva anche il Palazzo delle Esposizioni, in Piazza della Libertà, mentre il discorso conclusivo di Giuseppe Di Vittorio – segretario generale della Cgil – del 24 gennaio si tenne al Teatro Apollo (già Cinema Rex e oggi Mercure Hotel).

La Conferenza si aprì con i saluti di Elsa Massai – responsabile della C.F. della Camera Confederale del Lavoro di Firenze – che sottolineò come «la emancipazione della donna, il rispetto e le affermazioni dei diritti delle lavoratrici sono elementi indispensabili per l’avvento di quella società giusta, civile, progredita, per cui oggi ci battiamo». Dopo di lei, Fernando Santi dichiarò che la Conferenza non era importante solo per le donne italiane, ma anche per il mondo del lavoro nella sua globalità. Egli evidenziò il carattere unitario e democratico della Conferenza, poiché a presenziare erano delegate di provenienza diversa con lo scopo di lottare per cancellare l’inuguaglianza e per realizzare la giustizia sociale. A portare i loro saluti ci furono inoltre le operaie licenziate dalla Magona di Piombino, che, attraverso i lavori della Conferenza, speravano di riappropriarsi del diritto al lavoro del quale erano state private.

Durante la prima giornata dell’evento, presero la parola anche esponenti arrivate dall’estero, a prova del fatto che la manifestazione fiorentina aveva l’attenzione internazionale. Mary Wolfard, a nome della Federazione sindacale mondiale, riconobbe nella lotta delle lavoratrici italiane quella di «tutte le donne di tutti i Paesi capitalistici e coloniali ed anche quella della Federazione Sindacale Mondiale». Allo stesso modo, Germaine Guillé – delegata della Confederazione Generale del Lavoro Francese – sottolineò come a muovere le lotte delle donne italiane e francesi ci fossero dei motivi e delle esperienze comuni.

Uno dei temi più dibattuti riguardò la parità salariale. Nella sua relazione, Rina Picolato – al vertice della Commissione Femminile Nazionale – sottolineò che l’accorciamento delle distanze tra la retribuzione maschile e quella femminile rappresentava un miglioramento per tutti e non solo per le donne, dal momento che «le basse retribuzioni del lavoro femminile sono spesso sfruttate come elemento di freno al miglioramento delle stesse retribuzioni maschili, al progredire di tutto lo schieramento del lavoro verso un migliore tenore di vita». Direttamente collegato alla questione economica, vi erano anche lo sfruttamento massiccio e i soprusi padronali ai quali venivano sottoposte le lavoratrici, di cui parlò nel suo intervento Gina Casetti – segretaria della C.I. della Pirelli di Torino.

Queste, insieme ad altre questioni portate in auge dagli interventi delle relatrici, sarebbero state affrontate ulteriormente attraverso un’inchiesta popolare – promossa durante la Conferenza – all’interno dei luoghi di lavoro. A intervenire e a portare la loro testimonianza furono operaie, braccianti agricole, impiegate, professoresse, delegate di associazioni di categoria e delle Camere del Lavoro provenienti da tutta la Penisola, a dimostrazione del fatto che la manifestazione fiorentina riuscì ad avere una larga risonanza nazionale. Gli interventi diedero prova delle situazioni difficili condivise da gran parte delle lavoratrici, anche se appartenenti a luoghi e contesti diversi.

Attraverso il discorso di chiusura, Giuseppe Di Vittorio evidenziò come le donne avessero acquisito, anche grazie al lavoro di preparazione della Conferenza, «una chiara coscienza che l’inferiorità cui le condanna la società, lo sfruttamento supplementare cui le sottopongono i signori agrari ed industriali, non sono cose inevitabili come si è voluto far credere e come qualcuno tenta di far credere ancora oggi». Egli denunciò il fatto che nonostante la Costituzione democratica italiana sancisse i principi di uguaglianza civile, economica e morale della donna rispetto all’uomo, ancora troppo spesso essi non venivano applicati: non solo a livello di remunerazione economica, ma anche per quel che riguardava la garanzia di igiene, sicurezza e protezione della lavoratrice. Per combattere contro le condizioni nelle quali si trovavano moltissime lavoratrici e per concretizzare le iniziative promosse dalla Conferenza, era necessario che le commissioni femminili sindacali si unissero alle altre organizzazioni democratiche che avevano a cuore queste questioni.

Alla luce delle carte rivendicative compilate durante le assemblee preparatorie e di quanto emerso durante la manifestazione fiorentina, venne emanata la Carta dei diritti della lavoratrice. Attraverso di essa, si chiedeva che «i principi sanciti dalla Costituzione – conquistata anche per il generoso contributo delle donne alle Lotte di Liberazione Nazionale – siano tradotti in operante realtà», tra questi il diritto al lavoro e l’accesso a tutte le carriere e professioni; retribuzione uguale per uguale lavoro; la protezione per la salute; la tutela per la maternità; il rispetto dei contratti di lavoro; il rispetto della personalità umana e delle libertà anche all’interno delle aziende. Con la Carta vennero inoltre promosse «La settimana dei diritti delle lavoratrici» (1°-8 marzo) e la già citata inchiesta popolare sulla situazione all’interno dei luoghi di lavoro.

La Conferenza ha rappresentato dunque un momento fondamentale di riflessione, aprendo un dialogo e un confronto a livello nazionale: nonostante fu necessario qualche anno per raggiungere risultati importanti, si ambiva a una «Patria democratica e indipendente, giusta e umana, per tutti i suoi figli».

Queste e altre questioni saranno i temi principali della mostra in occasione del 70° anniversario della Conferenza, che verrà inaugurata nella prima settimana di marzo 2024 presso il Complesso monumentale delle Murate di Firenze. Promossa dalla Cgil nazionale e Toscana e dallo SPI nazionale e toscano, in collaborazione con la Fondazione Valore Lavoro e l’Archivio storico nazionale della CGIL, e patrocinata dal Comune di Firenze e dalla Regione Toscana, sarà un’occasione per riflettere su quanta strada si è fatta finora e quanta ne resta da fare per il raggiungimento della piena parità tra donne e uomini.

Martina Lopa si è laureata in Scienzie Storiche all’Università degli Studi di Firenze, con una tesi sul ruolo avuto dalle donne nelle prime associazioni per la protezione degli animali, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




La crisi del tessile a Prato

Nel secondo dopoguerra l’industria tessile pratese, dopo la fase della ricostruzione, dovette affrontare, tra il 1949 ed il 1952 circa, una crisi drammatica che si risolse con una profonda modificazione della struttura produttiva, lo smantellamento dei grandi lanifici a ciclo completo e la nascita del distretto industriale. Al superamento della crisi fece seguito un lungo periodo di sviluppo. Tra il 1961 ed il 1981 i principali indicatori economici si mantennero costantemente in crescita: le unità locali, per esempio, che erano 10.700 nel 1971, salirono a 14.700 nel 1981, mentre gli addetti passarono, nello stesso arco di tempo, da 50.000 a 61.000.

Le prime avvisaglie di una nuova crisi, che investì soprattutto il settore del cardato, si manifestarono verso la metà degli anni Ottanta. I suoi effetti furono contenuti grazie allo sviluppo della fase di nobilitazione dei tessuti ed alla possibilità di ricollocare nel terziario parte dei lavoratori rimnasti disoccupati, ma l’inversione del trend positivo era un dato di fatto innegabile: fra il 1981 ed il 1991 i fusi di cardato scesero da 770.000 a 400.000, le unità locali tessili da 14.700 a 10.500 e gli addetti al tessile da 61.100 a 46.200.

La situazione si aggravò negli anni successivi in seguito ad un complesso di cause eterogenee, che per gli industriali erano rappresentate in primo luogo dal costo del lavoro – a loro avviso troppo elevato –, dagli alti oneri sociali, dalla mancanza di infrastrutture adeguate e così via, mentre il sindacato ed il Partito comunista insistevano soprattutto sull’eccessiva frammentazione della struttura produttiva. Valgano al riguardo alcuni dati: a Prato la media dei dipendenti per azienda era pari a 3,7 (e le aziende con più di quindici dipendenti costituivano dunque una minoranza); nel 1999, a parità di fatturato, i lanifici attivi a Biella, il più importante centro laniero italiano, erano cinquanta, nella città toscana cinquecento, molti dei quali strutturati in maniera inadeguata rispetto alle esigenze del mercato. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo l’industria tessile locale, già in seria difficoltà, precipitò in una crisi dalla quale non si sarebbe più ripresa: a determinarla furono l’entrata in vigore dell’euro (1999-2002) – che rese impossibile fare assegnamento sulla svalutazione della lira per ridurre i prezzi in moneta estera dei beni esportati e sostenere così le esportazioni – e l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (11 dicembre 2001), dopo un negoziato durato una quindicina di anni. L’entrata in tale organizzazione consentì al gigante asiatico di usufruire di tariffe più vantaggiose per l’export in cambio di dazi minori sull’import (e del rispetto di una serie di impegni poi in larga parte disattesi). I mercati occidentali furono così invasi da una massa di prodotti cinesi a basso costo, e ciò produsse conseguenze pesantissime per il tessile manifatturiero in Italia e quindi anche per il distretto locale.

Alla fine degli anni Novanta i segnali di sofferenza del settore si moltiplicarono: ai primi di marzo del 1999 gli operai pratesi in attesa di riscuotere la cassa integrazione ordinaria erano cinquemila e lo stillicidio delle chiusure e dei licenziamenti appariva inarrestabile. Ai primi di aprile risultavano in attività duecentosettanta filature per conto terzi (nel 1995 le filature erano trecentottanta e nel 1985 quattrocentocinquanta). Negli ultimi quattro anni avevano chiuso i battenti ben sessanta aziende di cardato. La struttura economica di Prato stava insomma subendo una trasformazione irreversibile, caratterizzata da una progressiva riduzione del peso del comparto tessile.
Ma questo non significava che fosse in crisi l’economia cittadina: nel dicembre del 2002, in occasione del tradizionale incontro di fine anno con i giornalisti, il presidente della Provincia, Daniele Mannocci, e l’assessore al lavoro, Fabio Giovagnoli, rilevarono che, pur essendo indiscutibile la gravità della crisi in cui il tessile si dibatteva, nel periodo gennaio-novembre l’occupazione era aumentata di 3.882 unità e che tale aumento si doveva principalmente allo sviluppo di settori diversi da quelli tradizionali. Prato si stava insomma muovendo verso un nuovo assetto produttivo, verso lo stadio postindustriale, contraddistinto dall’incremento delle attività terziarie e dalla diminuzione degli addetti alle attività industriali. In questo quadro, il tessile non poteva certo riconquistare le posizioni perdute. Ne fanno fede alcuni dati resi noti ai primi di giugno del 2023, secondo i quali dal 2001 al 2021 le aziende tessili sono passate a Prato da 4.301 a 1.816 (-57%), mentre il numero degli addetti del comparto è sceso da cinquantamila a trentacinquemila.

Nella primavera del 2000 la crisi che attanagliava il tessile a Prato raggiunse anche il Lanificio Pecci, l’unico che, a quell’epoca, aveva ancora mantenuto il ciclo completo di lavorazione: la vicenda del Pecci può essere considerata come l’emblema di quanto stava allora accadendo in città.
La ditta era all’epoca una società in accomandita semplice con un fatturato di circa ottanta miliardi. A dirigerla era Pierluigi Marrani, affiancato da Enrico Biguzzi, Fabio Faggi, Piergiuseppe Gremmo ed Andrea Bini (che si occupava delle trattative con il governo per le commesse militari). La proprietà reagì alle difficoltà puntando sull’abbattimento dei costi attraverso i licenziamenti: al Pecci erano in forza circa trecento lavoratori ed i licenziamenti, annunciati il 27 aprile all’assemblea degli operai, erano trentacinque, concentrati nei seguenti reparti: filatura a pettine, tessitura, tintoria e rifinizione. Non erano previsti tagli fra gli impiegati. Le motivazioni addotte dall’azienda per giustificare il ridimensionamento erano il progressivo calo degli ordini (in particolare delle commesse militari) e l’onerosità dei costi fissi. L’obiettivo dichiarato era quello di ritrovare quanto prima l’equilibrio di bilancio, ma la mancanza di un preciso piano di rilancio preoccupava molto i lavoratori (il fatto di avere almeno in parte intercettato il malcontento degli operai per i licenziamenti che si profilavano all’orizzonte permise all’Unione libertaria pratese – un sindacato di ispirazione anarchica che aspirava a diffondere fra i lavortatori il concetto di autorganizzazione – di ottenere il 15% dei voti in occasione delle elezioni per il rinnovo della Rsu aziendale svoltesi il 7 febbraio 2000).
Il 24 maggio i lavoratori del Lanificio scioperarono dalle dieci alle undici per riunirsi in assemblea. Al termine della discussione fu approvato un documento in cui si chiedeva di proseguire il dialogo con la direzione che, fino ad allora, era stato infruttuoso (da un incontro svoltosi alcuni giorni prima non erano infatti emerse novità significative, tranne una generica proposta da parte dell’azienda di ridurre i tagli nella filatura a pettine). Non vennero proclamate altre ore di sciopero. Il 18 luglio le parti raggiunsero una soluzione di compromesso per la chiusura della vertenza. L’ipotesi di accordo fu approvata all’unanimità da un’assemblea svoltasi il 21: i lavoratori da porre in mobilità – che da trentacinque si erano ridotti a ventiquattro nel corso delle trattative – sarebbero stati tredici (la maggior parte dei quali “volontari”: nove lavoratori, fra cui alcune donne vicine all’età pensionabile, si erano infatti detti disponibili a lasciare il posto). I tagli si sarebbero concentrati nella tintoria matasse. L’accordo finale, sottoscritto il 27 luglio nella sede dell’Unione industriale pratese (Uip), recepiva in sostanza i termini della bozza di accordo. Esso prevedeva tredici licenziamenti (di cui dieci “volontari”, cioè accettati in cambio di incentivazioni all’esodo). I tagli erano concentrati nei reparti della filatura a pettine e della tintoria matasse, che venne esternalizzata. La proprietà si impegnava infine ad effettuare investimenti nel reparto rifinizione.
Ma il raggiungimento di questo accordo significò per i lavoratori del Pecci soltanto una tregua. Nell’estate del 2001 cominciarono difatti a circolare voci sempre più insistenti di ulteriori tagli al personale: il 25 luglio i sindacati furono informati delle intenzioni dell’azienda nel corso di un incontro svoltosi all’Uip. Verso la metà di settembre, la ditta, che contava allora duecentocinquanta dipendenti e sviluppava un fatturato di cento miliardi, aprì la procedura di mobilità per ben settantatré lavoratori. I tagli riguardavano tutti i reparti, ad eccezione dell’orditura, ed erano così distribuiti: cinquantadue in filatura a pettine (della quale era previsto lo smantellamento, a meno che non si fosse trovato un nuovo socio di minoranza cui affidarne la gestione), cinque in tessitura, due in tintoria, sette in rifinizione ed altrettanti nei servizi generali. La proprietà presentò contestualmente un piano di ristrutturazione che contemplava dieci miliardi di investimenti in due anni e la divisione dell’azienda in due società: una di filati per maglieria diretta da Marrani, ed un’altra, a capo della quale sarebbe andato Filippo Busi, nipote di Alberto Pecci, che, pur non abbandonando il settore tradizionale della drapperia, avrebbe puntato su una linea di tessuti donna di qualità medio-alta.
Le organizzazioni sindacali proclamarono per il 19 settembre un’ora e mezzo di sciopero con assemblee alla fine di ogni turno, dichiarandosi assolutamente contrarie alla chiusura della filatura a pettine. La nuova vertenza era molto più complicata, rispetto a quella conclusasi con l’accordo del 27 luglio 2000, perché, stavolta, pochi fra gli operai in esubero erano in procinto di accedere alla pensione e nella filatura a pettine (che la ditta voleva assolutamente chiudere, giudicandola non più competitiva) erano in forza molte donne, la cui ricollocazione sul mercato del lavoro non sarebbe certo stata semplice. Secondo l’azienda, i tagli erano funzionali alla riconversione su un prodotto per donna di qualità medio alta ed alla necessità di riprendere la produzione di divise militari in Romania, dove era stato aperto da poco un ufficio (le commesse militari, perdute a causa della concorrenza di altri paesi, erano state pari al 15% del fatturato dell’azienda nel biennio precedente). Il sindacato chiedeva che la filatura non cessasse l’attività, una verifica del numero degli esuberi ed infine la riqualificazione ed il riassorbimento in altre ditte dei licenziati.
Il primo incontro fra le parti, svoltosi il 21 settembre, ebbe un esito interlocutorio: la ditta si disse disponibile a cercare di ricollocare le persone che avrebbero perso il posto di lavoro, ma ribadì la volontà di chiudere la filatura. Il mondo della politica si interessò della grave controversia, ma senza ottenere risultati concreti. Il 25 settembre i lavoratori del Pecci scioperarono per un’ora e mezzo e tennero un’assemblea davanti ai cancelli dello stabilimento, confermando la loro recisa opposizione alla chiusura della filatura a pettine. Il 5 ottobre ebbe luogo un nuovo incontro fra l’azienda ed i sindacati, che però non fece registrare alcun passo avanti nella trattativa. In seguito al fallimento di questo incontro, tre giorni dopo gli operai del Pecci si astennero per un’ora e mezzo dal lavoro, tenendo un’altra assemblea fuori dai cancelli della fabbrica.
Le parti tornarono ad incontrarsi il 17 ottobre e la difficile vertenza giunse finalmente ad un punto di svolta. Il giorno successivo il sindacato informò i lavoratori dei termini dell’ipotesi di accordo siglata con la controparte: gli esuberi scendevano da settantatré a trenta ed erano così ripartiti: diciotto in filatura, sei in rifinizione, uno in tintoria e cinque tra gli impiegati. I lavoratori da collocare in mobilità sarebbero stati scelti – in accordo con quanto previsto dalla legge 23 luglio 1991, n. 23 (art. 5) – tenendo conto di tre parametri: il carico familiare, il maggiore o minore grado di anzianità e le esigenze tecnico-produttive ed organizzative. La filatura a pettine non sarebbe rimasta all’interno della fabbrica, ma, conformemente al piano di ristrutturazione aziendale, sarebbe passata, dal 1° gennaio 2002, alla Pecci filati (una nuova azienda, diretta da Marrani, che sarebbe nata dallo scorporo delle attività filati dal Lanificio Pecci). La Pecci filati, più piccola della filatura che faceva parte del vecchio lanificio a ciclo completo, avrebbe lavorato non solo per l’altra azienda prevista dal piano di ristrutturazione (quella specializzata nella produzione di tessuti, di cui avrebbe preso le redini Filippo Busi) ma anche in conto terzi. L’Uip si impegnava formalmente a favorire la ricollocazione degli operai licenziati (quest’ultimo era un forte elemento di novità in quanto a Prato la parte datoriale non aveva mai assunto in precedenza un impegno del genere). Dopo l’approvazione della bozza di accordo da parte dell’assemblea dei lavoratori, l’intesa definitiva fu siglata il 29 ottobre da Marrani per la ditta, da Manuele Marigolli per la Cgil, da Calogero Aronica per la Cisl e da Angelo Colombo per la Uil. Così, in poco più di un anno, tra uscite volontarie e licenziamenti, la proprietà era riuscita a ridurre in modo consistente il numero dei dipendenti, ed anche l’intesa sottoscritta il 29 ottobre poteva dirsi, dal suo punto di vista, soddisfacente dato che, stando a quanto fonti aziendali avevano lasciato trapelare, pur avendo parlato di settantatré esuberi, il vero obiettivo della ditta era quello di ottenerne fra i trantacinque ed i cinquanta.
Ma la serie dei tagli non era finita. Come si è accennato, dal piano di ristrutturazione aziendale del 2001 erano scaturite due ditte, e precisamente la Pecci filati (diretta da Marrani) e la Pecci tessuti (diretta da Busi). Ai primi di dicembre del 2002 quest’ultima informò le organizzazioni sindacali della necessità di ridurre il personale a causa della diminuzione del fatturato. Stavolta gli esuberi erano una ventina e sarebbero stati distribuiti in tutti i reparti, ma, stando alle voci che circolavano, essi si sarebbero concentrati soprattutto in tessitura ed in tintoria. Quanto alla tessitura (anche se negli ultimi anni erano stati acquistati nuovi telai, assunti nuovi tecnici e si era cominciato distinguere la tessitura vera e propria da quella a campioni), sarebbe stato eliminato il turno di notte. La tintoria in rocche era invece destinata alla chiusura: il lavoro scarseggiava e nell’arco di una giornata lavorativa veniva tinto solo qualche chilo di filato, a fronte di una potenzialità di quattromila chili al giorno. I tagli avrebbero forse interessato anche la tintoria in pezze, la rifinizione e gli uffici. Era questa un’altra tappa del processo di disimpegno della proprietà dal settore tessile, in linea con la strategia di diversificazione già avviata negli anni Sessanta con l’acquisto di una quota rilevante della Segnalamento marittimo ed aereo, una ditta che produceva radar per uso militare.
Il processo di ridimensionamento dell’azienda si concluse nel giro di qualche anno col suo smantellamento, reparto dopo reparto. Oggi – anche se la Pecci filati è ancora aperta a Capalle e, con un numero di dipendenti stimabile fra venti e quarantanove, rientra nella classe di fatturato che va dai tredici ai venticinque milioni di euro – la famiglia Pecci ha interessi in vari settori ed il tessile non è più il suo core business. Di particolare rilievo è il ruolo di Alberto Pecci all’interno della El.En., una società per azioni con sede a Calenzano che si occupa della produzione di sistemi laser: Pecci possiede infatti il 10,40% delle azioni e siede in consiglio d’amministrazione. Per avere un’idea dell’importanza di questa azienda, basti pensare che, fondata a Firenze nel 1981, la El.En. è oggi capofila di un gruppo formato da più di trenta imprese sparse in tutto il mondo: al 31 dicembre 2020 il gruppo vantava un fatturato consolidato di circa quattrocentodieci milioni di euro, un utile netto consolidato di venti milioni ed impiegava circa milleseicento dipendenti, di cui settecento in organico alla capogruppo.

 




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




Guido Cerbai, un percorso sghembo e coerente

Le stagioni più vivaci della sinistra italiana – quelle, diciamo, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta – sono state animate da soggettività molto diverse e sono state tante le figure che hanno attraversato questi anni con bagagli politico-culturali e lungo percorsi non convenzionali.
Una di queste figure è Guido Cerbai, nato a Galliano di Mugello nel 1934, vissuto dal 1946 al 1959 a Firenze e successivamente trasferitosi a Pisa, dove attualmente risiede.
Oggi, alle soglie dei novant’anni, Cerbai è una figura sempre presente e visibile nella vita politica cittadina come attivista e dirigente di Rifondazione Comunista, ereditando una fitta rete di relazioni intessuta nel corso di sessant’anni di attività dapprima sindacale e quindi nelle istituzioni e portando sempre nelle assemblee e nelle iniziative politiche una voce autorevole che si appoggia a una memoria precisa, lucida e colta.
Tutte queste caratteristiche hanno fatto in modo che diverse persone, indipendentemente tra loro, lo abbiano individuato nella seconda metà degli anni Dieci come testimone privilegiato di un lungo periodo di vita politica e sindacale cittadina. Questo riconoscimento si è materializzato nel febbraio 2019 in una lunga intervista di vita in video della durata di oltre quattro ore che è stata successivamente montata, suddivisa in sette scansioni cronologiche e caricata sulla piattaforma Youtube. Per favorire l’accesso all’intervista è stato quindi realizzato un apposito sito web (cerbairacconta.wordpress.com), dal quale è possibile anche scaricare una versione sintetica dell’intervista di poco più di un’ora.
È molto difficile se non impossibile individuare una fase saliente di questo lungo percorso di vita, in quanto in tutte le sue diverse fasi si ritrova lo stesso intreccio armonico tra universo affettivo, impegno politico e lavoro, segnato peraltro da una forte coerenza di fondo.
Ciò che cambia nel tempo sono gli scenari, raccontati con viva partecipazione emotiva e con ricchezza di particolari. Scenari molteplici e articolati ma che possono essere ricondotti a quattro fondamentali: la dura campagna mugellese della famiglia, dell’infanzia e degli anni della prima adolescenza, la Firenze della frequentazione della Madonnina del Grappa fino al compimento degli studi universitari, la vita di fabbrica a Pisa fino ai primi anni Novanta e infine l’impegno politico nel territorio, cioè nel quartiere e in città, prevalente negli ultimi decenni. Questi scenari si articolano poi internamente e si sovrappongono tra loro, come nel caso dell’impegno politico e di quello sindacale, entrambi intensi soprattutto a partire dal Sessantotto, oppure, più indietro nel tempo, come nel caso della vita all’interno della Madonnina del Grappa, dove la formazione scolastica e universitaria s’intrecciano con la vita dell’istituto ma anche con la vita politica fiorentina, fortemente segnata dalla presenza di grandi personalità del cattolicesimo progressista.

Roma, manifestazione per la pace 1991

Figura impegnata in prima fila e al tempo stesso osservatore analitico e capace di ricostruire il contesto storico e politico, Cerbai restituisce in modo altrettanto dettagliato e preciso gli eventi personali e quelli collettivi: i difficili anni del dopoguerra, la Firenze di Giorgio La Pira e di Don Lorenzo Milani, il clima oppressivo della fabbrica degli anni Sessanta, l’imprevista e galvanizzante svolta del Sessantotto, che sconvolge sia la sfera politica che quella culturale, il robusto impegno sindacale nella fase ascendente degli anni Settanta e poi in quella del lento regresso degli anni Ottanta e Novanta, ma segnata dallo straordinario successo costituito dalla salvezza dell’impianto pisano e di tutti i suoi posti di lavoro, il parallelo emergere di un impegno di partito che pur nelle successive formazioni non verrà mai meno e gli darà la possibilità di trasporre l’ispirazione democratica di base ereditata da Don Milani e da La Pira dal consiglio di fabbrica alla presidenza del consiglio di circoscrizione.
Questa interpretazione tenacemente radicale dell’impegno pubblico prende infatti varie forme e si traduce nell’adesione a diverse sigle, dalla Cisl al Movimento politico dei lavoratori, da Democrazia proletaria a Rifondazione comunista, ma non tradisce l’ispirazione di fondo maturata negli anni dell’adolescenza all’incrocio tra cattolicesimo progressista e un socialismo non burocratico, ma al contrario anzitutto autogestionario.
La testimonianza di Guido Cerbai permette di ripercorrere anche le trasformazioni economiche e sociali che hanno via via segnato gli anni della ricostruzione, quindi del miracolo economico e poi degli ultimi decenni e di osservare da vicino figure come quella di Don Giulio Facibeni o quella di Don Lorenzo Milani, oltre ad altri protagonisti della sinistra politica e sindacale pisana e nazionale.

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BFS ISSORECO, Archivio della Federazione provinciale pisana di Democrazia Proletaria,
BFS ISSORECO, Carte «Consiglio di Fabbrica Guidotti»




La vicenda amianto alla Breda di Pistoia.

Raccontare la storia dell’amianto e del suo utilizzo in Breda ferroviaria non è possibile senza prima un breve cenno alle origini più antiche. I primi accenni all’utilizzo dell’amianto si trovano negli scritti di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), il quale ricorda gli schiavi impegnati nella produzione degli stoppini per le lampade, che per proteggersi usavano una sorta di mascherina di tela; negli scritti di Marco Polo, poi, in particolare ne «Il Milione», si leggono descrizioni delle sue proprietà ignifughe. Il nome amianto, infatti, significa «incorruttibile» ed è sinonimo di asbesto, «inestinguibile». Già questo ne evidenzia alcune delle caratteristiche fondamentali, che lo resero un materiale ideale per le produzioni industriali. Prodotto in fibre, il suo primo utilizzo nel settore manifatturiero fu nelle tessiture, ma è dal secondo dopoguerra, con l’esplosione dell’industrializzazione, che l’amianto si diffuse in maniera massiva in tanti settori grazie alle sue qualità di coibentazione e isolamento: dalla produzione di navi, aerei e materiale rotabile ferroviario, all’utilizzo nell’industria chimica e alla produzione di energia elettrica.

Nella produzione di materiale rotabile è importante ricostruire la vicenda di Pistoia, con la lunga vertenza che si è tenuta negli anni ’90 alla Breda ferroviaria per il riconoscimento dei benefici pensionistici legati all’amianto e la lunga vicenda penale per l’accertamento delle responsabilità dei dirigenti dell’azienda. La produzione di treni viene avviata a Pistoia nei primi anni del ‘900, con l’acquisto da parte delle «Officine San Giorgio» della carrozzeria di Aiace Trinci. Nel secondo dopoguerra l’azienda verrà poi acquistata dall’IRI, che ne manterrà la proprietà fino al 1968, quando verrà acquistata dalla «Società Breda Ferroviaria», a sua volta proprietà di un altro attore del sistema delle partecipazioni statali, l’«EFIM – Ente Partecipazioni e Finanziamento Industria manifatturiera»[1]. In questi anni si afferma con forza l’utilizzo dell’amianto «a spruzzo» per coibentare le carrozze dei treni.

Valter Bartolini, sindacalista Cgil recentemente scomparso, ha ricordato così quella fase: «Fino al 1979 e poi ancora un po’ a seguire venivano coibentate con l’amianto, cioè venivano sparati almeno 500 chili [di amianto, n.d.a] per carrozza di cui almeno un terzo non si appiccicava… cioè, usavano una specie di lanciafiamme che da una parte schizzava a pressione la colla e dall’altra l’amianto macinato, perché a fibra lunga non andava bene… lo dovevano macinare prima e lo sparavano. Probabilmente tra i 100 e i 150 chili per carrozza rimanevano nell’atmosfera. All’inizio lo facevano in un’area di produzione vagamente isolata… C’era questo telo di nylon e dietro ci spruzzavano le carrozze» (intervista effettuata a Pistoia l’8 novembre 2022).

Dalla metà degli anni ’80 la spruzzatura dell’amianto non sarà più il metodo standard per la coibentazione delle carrozze (seppure almeno fino al 1992 continuino ad essere utilizzati dei componenti in amianto), ma non sarà l’unico utilizzo dell’amianto in fabbrica. Il 1973 è l’anno dell’inaugurazione della nuova sede della Breda a Pistoia, dove sorge tutt’ora, in via Ciliegiole. Costruito con ampio uso di cemento-amianto, lo stabilimento sarà oggetto di una scoibentazione, effettuata nel 1987-’88 in maniera approssimativa: durante l’operazione, la polvere d’amianto cadeva direttamente sui reparti produttivi, causando anche un elevato inquinamento ambientale. Come ha detto Daniele Ferri, ex operaio Breda: «Lavoravano la notte, e noi la mattina si trovava i pezzi di eternit per terra… Mettevano una rete, per le cadute più che altro, ma la polvere girava, il tendone di nylon ‘unn’è che teneva la polvere… Noi ‘un si sapeva nulla, tant’è che la mattina appena si arrivava noi si pigliava la pistola a aria e si soffiava il banco che era pieno di questa polverina bianca…» (intervista effettuata a Pistoia il 1º febbraio 2023).

In questo quadro si inserisce la legge 257/1992 che mette al bando l’amianto in Italia, e che innesca anche in fabbrica la piena consapevolezza della sua pericolosità, non più considerabile come una questione generica di pericolosità delle «polveri», com’era definito fino ad allora. La norma richiedeva un’esposizione minima di almeno 10 anni all’amianto per poter usufruire dei benefici pensionistici, ovvero la possibilità di avere accesso alla pensione prima del tempo. Questa misura sottendeva ad una terribile verità: l’esposizione alla polvere d’amianto poteva, potenzialmente, accorciare il tempo di vita delle persone, delle lavoratrici e dei lavoratori. Ai sensi della normativa l’esposizione era comprovabile in pochi modi: era riconosciuta automaticamente qualora l’azienda fosse soggetta al pagamento dell’assicurazione supplementare dell’INAIL per l’asbestosi oppure in caso di insorgenza di malattie amianto-correlate, mentre, qualora non sussistesse almeno una delle due condizioni precedenti, era obbligatoria una dichiarazione dell’azienda che certificasse i periodi d’esposizione.

Nasce così la vertenza amianto alla Breda, che si lega a doppio filo anche al percorso di smantellamento delle partecipazioni statali che vedrà i lavoratori impegnati nella difesa dello stabilimento dal rischio della chiusura, poi evitata con l’acquisto da parte di Ansaldo di tutto il gruppo Breda da EFIM. Inizialmente, infatti, la direzione aziendale decide di non rilasciare le certificazioni, al fine di evitare possibili implicazioni penali per i dirigenti e il danno di immagine di identificare la Breda come «la fabbrica della morte», oltre a «boicottare» di fatto il prepensionamento di lavoratori in possesso di quelle professionalità necessarie a portare avanti il lavoro. Su queste stesse tematiche, alcuni anni più tardi, la direzione deciderà di inserirsi nel processo civile intentato dai lavoratori contro l’INAIL per vedersi riconoscere un’estensione dell’esposizione. Posizione contro la quale la Segreteria Provinciale della FIOM presentò un esposto in procura nel 1995, atto che segnò l’avvio dell’indagine «Breda» sull’amianto.

La vertenza per il riconoscimento dei benefici si concluderà, dopo numerosi scioperi e manifestazioni, con l’emanazione degli atti di indirizzo da parte del governo D’Alema, ideati dal Ministro Salvi dei Comunisti Italiani nel 2001. Non mancheranno però numerosi strascichi polemici in fabbrica: qui un sindacato autonomo, i CUB, assumerà il ruolo di contestatore della politica del centrosinistra. La critica verte sul fatto che se da una parte il governo aveva avviato i meccanismi che hanno garantito un parziale riconoscimento dei diritti dei lavoratori, mettendo fine al contenzioso nelle aule di Tribunale, dall’altra non seppe o non volle superare il vincolo dei 10 anni minimi di esposizione all’amianto, obiettivo realizzabile visti i numerosi atti parlamentari presentati dallo stesso centrosinistra. È interessante constatare come il malcontento verrà poi raccolto, nel 2004, dall’UGLM, sigla sindacale forte di un rapporto privilegiato con il nuovo esecutivo di centrodestra: questa rivendicherà una possibilità di colloquio riuscendo anche ad ottenere una rappresentanza nelle RSU aziendali, ma nonostante questo canale il Governo procederà poi allo smantellamento delle tutele minime previste dalla legge 257/1992.

Ancora maggior rilievo assume quanto avviene con la conclusione del processo penale, il capitolo pistoiese di quella che lo storico Enrico Bullian ha chiamato la «stagione dei processi». Il processo fu accompagnato da un’animata discussione negli organismi del Comune sulla possibilità di costituirsi parte civile in favore dei lavoratori, che vedrà prevalere il «no» alla costituzione con un voto di misura in Consiglio Comunale. Di grande rilievo fu anche una parallela trattativa sindacale per definire un rimborso per il danno alla salute dei lavoratori, rivolto anche ai familiari interessati, conclusa nel novembre del 2002 e oggetto di dibattito e strumentalizzazione da parte del sindacato autonomo e dell’UGL in fabbrica.

Il 1º giugno del 2004 viene finalmente emessa la sentenza, che scagiona tutti i dirigenti aziendali; negli stessi giorni il Congresso Nazionale della FIOM voterà compattamente per stigmatizzare l’ingiustizia della sentenza. L’esito processuale contraddiceva quanto avvenuto, ad esempio, a Napoli per la Sofer, in una vicenda analoga. Si tratta di un altro capitolo buio di quella «stagione dei processi», che a Porto Marghera e a Sesto San Giovanni, come a Pistoia, ha lasciato le morti senza colpevoli.

Nota
1. La produzione di treni resterà nel sistema delle partecipazioni statali fino al 2013, quando Ansaldobreda verrà venduta ad Hitachi Rail Italy. Negli anni ricordati si afferma la centralità dei lavoratori della fabbrica nella vita politica pistoiese. Proprio nel 1948, durante una manifestazione in solidarietà dei lavoratori della SMI, viene ucciso dalla Celere un lavoratore della «San Giorgio», Ugo Schiano, evento ricordato in un articolo di Stefano Bartolini su ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/fu-una-mattinata-tremendissima/




È bene che si vada via, ma però che si torni in Italia.

La Barbiera che vien di Francia è un canto tradizionale, di origine piemontese, conosciuto con alcune varianti più o meno in tutto il centro-nord d’Italia. La versione attestata sull’Appennino toscano parla di una donna che accetta di fare la barba ad un viandante, nel quale riconosce il marito rientrato dalla Francia solo dopo averlo rasato. La diffusione di questo motivo nell’Appennino toscano è provata dal fatto che gli alunni della scuola elementare di Piteglio (PT) la trascrissero, su dettato delle nonne, in un quaderno illustrativo realizzato per un progetto scolastico. Questi quaderni, oggi conservati alla Biblioteca Forteguerriana di Pistoia, rappresentano una fonte popolare di straordinaria originalità, che mostra quanto la migrazione rientrasse negli orizzonti tradizionali degli abitanti dell’entroterra toscano.

All’inizio del Novecento, la Francia rappresentava la mèta europea più frequentata dai migranti italiani, e per alcune regioni la prima destinazione in assoluto. Nel caso della Toscana (come del Piemonte e della Liguria), questa migrazione di massa si era innestata sulle rotte migratorie risalenti all’età moderna, percorse da stagionali e ambulanti, che sino all’Unità d’Italia avevano rappresentato i principali esempi di presenza italiana oltralpe. Dei 21.971 toscani partiti nel 1900, ben 10.571 erano diretti in Francia. L’attrattività di questo paese aumentò dopo la Prima guerra mondiale: nel 1921 il 78% degli emigranti toscani si dirigeva in Francia e tale percentuale giunse al 92% nel 1925, dopo la chiusura delle rotte transatlantiche.
La guerra aveva arrestato le partenze per qualche anno, ma anche posto le basi per una massiccia ripresa: in Francia, la mancanza di crescita demografica e la costante carenza di manodopera erano state aggravante dalle ingenti perdite umane sul fronte occidentale, mentre l’industrializzazione ormai avviata rendeva necessario un costante afflusso di lavoratori stranieri. La storiografia ha evidenziato recentemente il ruolo della Grande guerra come incentivo per una regolamentazione dei movimenti di lavoratori tramite canali diplomatici. Il Commissariato generale dell’emigrazione (CGE) era stato fondato nel 1901 e aveva esteso via via le proprie funzioni; nel 1915 fu incaricato di approvare le richieste di reclutamenti di manodopera dall’estero e di rilasciare nullaosta per le richieste di espatrio, divenendo di fatto «organismo competente» per il disciplinamento dei reclutamenti. Dopo la guerra, il Trattato di lavoro Italia-Francia del 30 settembre 1919, equiparava i lavoratori italiani ai francesi in merito all’accesso alle tutele sociali e previdenziali; a livello pratico, era previsto che il Servizio manodopera straniera presso il Ministère du Travail raccogliesse le richieste e le relative proposte contrattuali e le trasmettesse al CGE, il quale, valutatane la liceità, attivava i canali di reclutamento locali.

Il caso di Piteglio dimostra che questo canale di reclutamento fu talvolta utilizzato da alcuni migranti giunti individualmente nel bacino minerario del Nord della Francia, che riuscirono a servirsene per richiamare amici e parenti.
Il comune di Piteglio si trova sull’Appennino pistoiese, a nord della Val di Nievole, a pochi chilometri dalla provincia di Lucca e a quasi 700 metri sul livello del mare, mal collegato con la pianura e dunque troppo distante dall’agglomerato industriale in via di sviluppo sull’asse Firenze-Prato-Pistoia. L’abitato sparso tipico dell’Appennino comportava l’inclusione nell’ente comunale, oltre al borgo di Piteglio, di diverse località, come Popiglio, Calamecca, La Lima e Prataccio, per una popolazione totale di 4.761 abitanti secondo il censimento del 1921, il primo a registrare un calo demografico che non si sarebbe più arrestato. Ad eccezione della Società Metallurgica Italiana a Campotizzoro, il comparto industriale era praticamente inesistente e la scarsità di entrate provenienti dalle professioni tradizionali, legate allo sfruttamento del bosco e alla raccolta delle castagne, esponevano da tempo l’Appennino pistoiese alla migrazione stagionale.
Il quaderno realizzato dagli alunni della scuola elementare di Piteglio fu prodotto nel 1929 insieme ad altri 362, provenienti dalle scuole del circondario, nell’ambito del progetto La scuola in mostra, lanciato in occasione dell’istituzione della provincia di Pistoia. Con qualche differenza, i quaderni rispondono tutti allo stesso schema dettato dall’insegnante: la storia del paese, le sue caratteristiche geografiche, la piazza, la chiesa, la popolazione e il folklore.
L’emigrazione è una costante nella descrizione dei borghi della montagna, mentre è spesso assente nei quaderni dedicati a comuni di pianura, ad esempio Quarrata; la sua presenza fra gli orizzonti culturali della comunità appenninica è provata anche dalle filastrocche, come era appunto La barbiera che vien di Francia, o Il carbonaio, il cui mestiere «Venire e andare è tutto un via vai». Qualcuno aveva spiegato ai bambini che le risorse della montagna «non basta[no] al mantenimento di tutti, perciò c’è bisogno dell’emigrazione. Senza contar quelli che fanno ogni anno la migrazione nella Maremma, molti àn sic trovato lavoro nelle miniere della Francia del Nord o alle macchie dell’alta Marna. […] Anche quelli che vanno nell’America del Nord son minatori, mentre quelli che vanno nel Brasile sono boscaioli».

L’influenza delle politiche del regime in materia migratoria è presente anche in una fonte così periferica: i piccoli cittadini di Piteglio scrivevano che «è bene che vanno a guadagnare. Arricchisce la famiglia e quei soldi vanno spesi in Italia. È bene che si vada via ma però che si ritorni in Italia». Nei quaderni non mancano i grafici recanti dati demografici sui nati, i morti e le partenze: il 1921 risulta l’anno in cui l’emigrazione toccò picchi particolarmente alti, sono indicate 254 partenze dal solo borgo capoluogo, a dispetto di 90 nel 1920 e 72 nel 1922; 42 dalla frazione di Prataccio, contro le 15 nell’anno precedente e le 12 nel successivo. Nel censimento del 1931 il comune di Piteglio aveva perso il 20% della popolazione rispetto al censimento di dieci anni prima e 1.273 pitegliesi risultavano stabilmente residenti all’estero.
Ritroviamo buona parte dei pitegliesi espatriati nel comune di Fenain, nel Nord della Francia: la ragione di questo trasferimento potrebbe sembrare una richiesta di manodopera al sindaco del comune proveniente dalla Compagnia delle miniere di Aniche, attiva nello sfruttamento dei pozzi di estrazione del bacino carbonifero del Nord-Pas-de-Calais.
L’Archivio storico comunale conserva la corrispondenza in merito tra il sindaco e il sottoprefetto. Un incrocio con i dati contenuti nello Stato civile dimostra che quando le miniere di Aniche si rivolsero al sindaco avevano già alle proprie dipendenze alcuni pitegliesi, arrivati prima della guerra e interessati a farsi raggiungere da amici e parenti. I documenti reperiti ci dicono ad esempio che Giovanni Picchiarini giunse a Fenain con la moglie nel 1911 e che i fratelli Giuseppe ed Eugenio Ferrari lavoravano per la compagnia già nel 1912. Dopo la guerra, tra il 1919 e il 1920 migrarono nel Nord anche i fratelli di Picchiarini e i cognati, Luigi e Orlando Pacini, fratelli della moglie.
La richiesta di manodopera giunse al sindaco alla metà del 1921, momento dell’aumento delle partenze dal borgo appenninico registrato dai piccoli pitegliesi. Non ci è possibile stabilire precisamente il numero di espatri dal comune alla regione mineraria francese, tuttavia negli anni Trenta le fonti di polizia individuano circa una cinquantina di minatori, stabiliti in Francia con le proprie famiglie da diversi anni. Lo Stato civile del comune permette di dire con certezza che una decina di famiglie espatriarono in diversi momenti tra il 1922 e 1929, secondo una prassi ben nota alle dinamiche migratorie: prima gli uomini, in un secondo momento i fratelli minori, le mogli e i figli. Ad esempio, a Pietro e Bruno Orsucci si unirono prima il fratello Renato, poi Duilio e nel 1928 il padre Silvio, con l’omonimo nipotino, rimasto orfano.
È verosimile supporre che l’attivazione del canale di reclutamento ufficiale nel 1921 volesse regolarizzare una filiera migratoria spontanea. Alcuni pitegliesi giunsero nella corona mineraria Douai-Valenciennes per motivi contingenti e vi restarono, verosimilmente in considerazione del fatto che il carbone rientrava fra i propri orizzonti professionali. Una riconversione, dalla produzione di carbone dai boschi all’estrazione di tipo industriale, si rese senz’altro necessaria, ma la familiarità con il carbone appare la base per l’inserimento di questa comunità nella produzione industriale su scala europea. Il fatto poi che la richiesta di manodopera salti i canali ufficiali – Ministère du Travail e CGE – e giunga direttamente al sindaco, unita alla presenza pregressa di pitegliesi nel comune di Fenain, avvalla l’ipotesi che la richiesta di reclutamento sia stata mossa dai compaesani già stabiliti.
Le ragioni essenzialmente economiche alla base di questa migrazione si intrecciano e si sovrappongono a casi in cui è possibile evidenziare anche ragioni politiche, ovvero a militanti, nella gran parte dei casi socialisti, che preferirono trasferirsi per fuggire al montare dello squadrismo in Italia: la prefettura di Pistoia riferiva nel 1930 che tal Ardelio Cecchini fu «in passato un ardente comunista propagandista […] col sorgere del fascismo, per tema di rappresaglie, emigrò all’estero»; Federico Coppi «durante il periodo bolscevico fu accanito comunista e segretario della sezione del partito a Mammiano»; Egidio Seghi «prima del suo espatrio, malgrado la giovine età, professò apertamente sentimenti comunisti dimostrando palesemente la sua ostilità al regime».
Insomma, nella migrazione da Piteglio al Nord della Francia dei primi anni Venti, vi sono percorsi individuali per cui le ragioni puramente economiche sono completate dal pesante clima che si respirava nella penisola: l’inflazione, la crisi occupazionale, ma anche l’instabilità degli ultimi governi liberali, le agitazioni sociali e il vorticoso sviluppo del movimento fascista.
Una rapida analisi della migrazione da Piteglio all’indomani della prima guerra mondiale ha dunque offerto Spunti di riflessione in tre direzioni: il trasmutarsi dei mestieri e delle rotte migratorie risalenti all’età moderna in movimenti inquadrati nell’ambito degli Stati nazionali e del sistema di produzione industriale; la presenza di reti comunitarie, indispensabili al concepimento della mobilità, che negoziano con la normativa vigente per permettere gli espatri e i ricongiungimenti familiari; infine, il fatto che le rotte della migrazione economica siano servite anche per l’espatrio di militanti comuni che si sentivano minacciati dal fascismo, tematica di grande interesse che meriterebbe una maggiore attenzione storiografica

RIFERIMENTI ARCHIVISTICI

Biblioteca Forteguerriana, La scuola in mostra, quad. 106 Piteglio
Archivio storico comunale di Piteglio, Corrispondenza 1921, titolo XIII Esteri
Archives Departementales du Nord, Carte d’identités étrangers, 321 W 115579
Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, b. 1221, 1463, 4732