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Guerra aerea su Siena.

…Durante una mia udienza privata nel periodo “tedesco”, entrò emozionatissimo nello studio del Papa il prelato di servizio, recando copia di un telegramma: gli Alleati avevano bombardato Siena, danneggiando anche alcune importanti chiese della città. Pio XII ne fu ovviamente rattristato ma il tenore del messaggio gli sembrava strano nella penna di un arcivescovo (il bieco nemico, la perfida Albione e così via). Solo alla fine si svelò l’equivoco: il mittente non era l’arcivescovo Toccabelli, ma il segretario federale repubblichino della provincia toscana – se non ricordo male, si chiamava Chiurco – che non domandava benedizioni ma, più o meno, pregava il Pontefice di stramaledire gli inglesi…

 

Un curioso aneddoto quello ricordato da Giulio Andreotti nelle proprie memorie, in grado di riassumere in sé molte delle contraddizioni riguardanti la complessa vicenda dei bombardamenti aerei sulla città di Siena.

Caso particolare, quello senese, che vide il capoluogo e la provincia risparmiati dalle distruzioni delle bombe dal cielo fino alle ultime settimane del 1943, quando tutto intorno le città della Toscana e dell’Italia pagavano a caro prezzo l’impreparazione con la quale il regime fascista aveva portato in guerra il paese. Favorita da una posizione geografica defilata e da un numero ridotto di obiettivi strategici sul proprio territorio, Siena conservò la propria inviolabilità per tutta la prima parte del conflitto mondiale, ma da tale vantaggio nacque l’errata convinzione, condivisa tanto dagli abitanti quanto dalle autorità fasciste, che nessun ordigno sarebbe caduto all’ombra della Torre del Mangia. Fiducia mal riporta quella della cittadinanza, ingenuamente convinta che una sorta di protezione divina avvolgesse la città, i suoi monumenti e abitanti. Direttamente responsabili le autorità civili e militari, sostanzialmente inoperose fino alla fine del 1942 e conseguentemente colte impreparate dall’intensificarsi della guerra aerea sulla penisola italiana, cui tentarono di riparare avviando la costruzione di rifugi antiaerei spesso mai completati e comunque inadeguati a offrire una reale protezione ai propri avventori.

La caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la sua rinascita in veste repubblicana l’8 settembre seguente arrecarono ulteriori danni alla già improvvisata organizzazione antiaerea provinciale. I pochi militi prima presenti lasciarono la divisa e dovettero essere rimpiazzati; la costruzione dei ricoveri pubblici venne arrestata nella speranza che l’armistizio con gli Alleati significasse la fine del conflitto; le sirene di allarme, posizionate nei centri nevralgici della città per avvertire gli abitanti in caso di pericolo, non ricevettero la necessaria manutenzione e finirono per rompersi. I rappresentanti della nuova Repubblica Sociale Italiana, fondata da Benito Mussolini assieme ai suoi sostenitori più fedeli e retta dalle armi tedesche, riattivarono la rete di avvistamento attorno alla città istituendo nuove postazioni di osservazione in località sopraelevate e sulla Torre del Mangia; per allertare i cittadini in caso di pericolo, mobilitarono tamburini delle contrade e parroci delle chiese cittadine; per tranquillizzare una popolazione sempre più intimorita dalla minaccia dei bombardamenti, rinnovarono la donazione simbolica di Siena alla Madonna, come fatto in passato nei momenti più bui della secolare storia cittadina. Come ha scritto Nicola Labanca, «mentre la guerra si fa moderna e novecentesca, i fascisti di Siena rispond[evano] con il medioevo».

Gli Alleati, intanto, bloccati nella propria avanzata verso il Nord all’altezza del fronte di Cassino durante le ultime settimane del 1943, lanciavano nel gennaio 1944 una massiccia campagna di bombardamenti volti a disgregare le strutture di rifornimento tedesche.

In tale contesto si inseriva il ricordo di Andreotti, testimone della particolare richiesta di aiuto inviata al pontefice dal prefetto senese Giorgio Alberto Chiurco dopo il primo bombardamento subito dalla città il 23 gennaio 1944. Indirizzata nella zona della stazione ferroviaria, comunque mancata dagli ordigni, l’incursione aveva interessato i quartieri periferici a sud-est della città, producendo alcune decine di feriti e 25 vittime. La posizione decentrata dello scalo ferroviario, collocato in quella che allora era aperta campagna, fece sì che il lancio errato dei bombardieri non travolgesse il centro cittadino. Il rischio di nuove incursioni si dimostrò tuttavia concreto già il 29 gennaio, quando un nuovo attacco alleato portò alla distruzione della stazione centrale e al pesante danneggiamento del vicino aeroporto di Ampugnano.

Di fronte al pericolo di nuove incursioni sullo scalo ferroviario, prontamente riattivato per garantire il transito dei rifornimenti tedeschi verso Cassino, la scelta delle autorità fasciste repubblicane fu di provare la strada della diplomazia internazionale.

Richiamandosi alla Convenzione dell’Aja del 1907, tentarono così di far riconoscere a Siena la qualifica di città aperta, prevista per quelle località che non si fossero trovate in prossimità di obiettivi strategici di rilevanza militare e, soprattutto, che non avessero ospitato al proprio interno reparti combattenti. Preoccupato di mantenere il controllo su un territorio provinciale sempre più tenacemente contesogli dalle forze partigiane, il prefetto Chiurco aveva tuttavia accasermato nel capoluogo un numero crescente di truppe da impiegare nelle operazioni di controguerriglia, mentre i locali comandi germanici mantenevano il proprio posto nel centro cittadino o nelle sue prossimità, non consentendo peraltro alcuna deviazione del traffico ferroviario transitante dallo scalo senese.

In risposta al problema venne fatto ricorso alla non meglio precisata formula di “città ospedaliera”, promuovendo la versione di una Siena rifugio per profughi e malati – come in parte era – e priva al contempo di reparti armati, caserme, comandi militari, in realtà ancora presenti all’interno del territorio urbano e, anzi, destinati a crescere in numero nelle settimane successive.

Sbarrate le vecchie porte di accesso alla città, dipinte grandi croci rosse su fondo bianco nella piazza del Campo e sui tetti degli ospedali del centro, il caso di Siena fu portato all’attenzione della Santa Sede con la preghiera di interessare al riguardo i comandi angloamericani. Questi rilevarono tuttavia l’impossibilita di conferire qualsiasi riconoscimento alla città, a causa della sua funzione di collegamento tra il Nord e il Sud della Toscana e stante anche l’uso militare fatto dai tedeschi delle vicine linee ferroviarie e stradali. Pure le generiche rassicurazioni fornite circa la possibilità di salvaguardare i monumenti e i feriti presenti nel centro storico, sarebbero rimaste strettamente subordinate “all’azione che possa essere richiesta dalla situazione militare”, lasciando intendere che qualsiasi decisione sarebbe dipesa dall’evolvere del contesto bellico, che vedeva in quel momento i tedeschi impegnati a far affluire rifornimenti di armi e uomini verso il fronte, attraverso i collegamenti stradali e ferroviari della città. La comunicazione giungeva agli inizi di marzo.

Il perdurare dello stallo creatosi lungo la linea dei combattimenti, ancora ferma a Cassino nonostante il tentativo di sbarco attuato ad Anzio dagli Alleati alla fine di gennaio, aveva intanto contribuito a fare nuovamente di Siena un bersaglio dei bombardieri statunitensi.

Delle incursioni erano state condotte sulla città a gennaio e, poi, l’8 e il 16 febbraio, con la popolazione civile sempre più disperatamente aggrappata alla speranza in un buon esito delle trattative diplomatiche, che la stampa fascista presentava come ancora possibili. Dalle autorità di Salò, tuttavia, non furono intraprese iniziative in tal senso. Senza risposta rimasero anche gli appelli indirizzati dal prefetto Chiurco a Mussolini, per una presa di posizione pubblica in favore di Siena che non sarebbe mai arrivata.

Da parte loro, i comandi alleati ribadirono il 3 aprile che nessun riconoscimento sarebbe stato accordato a Siena, la cui rilevanza come centro di comunicazioni faceva sì che qualsiasi decisione al riguardo dovesse essere subordinata alle necessità militari del momento.

Mentre tutta la provincia era ormai interessata dall’azione dei cacciabombardieri statunitensi, Siena subiva l’11 aprile un nuovo, pesante bombardamento. Colpita e distrutta la stazione ferroviaria, anche le zone limitrofe di piazza d’Armi, dell’Antiporto e porta Camollia furono investite dai lanci dei bombardieri. Se i residenti in prossimità di Camollia poterono rifugiarsi nel ricovero costruito sotto la porta – peraltro con criteri che lo rendevano inadatto a resistere all’urto dei pesanti ordigni utilizzati dagli americani – quelli della zona di piazza d’Armi e della stazione non ebbero altre alternative se non disperdersi nelle vicine campagne. I morti furono almeno 13, i feriti una quindicina. Le squadre di primo soccorso, prive di equipaggiamento e mezzi meccanici, continuarono a scavare tra le macerie dello scalo ferroviario fino al sopraggiungere della notte per trarre in salvo i civili rimasti imprigionati.

Un nuovo attacco il 14 aprile seguente procurava la distruzione del deposito locomotive e nuovi danni a ciò che restava della stazione.

Quelli che sarebbero rimasti impressi nella memoria locale come gli ultimi bombardamenti aerei su Siena confermarono il fallimento del progetto della cosiddetta “città ospedaliera”, rivelatosi strumento propagandistico utile a tranquillizzare la popolazione civile e distoglierne l’attenzione dai gravi problemi attanaglianti la sempre più traballante struttura di governo fasciata, pressata dalle insistenti richieste dell’alleato-occupante tedesco, indebolita dai contrasti interni al fascismo repubblicano, screditata dai successi militari dei partigiani nelle campagne.

Nel maggio seguente, l’imponente offensiva delle forze alleate sfondava infine le difese tedesche sulla linea di Cassino. Mutato il contesto bellico e concretizzatasi la prospettiva di una rapida avanzata verso Nord, gli Alleati non portarono nuovi attacchi alla stazione ferroviaria senese, il cui utilizzo si rivelava adesso fondamentale per l’afflusso di uomini e materiali verso l’Italia settentrionale. Sarebbero stati al contrario i guastatori tedeschi, prima della ritirata, a distruggere i pochi vagoni e binari sopravvissuti alle incursioni aeree dei mesi precedenti, lasciando Siena e i suoi abitanti nella condizione di dipendere dai rifornimenti alleati per la propria sopravvivenza.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Giulio Andreotti, A ogni morte di Papa. I Papi che ho conosciuto, Rizzoli, Milano 1980;

Claudio Biscarini, Bombe su Siena. La città e la provincia nel 1944, Del Bucchia, Massarosa 2008;

Michelangelo Borri, La guerra aerea su Siena. Misure difensive, bombardamenti, iniziative diplomatiche, Il Leccio, Monteriggioni 2019;

Nicola Labanca (a cura di), I bombardamenti aerei sull’Italia: politica, stato e società (1939-1945), Il Mulino, Bologna 2012.




Il nuovo inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea

Nelle prossime settimane sarà presentato al pubblico il nuovo Inventario dell’Archivio dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’Età contemporanea – ISREC (consultabile qui), realizzato con il patrocinio del Ministero della Cultura, e già disponibile e scaricabile in formato PDF dal sito istituzionale, nella sezione ‘Archivio e Biblioteca’. Questo testo nasce dall’esigenza di aggiornare e dare una nuova forma a quello che era stato redatto al momento della catalogazione curata da Antonietta Cutillo e Cecilia Rosa nel 1999. Da allora l’Archivio dell’ISRSEC ha acquisito nuova documentazione e preso in deposito diversi fondi archivistici di persona, donati dai diretti interessati o da eredi, e catalogati via via da Aldo Di Piazza e da altri collaboratori dell’Istituto, in singoli file di lavoro, disponibili presso la Sala studio dell’Ente. Il progetto iniziato tra la fine del 2022 ed il 2023, si è prefisso lo scopo di compiere una revisione di tutti questi cataloghi, frutto del lavoro di mani diverse, ed elaborati in tempi diversi, al fine uniformare il testo e di ottenere uno strumento di ricerca completo ed esaustivo, ma di facile lettura per l’utente che fosse interessato a compiere ricerche all’interno del vasto materiale che compone l’Archivio storico dell’Istituto.

Il risultato è un inventario che si compone della descrizione dei documenti raccolti dall’ISREC nel corso della sua attività, prevalentemente materiali, in originale ed in copia, relativi agli eventi che hanno interessato Siena durante il Governa fascista, la Seconda Guerra Mondiale e la lotta di Resistenza partigiana; la serie che risulta senz’altro essere quella più consistente, è quella che raggruppa la documentazione prodotta dalle Brigate partigiane e dei Gruppi di combattimento, in particolare quella relativa all’attività della Brigata Garibaldi “Spartaco Lavagnini”, operante con i suoi distaccamenti in buona parte della provincia senese. Il catalogo passa poi a descrivere gli archivi aggregati, come ad esempio quelli che raccolgono i documenti relativi all’attività dell’ANPI, a partire dal 1945, e dell’ANPIA, ma soprattutto archivi di persona. Questa sezione è ampia e composita: alcuni fondi raccolgono poche carte specificatamente legate alla Resistenza e all’attività politica – come quelli di Giorgio Salvi e di Giovanni Guastalli –, altri molto consistenti raccontano anche la vita privata e lavorativa dei loro produttori. Così incontriamo, uno dopo l’altro, gli archivi personali del libraio ed editore senese Nello Ticci, di Vittorio Meoni – unico sopravvissuto all’eccidio del Montemaggio, ma anche presidente per molti anni dell’Istituto Storico della Resistenza Senese e dell’ANPI provinciale di Siena –, di Sergio Vieri – partigiano e in seguito esponente del Partito Comunista Italiano e dirigente della CGIL –, di Martino Bardotti – Deputato della Repubblica sotto le fila della Democrazia Cristiana –, e di Fortunato Avanzati – partigiano, presidente dell’ANPI provinciale di Siena, assessore al Comune di Siena e membro della Segreteria della Federazione senese del PCI. I documenti raccolti in questa serie di archivi aggregati sono variegati e ricchi di contenuti; lo studio e l’approfondimento di questi materiali possono fornire allo studioso della storia contemporanea del territorio senese – e non solo- ampi spunti di indagine.

Questo nuovo strumento di ricerca, al momento consultabile unicamente in formato digitale, ha lo scopo di guidare il ricercatore a comprendere la quantità di tematiche diverse, che è possibile approfondire con lo studio attento di questi documenti, e di dare conto della consistenza e di una sintetica descrizione dei contenuti, per un primo approccio dell’utente all’Archivio. Una guida insomma, che non ha l’intento di descrivere analiticamente, carta per carta, tutto quello che si conserva presso l’Istituto storico della Resistenza senese, ma di invogliare gli studenti delle scuole, gli universitari, gli studiosi che si occupano della storia recente di questo territorio, a visitare questo archivio così ricco di informazioni, che raccontano episodi, più o meno noti, del nostro recente passato.




Giorgio Alberto Chiurco: un intellettuale militante nel regime fascista.

Giorgio Alberto Chiurco (1895-1974) è noto soprattutto come cronista ufficiale della rivoluzione fascista, autore di una delle più celebri opere edite sul tema negli anni del regime mussoliniano. Nato a Rovigno d’Istria ma trasferitosi presto in Toscana per motivi di studio, egli fu uno dei protagonisti della fascistizzazione delle province senese e grossetana. Ma non solo: medico e squadrista della prima ora, poi parlamentare, ufficiale pluridecorato, docente universitario e scienziato razzista, Chiurco fu un attore molto attivo nella vita politica e intellettuale del regime. Finora, il suo percorso biografico era stato soltanto parzialmente esplorato dalla storiografia ma il volume di Borri, esito di un’approfondita ricerca negli archivi nazionali e internazionali, si propone di fornire una ricostruzione complessiva delle vicende politiche e culturali del personaggio, che si intrecciano su più livelli con la storia italiana del Novecento.

Riportiamo di seguito un estratto del volume, dedicato al ruolo svolto da Giorgio Chiurco, come medico e intellettuale fascista, nella creazione di un nuovo prototipo di italiano, il cosiddetto «Uomo Nuovo» fascista inteso come modello di un’umanità superiore, destinata a fare le fortune dell’Italia e del regime.

 

Un intellettuale militante

V’è una cultura della rivoluzione che si esprime attraverso la polemica pubblicistica di uomini come Maccari e Malaparte. Ve ne è un’altra che parla per anatemi e per invettive ma che, andando al sodo, serve unicamente nei momenti di pericolo […]. V’è, infine la cultura della rivoluzione che ha avuto per cronisti Gorgolini e Chiurco, e che ha per storici Volpe ed Ercole. La prima cultura, della polemica pubblicistica, impedisce che le porte della rivoluzione si chiudano […]. La seconda cultura, quella degli oltranzisti, è sempre richiamabile in servizio, al primo segno del temporale. La terza cultura, quella dei cronisti della rivoluzione, rimane l’anima di ogni processo storico da istruirsi a carico di quei nemici che, rimasti nascosti durante il nostro cammino, tentano di uscire allo scoperto per sbarrarci, al momento che sembrerà loro opportuno, la strada.

Era in questi termini che Mussolini descriveva a Yvon De Begnac[1] l’attivismo politico racchiuso nell’opera degli intellettuali fascisti. Chiurco trovava posto nel gotha culturale fascista non tanto per meriti scientifici, ma come cronista del periodo rivoluzionario, a dimostrazione della forte impronta ideologica che ne caratterizzò il lavoro, come pure della pluralità di ambiti su cui tale operato si estese. L’eclettismo dell’istriano può leggersi come riflesso del pluralismo culturale sperimentato dal regime, inteso come sovrapposizione fra correnti e programmi diversi nei campi delle arti e della scienza, destinati però a convergere nella mobilitazione in favore della rivoluzione fascista.[2] La celebrazione totalitaria del primato della politica su ogni espressione della vita delle masse rappresenta probabilmente la sintesi più efficace per spiegare tale pluralità, senza con questo voler ridurre la cultura fascista alla sua sola funzione strumentale.[3]

Mario Isnenghi distingueva tra intellettuali militanti, produttori di senso, e intellettuali funzionari, organizzatori e propagandisti, rinviando alla funzione svolta dagli attori culturali nella società fascista. L’attenzione di Isnenghi non era rivolta alla sola conoscenza alta, ma all’organizzazione culturale latamente intesa, comprendendo quindi insegnanti, giornalisti, oratori i quali, per motivi e in modi diversi, portarono la dottrina fascista tra le masse.[4] Le convergenze e sovrapposizioni riscontrabili tra tali figure e funzioni,[5] lungi dallo sminuirne l’efficacia, riconfermano la pluralità di livelli su cui si mossero gli agenti culturali del fascismo, seppur all’interno della cornice tracciata dal regime. Anche intellettuali intransigenti come Chiurco, contrari a mediazioni che limitassero la forza rinnovatrice fascista, distinsero la propria attività per un doppio crisma culturale e politico, conoscendo convergenze e divergenze rispetto alle correnti dominanti.[6] Non ci sono soltanto opportunismo e spirito conformista nelle proposte del medico istriano, pronto a formulare idee e difendere le proprie posizioni, se ritenute meritevoli, anche quando difformi dagli orientamenti del regime. A rendere Chiurco un intellettuale militante, nel significato più letterale del termine, è la natura totalizzante della sua adesione al regime, che ne fa uno scienziato, medico e autore vissuto nel fascismo e del fascismo, criticandone talvolta decisioni e orientamenti, ma condividendone il progetto complessivo.

La produzione letteraria dell’istriano può essere ricompresa nelle due macrocategorie degli scritti scientifici e delle opere a carattere cronistico-letterario dedicate al fascismo rivoluzionario e ai suoi martiri. Una distinzione – come vedremo – comunque non priva di punti d’incontro, riflesso tanto del ricordato eclettismo dell’autore, quanto del progressivo prevalere del Chiurco politico rispetto allo scienziato. Gli scritti razzisti degli anni Trenta, piegati alle necessità della pseudoscienza di regime, sono in tal senso indicativi della politicizzazione di tutta la produzione letteraria dell’istriano, il quale appartenne alla cosiddetta «industria culturale» tratteggiata da Gabriele Turi, formata dall’insieme degli intellettuali di regime. Al centro di tale produzione, indipendentemente dalle singole aree di interesse, rimasero sempre la costruzione dello Stato nuovo e di una nuova generazione di italiani, i «fascisti integrali» evocati da Mussolini.[7] Il concetto dell’italiano nuovo ricorre tanto negli scritti scientifici, quanto nella produzione cronistico-letteraria del medico istriano, sempre attento a temi quali l’educazione dei giovani, lo sport, l’eugenetica, la salvaguardia della sanità razziale.

Nell’ottica del regime, le nuove generazioni dovevano essere innanzitutto numerose, in salute e fisicamente prestanti, motivo per cui la medicina divenne una pratica «con etichetta nazionalistica e marchio fascista», come scritto da Giorgio Cosmacini.[8] Il regime sottopose la disciplina all’influenza dell’autorità politica, facendo dei medici i “sacerdoti” del progetto mussoliniano di ingegneria sociale, incaricandoli di salvaguardare la salute fisica e morale della popolazione, di «abituare gli italiani al moto, all’aria libera, alla ginnastica ed anche allo sport».[9] Nel 1921, Chiurco vedeva negli squadristi i protagonisti di una nuova era, «gli eletti, gli aristocratici del pensiero e dell’azione predestinati al comando da Dio e dalla patria». Per un corretto sviluppo dei giovani risultava fondamentale la «forza, equilibrio, volontà, disciplina che solo una razionale educazione fisica può dare».[10]

L’evoluzione del concetto di uomo nuovo ricalca nel pensiero di Chiurco la cronologia tracciata da Emilio Gentile, per cui a cavallo tra gli anni Venti e Trenta l’attenzione si concentra sul potenziamento fisico e demografico della popolazione, con l’emergere dell’imperialismo e del razzismo quali fattori di rilievo nel dibattito. Nel Manuale di cultura fascista del 1930, l’autore inseriva le politiche demografiche tra «i principi basilari del Fascismo nei riguardi della tutela fisica e morale della razza», vedendo nella crescita della popolazione «uno dei mezzi più efficaci per la sua valorizzazione ed espansione materiale e spirituale nel mondo».[11] Al numero doveva seguire la qualità, assicurata dallo sviluppo di qualità fisiche e mentali, favorite da politiche volte ad «accrescere la validità, l’energia e la resistenza morale e fisica del giovane», facendone un «cittadino soldato» e un cittadino-produttore.[12] Con la proclamazione dell’impero alla metà degli anni Trenta, alla formazione delle nuove generazioni si aggiunse il problema della loro protezione dal rischio di incroci genetici con le popolazioni indigene, la mescolanza con le quali rappresentava «sia per ragioni sanitarie e biologiche, che per la dignità della razza, un grave pericolo per il popolo italiano colonizzatore». Per questo motivo, diventava «un dovere della nostra dignità imperiale» la «formazione di una coscienza razziale per difendere la razza italica da qualsiasi imbastardimento», ricorrendo a leggi che «impediscono il mescolamento di italiani con indigeni».[13]

Al problema della preservazione si affiancava quello dell’educazione. Per questo motivo, il regime varò dagli anni Venti quello che Luca La Rovere ha definito «il più importante esperimento di pedagogia politica di massa mai tentato nella storia nazionale italiana».[14] L’educazione morale doveva riguardare il senso di disciplina e la fedeltà all’idea, per cui sui fascisti, secondo i postulati di Arnaldo Mussolini, incombeva «il dovere di essere, nella vita nazionale, sempre i primi, vigili contro gli avversari» ma anche pronti «a volgarizzare i postulati», a «tesserli ed a viverli nelle manifestazioni di ogni giorno».[15] Fascismo, aggiungeva Chiurco, significava «soprattutto spirito di abnegazione ed assoluta e cieca disciplina», poiché «il fascista deve essere in prima linea puro e senza macchia».[16] Nei manuali scolastici curati tra il 1930 e il 1934, l’istriano dedicò ampio spazio ai «doveri del cittadino verso la famiglia e verso la patria», sostenendo che ogni buon italiano «sentirà, e praticherà, prima di ogni altro, il dovere dell’ordine e della disciplina», poiché «dall’uno e dall’altra scaturiscono il rispetto delle leggi, il sentimento della gerarchia, l’ossequio all’Autorità».[17]

È infine evidente l’intento educativo della Storia della rivoluzione fascista. Non a caso, Mussolini medesimo, nel proprio Invito alla lettura, incluse tra i principali destinatari dell’opera «i giovani delle più fresche generazioni», che attraverso l’opera «impareranno a venerare i segni del Littorio e a rispettare i veterani che fecero la Guerra e la Rivoluzione».[18] La funzione didattica della Storia fu sottolineata da numerose riviste del tempo, con Carlo Capasso che la definì «una vera scuola per le generazioni nuove»,[19] mentre il periodico del ministero della Pubblica Istruzione, Accademie e Biblioteche d’Italia, inserì i volumi del Chiurco tra le opere che «inizieranno il giovine alla meditazione degli avvenimenti storici».[20] Pure i fuoriusciti antifascisti intuirono l’intento pedagogico di quella che definirono «una storia del fascismo ad uso dei balilla», e pur criticando l’opera e lo stile prolisso dell’autore, riconobbero come il poter disporre di «un’organizzazione di massa, inquadrata da migliaia di cavalier Chiurco» costituisse un punto di forza dell’Italia mussoliniana.[21]

Tramite l’apparato propagandistico fascista, la Storia divenne un testo importante per il progetto di rinnovamento nazionale, una presenza immancabile tra gli scaffali di biblioteche, circoli di lettura, scuole di ogni grado e tipologia, nonché dono per gli studenti che maggiormente si fossero distinti nell’apprendimento, i quali «nell’esempio dei pionieri della rigenerazione della patria» avrebbero trovato «i migliori esemplari per la loro formazione spirituale».[22]

 

[1] F. Perfetti (a cura di), Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 402-3.

[2] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2011, p. 225.

[3] E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2008 (ed. orig. 1995). In generale, R. Ben-Ghiat, La cultura fascista, Il Mulino, Bologna 2000.

[4] M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Einaudi, Torino 1979.

[5] S. Luzzatto, The Political Culture of Fascist Italy, in Contemporary European History, vol. 8, 2, 1999, p. 322.

[6] A. Tarquini, Storia della cultura fascista, cit., pp. 86-89, 228-29.

[7] G. Turi, Lo Stato educatore. Politica e intellettuali nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 21. Sul tema, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 235-64; P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo. La costruzione di un progetto totalitario, Viella, Roma 2017.

[8] G. Cosmacini, Medici e medicina durante il fascismo, Pantarei, Milano 2019, p. 65. In riferimento al ruolo dei medici nel regime, R. Maiocchi, Scienza e fascismo, Carocci, Roma 2004, pp. 140-54.

[9] Discorso ai medici del novembre 1931, in E. e D. Susmel (a cura di), Opera Omnia, vol. 25, La Fenice, Firenze 1956, pp. 58-62. Circa la funzione educatrice dello sport, P. Dogliani, Educazione fisica, sport nella costruzione dell’«uomo nuovo», in P. Bernhard, L. Klinkhammer (a cura di), L’uomo nuovo del fascismo, cit., pp. 143-55.

[10] Lo squadrista incarnò il mito fascista dell’italiano nuovo, E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 245-48. Per le citazioni cfr. L’inchiesta fascista sui fatti di Roccastrada, in L’Era Nuova, 30 luglio 1921; Fascismo ed educazione Fisica, in La Scure, 24 giugno 1922.

[11] G.A. Chiurco, Manuale di cultura fascista, Morano, Napoli 1930, pp. 89-90.

[12] Id., L’educazione fisica nello Stato fascista. Fisiologia e patologia chirurgica dello sport, San Bernardino, Siena 1935, p. 7. Il modello di “cittadino-soldato” è posto al centro della pedagogia totalitaria del regime dalla seconda metà degli anni Venti.

[13] Id., La sanità delle razze nell’Impero italiano, Istituto Fascista dell’Africa Italiana, Roma 1940, pp. 1049-50.

[14] L. La Rovere, Totalitarian Pedagogy and the Italian Youth, in J. Dagnino, M. Feldman, P. Stocker (a cura di), The “New Man” in Radical Right Ideology and Practice. 1919-1945, Bloomsbury Academic, London 2018, p. 21. La traduzione è mia.

[15] A. Mussolini, Fascismo e civiltà, Hoepli, Milano 1937, pp. 134-35.

[16] G.A. Chiurco, Comandamento del fascista: onestà e disciplina, in Il Popolo Senese, 3 gennaio 1929.

[17] Id., Elementi di cultura fascista, Morano, Napoli 1934, p. 94.

[18] B. Mussolini, Invito alla lettura, in G.A. Chiurco, Storia della rivoluzione fascista, vol. 1, Vallecchi, Firenze 1929, pp. VII-VIII.

[19] C. Capasso, Storia della rivoluzione fascista di G.A. Chiurco, in Bibliografia fascista, 7, 1929, pp. 1-3. Capasso fu docente scolastico, studioso di didattica e professore universitario.

[20] G. Ruberti, Libri per una vita intera, in Accademie e Biblioteche d’Italia, 1, 1929, pp. 50-58.

[21] S. T., Una storia del fascismo ad uso dei balilla, in Lo Stato Operaio, 8, 1929, pp. 706-11.

[22] La citazione è di Ruggero Romano, deputato fascista dal 1924 al 1939, durante una cerimonia ufficiale a Noto, cfr. C. Sgroi (a cura di), R. Liceo-Ginnasio «A. Di Rudinì» di Noto. Annuario Scolastico 1929-1930, Studio Editoriale Moderno, Catania 1931, p. 22.




Vittorio Meoni, testimone e storico della Resistenza

Il 10 dicembre 2022 ricorre il centenario della nascita di Vittorio Meoni. Unico sopravvissuto all’eccidio fascista di Montemaggio, Vittorio è stato a lungo il nome più rappresentativo della Resistenza nel senese e in particolare nella Valdelsa. La storia della sua fuga drammatica e rocambolesca, gravemente ferito, mentre reparti della GNR stavano per fucilarlo insieme a 19 altri giovanissimi partigiani dopo un rastrellamento il 28 marzo 1944, ha circolato come una sorta di epos popolare. Le immagini della sua deposizione al successivo processo, in cui protende un dito ammonitore, sono state in questi territori il principale emblema di un più complessivo j’accuse contro il regime e le sue violenze.  Vittorio è stato il testimone per eccellenza della Resistenza senese: e il ruolo di eroe popolare ha segnato l’intera sua esistenza.  D’altra parte, possiamo anche considerare Vittorio come la prova vivente di una congiunzione tra memoria e storia, due dimensioni della rappresentazione del passato che per molti sarebbero antitetiche e incompatibili. Infatti, malgrado l’ingombrante peso memoriale che si porta addosso e che sembra condannarlo a recitare il personaggio di storie quasi mitiche, Vittorio diventa col tempo egli stesso storiografo. Il punto di svolta della sua carriera è la pubblicazione nel 1975 della Memoria su Montemaggio, un agile libriccino nel quale decide di raccontare in proprio la vicenda dell’eccidio. Lo fa non abbandonando la prima persona testimoniale,  ma utilizzando e comparando le fonti, e soprattutto con un tono disteso e quasi distaccato, abbandonando del tutto la retorica fatta di “infamia” e “gloria” che aveva caratterizzato i primi racconti postbellici degli eccidi e delle vicende partigiane (Smeraldo Amidei, Infamia e gloria in terra di Siena durante il nazi-fascismo, Siena, Cantagalli, 1945; ANPI, Partigiani alla sbarra, Siena, La Poligrafica, 1948). Non so quante copie siano state stampate di Memoria su Montemaggio nel corso degli anni: ma certo il libro ha una diffusione capillare in Valdelsa, è praticamente entrato in tutte le case, segno tangibile di un antifascismo che si è respirato come l’aria in queste zone di subcultura rossa (oggi la situazione è più complessa: la subcultura rossa non c’è più da un pezzo, e la permanenza dell’antifascismo come valore unificante sarebbe da verificare). Da allora in poi, per Vittorio Meoni è iniziata una sistematica attività storiografica, che investe altri episodi della resistenza (Una vittoria partigiana: Monticchiello 6 aprile ’44, Siena 1978), delle lotte contadine (Gli scioperi del 1902 in Valdichiana, Montepulciano 1989) e della Liberazione (Verso la liberazione, con P. Paoletti e C. Biscarini, Siena 1994). Ma soprattutto, all’inizio degli anni ’90, Vittorio fonda l’Istituto storico della Resistenza senese e si dedica anima e corpo alla costruzione e alla trasmissione di una cultura storica alle generazioni più giovani. Al centro di questo progetto sta in particolare il recupero e l’allestimento come Laboratorio didattico di Casa Giubileo, il luogo sul Montemaggio in cui è avvenuto l’eccidio. Nei numerosissimi incontri con ragazze e ragazzi delle scuole, Vittorio era al tempo stesso personaggio-eroe, testimone e professore. La logica memoriale non si contrapponeva alla conoscenza critica propria della storiografia, ma semmai la fecondava. Da qui un atteggiamento sempre aperto verso il progredire della conoscenza storica: Vittorio non ha mai difeso le narrazioni dogmatiche e monumentali: si rendeva ben conto che l’antifascismo non può che poggiare sulla ricerca della verità. Negli anni 2000 ha portato avanti un altro suo personalissimo progetto: ha ricostruito la storia della distruzione e espropriazione della Casa del Popolo di Siena da parte dei fascisti, e i torbidi accordi da questi stretti con il Monte dei Paschi (La casa del Popolo di Siena e il ‘dono della vergogna’, Siena, Nuova Immagine 2003); è così riuscito a ottenere la restituzione da parte della Banca alla società civile senese dei locali della Casermetta, oggi Stanze della Memoria – presidio cruciale per una identità senese che voglia radicarsi non solo nel mito del Medioevo ma anche nelle drammatiche vicende novecentesche e nei valori di libertà e uguaglianza che ne sono scaturiti.

(Fabio Dei)

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I fascisti senesi alla marcia su Roma

Quando scattò la fase operativa del disegno eversivo della marcia su Roma, il fascismo senese aveva assunto da vari mesi il controllo quasi completo della provincia di Siena. Basta dire che delle  amministrazioni comunali a guida socialista, elette nel 1920, ne sopravvivevano solo tre. Le altre ventisei erano cadute, una dopo l’altra, sotto le bastonature e le minacce dello squadrismo. I sindaci e le giunte erano state sostituite da commissari prefettizi. Tutte le Case del Popolo avevano subito assalti, danneggiamenti, incendi.  Ampio era il consenso di cui i fascisti godevano nelle istituzioni e nei corpi separati dello Stato.

Nel racconto costruito in seguito alla conquista del potere, il fascismo senese si fregiò di un articolo de “Il Popolo d’Italia” che lo indicava come il primo ad insorgere in Italia. In realtà in più di un capoluogo di provincia – da Cremona a Pisa, per limitarsi a due soli esempi – si verificò una sorta di corsa ad anticipare l’inizio del moto eversivo previsto per il 28 ottobre.

Prime o no che siamo state, le centinaia di camicie nere concentratesi a Siena di fronte alla sede provinciale del PNF in piazza del Carmine, si mossero nel tardo pomeriggio del 27 ottobre dirigendosi alla Fortezza di S. Barbara e poi al Distretto militare di S. Chiara dove si impadronirono di trecento fucili, di quattro mitragliatrici e di munizionamento.

La complicità neppure mascherata del tenente colonnello Enrico Nadalini, comandante dei fanti dell’87°, la conseguente “neutralità” arrendevole di quasi un migliaio di soldati e di una settantina di ufficiali presenti nelle caserme, l’inerzia benevola dei 250 carabinieri del maggiore Vittorio Calcaterra dislocati sul territorio provinciale, la resa del prefetto Mauro Michele Bertone, motivata con la “scarsità” (?) di forze a sua disposizione e con l’intento di non creare “gravi incidenti”, furono determinanti per la riuscita di un’insurrezione che in tutta evidenza non fu tale, bensì un colpo di mano agevolato da chi avrebbe dovuto contrastarlo.

Nella notte la stazione ferroviaria si riempì di squadristi che salirono su un treno – molti altri montarono alle stazioni lungo il percorso per Chiusi, a completare quella che fu chiamata la legione senese – e partirono alla volta di Monterotondo, nei pressi di Mentana, punto di aggregazione della colonna affidata al comando di Ulisse Igliori. Superato lo  sbarramento di Orte viaggiando sul binario dispari – l’altro era stato divelto dai soldati dell’esercito in allerta per lo stato di assedio dichiarato dal governo Facta e poi non firmato dal re –, il 28 arrivarono a destinazione precedendo i fiorenti e gli aretini a cui era stata assegnata la medesima destinazione.

Carenza di viveri, freddo e pioggia furono gli unici veri nemici. L’attesa di dirigersi a Roma durò fino al 30 e si sbloccò solo quando, con Mussolini incaricato di formare un nuovo governo, venne rimosso ogni sbarramento militare a difesa della capitale. In testa alla colonna Igliori, i fascisti senesi entrarono in città e parteciparono alla sfilata di fronte al Quirinale. Il 31 tornarono a Siena, sempre in treno.

I partecipanti all’impresa furono 1.032. Altre 899 camicie nere rimasero invece a presidiare i centri maggiori della provincia. Nell’insieme, numeri elevati rispetto ai 2.600 iscritti al PNF nella primavera del 1922.

In testa alla classifica della partecipazione, il capoluogo (167 partecipanti),  Montalcino (89), Montepulciano (85), Sovicille (79), Sinalunga (67), Poggibonsi (61), S. Gimignano (42), Abbadia San Salvatore (32), Rapolano (30), Trequanda (30). I fasci di frazione garantirono un afflusso importante in ogni comune.

La presenza di leader fascisti autorevoli per influenza sociale – ad esempio esponenti della nobiltà capaci di portarsi dietro gregari armati in un rapporto che evoca suggestioni di tipo feudale – può essere assunta come causa di una maggiore o minore partecipazione dalle varie località. Più in generale si può richiamare la “mobilitazione secondaria” ovvero l’effetto di reazione: laddove il socialismo era stato più forte e agguerrito, da lì venne un numero maggiore di marcianti.  Anche se, va subito aggiunto, non mancano le eccezioni, come Colle Val d’Elsa, Monticiano e Chiusdino.

Per offrire una qualche cognizione su età e condizione sociale dei 1.032, si anticipa qui di seguito la  sintesi dei risultati di uno studio che sarà pubblicato sul numero CXXIX del “Bullettino senese di storia patria”. L’indagine, condotta su otto comuni, rappresentativi di varie zone della provincia, dal capoluogo, alla Val d’Elsa, alla Val di Chiana, si è fondata sui registri dell’anagrafe, intrecciati con altre fonti quali la memorialistica, la stampa, i registri di leva. 310 sono i marciati sui quali è stato possibile raccogliere le informazioni necessarie.

L’età media fu di 24 anni e mezzo: i  più numerosi, gli appartenenti alle classi richiamate sui fronti di guerra, ma molti (39%) anche i nati dal 1900 in poi.

Guardando alla condizione sociale, i ceti medi (impiegati, insegnanti, commercianti, coltivatori diretti, ma soprattutto artigiani) costituirono un’ampia maggioranza (48,8%), a conferma, anche per il  Senese, della politicizzazione, e del conseguente protagonismo in senso estremista, del mondo di mezzo avvenuta in seguito alla guerra.

Mentre i ceti inferiori (salariati, braccianti, mezzadri) totalizzarono il 27,4% di presenze, a colpire è il 23,8% dei ceti superiori (vi sono conteggiati professionisti, fattori e studenti universitari perché, nel contesto dei singoli comuni, appartenevano, a vari gradi, all’élite, e come tali venivano percepiti), fra i quali spicca il 12,2% di possidenti – prevalentemente di famiglia nobile –, di industriali e di impresari edili (per dare un termine di raffronto generale, secondo il censimento del 1921 i possidenti costituivano l’1,3% della popolazione attiva della provincia).

Se a queste percentuali, relative all’insieme dei marcianti, si affiancano quelle dei 30 quadri di comando della legione – comandante in capo, console, seniori, decurioni, centurioni – dalle quali risulta una presenza ampiamente maggioritaria di ceti superiori (20 persone) rispetto ai ceti medi (9) e inferiori (1), non è infondato pensare che, almeno in provincia di Siena, il movimento fascista, pur tra contraddizioni e lotte interne che non mancarono, fu nelle mani, e dunque sotto l’egemonia, delle tradizionali classi dominanti fin dalla partecipazione alla marcia che la storia ha segnato come l’evento fondativo del regime.

Bibliografia

Sullo svolgimento della marcia.

Giorgio Alberto Chiurco, Fascismo senese. Martirologio toscano dalla nascita alla gloria di Roma, Tipografia Combattenti, Siena 1923.

Alberto Tailetti, La Marcia su Roma vissuta nei ranghi, in “La Rivoluzione fascista”, 31 ottobre 1932.

Gabriele Maccianti, Una storia violenta. Siena e la sua provincia 1919-1922, Il Leccio, Siena 2015.

Paolo Leoncini, Ottobre 1922: la “resistibile” marcia dei fascisti senesi, in “Maitardi”, periodico dell’Isrsec “Vittorio Meoni”, 2022, n. 2.

Sul ruolo dei ceti dominanti alle origini del fascismo senese.

Daniele Pasquinucci, Società e politica a Siena verso il fascismo (1918-1926), Quaderni dell’Asmos, n. 2, Nuova Immagine, Siena 1995.

Saverio Battente, Dalla periferia al centro: la classe dirigente a Siena fra nazionalismo e fascismo, in Paul Corner e Valeria Galimi (cura), Il fascismo in provincia. Articolazioni e gestione del potere tra centro e periferia, Viella, Roma 2014.




Il “soccorso nero” in una provincia rossa. Il Movimento italiano femminile a Siena.

Il Movimento italiano femminile “Fede e famiglia”.

Il Movimento italiano femmine, comunemente riassunto nell’acronimo MIF, fu tra le prime organizzazione neofasciste formatesi nell’Italia postbellica, con l’obiettivo di assistere gli ex fascisti in carcere o in clandestinità. Fondato ufficialmente il 28 ottobre 1946, una sorta di mito fondativo ne avrebbe ricondotto in realtà la paternità a Mussolini in persona, che nell’aprile 1944 avrebbe incaricato la principessa Maria Elia Pignatelli di riunire le donne fasciste e orientarne l’attività in senso assistenziale e propagandistico. Già distintasi, assieme al marito Valerio, nell’organizzazione delle reti fasciste clandestine nell’Italia liberata, la principessa Pignatelli avrebbe dato vita a un’organizzazione strutturata a livello nazionale, con sedi in quasi ogni provincia e un’estesa rete di collaboratrici, comprendente figure di rilievo nel mondo dell’industria, della politica e, soprattutto, all’interno della Santa Sede. Scopo principale del MIF fu quello di fornire assistenza materiale e legale ai cosiddetti prigionieri politici fascisti, favorendo al contempo l’espatrio dei latitanti. Tuttavia, l’azione del movimento si sarebbe progressivamente allargata, portandolo a stringere rapporti con altre organizzazioni neofasciste europee, come pure a svolgere propaganda in favore del Movimento sociale italiano. Anche per tale attivismo, nonché per la sua funzione aggregatrice, il MIF avrebbe rappresentato uno degli attori più importanti del panorama neofascista italiano dell’immediato dopoguerra.

L’archivio del MIF e l’iniziativa dell’Istituto storico della Resistenza senese e dell’età contemporanea.

Le carte del Movimento italiano femminile sono oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Cosenza. Disposizioni per il versamento, avvenuto nel 1969, furono impartite dalla stessa Maria Pignatelli poco prima della sua scomparsa nel marzo 1968, a causa di un incidente stradale. Il fondo, riordinato e inventariato, conta oggi 88 buste, relative all’attività svolta dal MIF dalla sua costituzione fino alla prima metà degli anni Cinquanta. La suddivisione interna presenta serie dedicate all’organizzazione del movimento; all’amministrazione; ai rapporti con organi dello Stato, enti, associazioni, partiti politici; alla corrispondenza con assistiti, avvocati, personalità politiche ecc. La serie più voluminosa è però quella relativa all’organizzazione periferica del movimento, comprendente i fascicoli delle sue sezioni provinciali e comunali.

Attraverso la cordiale collaborazione del personale dell’Archivio di Stato di Cosenza, nel 2020 l’Istituto storico della Resistenza senese si è impegnato nella riproduzione della documentazione riguardante la sezione senese del MIF, organizzata in tre ricchi fascicoli. Tali documenti sono adesso conservati in versione digitale presso la sede dell’Istituto di via San Marco 90 a Siena.

Brevi cenni sulla storia del MIF senese.

Un ufficio senese del Movimento italiano femminile fu costituito nell’ottobre 1947, sollecitato dall’inizio dei procedimenti contro i collaborazionisti fascisti presso la sezione speciale della locale Corte d’Assise. Già dal maggio precedente, infatti, si erano intensificati al riguardo i contatti tra la principessa Pignatelli e la lucchese Tita Luporini, responsabile toscana del movimento, e tra la stessa e l’ex capo della provincia di Siena Giorgio Alberto Chiurco. Nella prima metà di ottobre, la Pignatelli decise di recarsi personalmente nella città del Palio, per organizzare un primo nucleo del MIF e prendere contatti con importanti esponenti della nobiltà cittadina, disposti a finanziare le attività del movimento. Una prima lista delle iscritte alla sezione senese, risalente probabilmente a quel periodo, conta una quarantina di nominativi, vagliati dalla signora Chiurco per accertarne l’affidabilità.

Nel contesto dei processi senesi, l’azione del MIF si indirizzò verso il sostegno materiale ai detenuti, fornendo indumenti, sigarette, riviste da leggere; soprattutto, fu l’organizzazione della Pignatelli a sostenere la difesa degli imputati, rintracciando gli avvocati e provvedendo, assieme al concorso di alcuni notabili cittadini, al pagamento delle relative spese legali. Un’attività che non si limitò al solo capoluogo, allargandosi ai detenuti fascisti delle carceri di San Gimignano, tra i quali figurava anche l’ex federale milanese Vincenzo Costa.

Di grande interesse risultano al riguardo le relazioni economiche relative ai bienni 1948-1949 e 1950-1951, dalle quali emergono indicazioni di carattere quantitativo circa l’azione assistenziale del movimento, comprendente l’invio di pacchi natalizi, generi alimentari e medicinali; l’organizzazione di pranzi; l’assistenza alle famiglie dei detenuti.

Merita infine un accenno la corrispondenza intrattenuta con i singoli imputati – particolarmente significativa quella riguardante Chiurco e l’ex comandante della squadra politica fascista Alessandro Rinaldi – dalla quale emergono sia informazioni circa la quotidianità dei prigionieri, il loro stato d’animo e le preoccupazioni del momento; sia indicazioni relative all’organizzazione dei ricorsi dopo le prime condanne emesse dall’assise senese.

Riferimenti bibliografici.

  1. F. Bertagna, Un’organizzazione neofascista nell’Italia postbellica. Il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia» di Maria Pignatelli di Cerchiara, in Rivista Calabrese di Storia del ‘900, 1, 2013, pp. 5-32;
  2. R. Guarasci, La lampada e il fascio. Archivio e storia di un movimento neofascista. Il «Movimento italiano femminile», Laruffa, Reggio Calabria 1987;
  3. K. Massara, Vivere pericolosamente. Neofascisti in Calabria oltre Mussolini, Aracne, Roma 2014;
  4. A. Orlandini, G. Venturini, I giudici e la Resistenza. Dal fallimento dell’epurazione ai processi contro i partigiani, Il caso di Siena, La Pietra, Milano 1983;
  5. G. Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia. 1943-1948, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 55-74;
  6. N. Tonietto, La genesi del neofascismo in Italia. Dal periodo clandestino alle manifestazioni per Trieste italiana. 1943-1953, Le Monnier, Firenze 2019.



Guerra ai renitenti: le fucilazioni del marzo ’44

Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni, Guido Targetti: erano questi i nomi dei 5 giovani – di età compresa fra i 21 e i 23 anni – fucilati il 22 marzo del 1944 a Firenze allo stadio di Campo di Marte a seguito di una condanna a morte per renitenza alla leva, emanata dal Tribunale militare speciale. All’esecuzione sono fatti assistere tutti i militari del presidio militare di Firenze, come monito. I drammatici momenti di quell’eccidio ci sono restituiti dalla relazione redatta da don Angelo Becherle, il cappellano chiamato a impartire l’estrema unzione ai cinque ragazzi. Nel racconto del sacerdote – subito trasmesso al cardinale di Firenze Elia Dalla Costa – emerge tutta la tragedia delle giovani vite di fronte alla morte: “Quiti cominciò a tremare, voleva alzarsi e scappare: anche il Raddi e il Corona ebbero un momento di terribile esasperazione: riuscii a quietarli  […] avvenne la scarica del plotone. Il Targetti, il Raddi ed il Santoni morirono subito. Non così il Quiti, che ancora vivo, legato alla sedia si dimenava e gridava « Mamma, mamma!». […] Fu il maggiore Carità, il famigerato comandante delle SS, che dopo alcuni istanti intervenne e diede il colpo di grazia”. La gravità del fatto è tale che sconvolge i testimoni e resta ben vivo nella memoria della città che ha poi onorato la memoria dei martiri con il monumento che ancora oggi li ricorda sotto la “Curva Ferrovia” dello stadio di calcio.

Peraltro non si tratta di episodio isolato. In quello stesso mese di marzo fatti simili si erano verificati in tutta la Toscana. Ad esempio il 13 a Siena dove 4 giovani renitenti erano stati condannati dal tribunale militare speciale e fucilati nella caserma “La Marmora”; sono 11 quelli fucilati in quello stesso 22 marzo a Maiano Lavacchio nel grossetano, insieme ad un militare tedesco che aveva disertato;  il 24 tocca a due giovani viareggini presso il cimitero della città e il giorno seguente altri due a Lucca; il 27 marzo due a Pisa e il 31 quattro renitenti sono fucilati a Pistoia sotto le mura della Fortezza di Santa Barbara.

Una vera e propria guerra alla renitenza,  nella quale i giovani che non si presentano alla leva sono di fatto equiparati a nemici, e come tali trattati. Per capire la radicalità e capillarità di questa strategia, frutto non tanto delle scelte dei singoli Tribunali locali, quanto di una compiuta strategia della Repubblica sociale italiana, è necessario considerare l’importanza attribuita dal governo di Salò alla leva militare.

Per il governo collaborazionista fascista la formazione di un esercito nazionale, secondo l’impostazione del generale Graziani, Ministro della Difesa nazionale, è infatti obiettivo prioritario per dimostrare la propria esistenza come Stato agli italiani, ma anche ai potenti quanto ingombranti alleati nazisti. Per questo, oltre al tentativo di “recuperare” i soldati arresisi dopo l’armistizio e condotti nei lager del Reich come internati militari, è fondamentale soprattutto il coinvolgimento dei giovani attraverso l’emanazione dei bandi di leva. Per questo fin dal 16 ottobre del ’43 Graziani preannuncia la chiamata alle armi dei nati nel ’24 e nel ’25, riattivati gli uffici di leva, nella seconda metà di novembre. L’operazione è vista con diffidenza dai nazisti che puntano piuttosto ad usare gli italiani come lavoratori a proprio servizio. Ma soprattutto si scontra con la diffusa stanchezza e la crescente ostilità per il conflitto fra gli italiani. Atteggiamenti certo accentuati dall’odiosa disposizione del generale Gambarra dello Stato maggiore dell’Esercito che intima l’arresto dei padri in caso di mancata presentazione dei figli alla leva. Nonostante un crescente clima di minacce la maggioranza dei ragazzi non si presenta.

Il decreto legislativo del 18 febbraio 1944 che stabilisce la pena di morte per renitenti e disertori è la più efficace dimostrazione del fallimento del bando di novembre. Il ricorso alla pena estrema svela l’inefficacia di ogni altro mezzo, a partire dalla propaganda, e la crescente delusione negli ambienti fascisti. Una consapevolezza rafforzata dalla lettura della stampa fascista che indica sempre più in renitenti e disertori nemici da abbattere più che ragazzi da convincere. Esemplare è quanto si legge sulle testate delle federazioni toscane, come quella lucchese: “la diserzione, quindi, e il macchiai olismo di tanti, di troppi giovani nostri, per non servire la mamma Italia e in un’ora delle più tragiche per Essa, sono spregevoli al massimo grado” (“L’Artiglio”, 21 aprile 1944). Sulla stessa linea il periodico pistoiese “Il Ferruccio” che definisce i renitenti “sabotatori”, mentre quello fiorentino “Repubblica”, già dal dicembre del ’43 aveva esteso la denuncia ai familiari: “vili sono tutti coloro che proibiscono e non incitano i figli perché accorrano a cacciare il nemico” (“Repubblica”, 11 dicembre 1943).

La successiva tattica del “bastone e della carota” – con il decreto 336 che esenta dalla pena coloro che si presentino entro il 9 marzo 1944 – non muta la sostanza dei fatti. Né ottenere risultati significativi. Tanto che il successivo decreto del 24 marzo stabilisce sanzioni economiche per i renitenti e i disertori come la confisca dei beni, propri e familiari, oltre alla cancellazione delle tessere annonarie, così da piegare i giovani, con il ricatto che grava sui parenti. In questo contesto vanno quindi collocati gli episodi che insanguinano anche la Toscana nel marzo del ’44 con le varie fucilazioni di renitenti. Esse non sono solo azioni di repressione, ma tremendi atti dimostrativi tesi a terrorizzare gli altri ragazzi e tutta la popolazione per cercare di piegare con la paura chi non si era riuscito a convincere con ragionamenti ed emozioni retoriche ormai vanificate dal conflitto e dai suoi tremendi effetti. Violenze gravi che, quasi per contrappasso, ottengono l’effetto di favorire un rafforzamento del movimento partigiano, con la fuga alla “macchia” di tanti giovani, e più in generale di favorire un sentimento di ostilità della popolazione contro la Repubblica sociale, contribuendo così a quella crescita della Resistenza, in ogni sua forma, che si dispiegherà nei mesi successivi contribuendo alla liberazione di gran parte del territorio della Toscana.




Fare la Resistenza, fare la storia della Resistenza. Vittorio Meoni e l’Istituto Storico della Resistenza Senese.

Nel 1998 Vittorio Meoni mi telefonò per propormi di assumere l’incarico di “insegnante comandato” nell’Istituto Storico della Resistenza Senese. L’Istituto si era costituito alcuni anni prima, nel 1991, naturalmente per iniziativa dello stesso Vittorio. Dico “naturalmente” perché a Siena Vittorio era la Resistenza, in ogni senso del termine: era il suo eroe, ricordato nelle narrazioni popolari, il suo principale testimone (era allora e rimarrà a lungo anche presidente dell’ANPI provinciale), ma anche il suo studioso, colui che tentava di traghettarla dalla memoria alla storia. L’Istituto aveva raccolto altre persone della generazione di Vittorio (n. 1922) e già attiviste dell’ANPI, come fra gli altri Sandro Ugoletti, Alfredo Merlo, Anna Giorgetti, Aristeo Biancolini, Giuseppe Martufi, Bruna Talluri (che ne era stata la prima direttrice): ma anche studiosi e attivisti più giovani, come Alessandro Orlandini, Gianfranco Molteni, Silvia Folchi. All’ISRS avevano aderito la provincia di Siena e molti comuni del territorio. La sede era in un prestigioso (anche se non propriamente funzionale) locale nella centralissima via di Città, che ospitava una discreta biblioteca (includente un fondo donato da Mario Delle Piane), i materiali d’archivio delle brigate partigiane del Senese, un archivio fotografico di provenienza ANPI e un piccolo fondo di fonti orali (che si sarebbe in seguito ampiamente sviluppato). Negli anni Novanta, il principale impegno di Vittorio Meoni e dell’Istituto aveva però riguardato il progetto di Casa Giubileo: la casa colonica immersa tra i boschi del Montemaggio, nel comune di Monteriggioni, dove erano stati attaccati e catturati i partigiani del gruppo di Vittorio, prima dell’eccidio e della sua rocambolesca fuga. Con il sostegno delle amministrazioni regionale e provinciale e dei comuni della Valdelsa senese, Casa Giubileo era stata ristrutturata e trasformata in un Laboratorio Didattico per la storia contemporanea e la ricerca ambientalista. Da puro “luogo del ricordo”, doveva diventare un presidio della trasmissione critica della memoria resistenziale alle nuove generazioni, e un riferimento per la didattica della storia e dell’ambiente rivolto a tutte le scuole del territorio. Era così stata dotata di raccolte di fonti e di strumentazioni elettroniche per l’epoca assai avanzate, inclusa una centralina di montaggio video e altre apparecchiature che favorivano un approccio diretto e interattivo degli studenti alle fonti.

Si trattava ora di farlo funzionare.  L’ISRS faceva parte della rete nazionale degli Istituti storici affiliati all’INSMLI (Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia), convenzionata con il Ministero della Pubblica Istruzione al fine di impiegare – attraverso appunto la formula del “comando” – alcune decine di insegnanti di ruolo per le proprie attività di didattica della storia contemporanea.  Siena ottenne per la prima volta il comando appunto a partire dall’anno scolastico 1998-99: da qui dunque la proposta che Vittorio mi fece di assumere quel ruolo, che accolsi con entusiasmo soprattutto per i miei interessi verso la didattica della storia contemporanea. Lavorai all’Istituto (divenendone anche direttore) per due anni scolastici (fino a quando, alla fine del 2000, ottenni accesso all’università e mi trasferii a Roma “La Sapienza”). Anni intensi, nei quali organizzammo un pacchetto di proposte didattiche per le scuole della provincia – dalle primarie alle superiori – e di corsi di aggiornamento per insegnanti. I percorsi didattici furono all’inizio quattro, centrati attorno alle tematiche dell’eccidio di Montemaggio, dell’antifascismo e della Resistenza nel senese, dei bombardamenti delle città, del razzismo e della persecuzione degli ebrei.  Ciascun percorso includeva almeno una o più visite a Montemaggio, incontri con i testimoni, interventi in classe (con i testimoni e, oltre che con me, con esperte e attive collaboratrici come Laura Mattei e Valentina Zerini), e esercitazioni di laboratorio basate sull’analisi critica delle fonti. L’unicità del racconto storico esemplare e ufficiale veniva smontata cercando di presentare gli eventi e il contesto da molteplici punti di vista. Nella ricostruzione dell’eccidio di Montemaggio, ad esempio, la visita dei luoghi e l’incontro con Vittorio Meoni o con Velio Menchini si combinavano con il confronto di diverse versioni e racconti (inclusi quelli della GNR), con gli atti del processo, con resoconti letterari e audiovisivi. Nel percorso sui bombardamenti (sfruttando soprattutto la ricca documentazione su Poggibonsi), oltre a disegnare il contesto complessivo della guerra aerea e della guerra “totale”, si ponevano a confronto le fonti oggettive (ad esempio le riprese effettuate dai bombardieri americani, che in quegli anni Claudio Biscarini aveva individuato negli archivi USA e pubblicato) e quelle soggettive, come le testimonianze orali dei sopravvissuti e degli sfollati – chiedendo poi alle studentesse e agli studenti di realizzare prodotti multimediali di sintesi. Decine e decini di classi, prevalentemente di scuola media, parteciparono a questi esperimenti didattici, gli scuolabus gialli arrancavano fra la polvere sulla strada bianca che porta a Montemaggio, scaricando a Casa Giubileo o alla Porcareccia centinaia di ragazze e ragazzi che almeno in quei momenti sembravano smentire gli stereotipi sul disinteresse adolescenziale per la storia – e che rimanevano per lo più incantati dall’immersione in uno scenario che portava i segno concreti del passato, dal mix di memoria e storia e dai metodi “induttivi” che venivano loro proposti. Ripensandoci oggi, non sono così sicuro che il metodo del laboratorio (imparare la storia facendo delle cose, non solo ascoltando dei racconti stabilizzati e “ufficiali”) sia generalizzabile. Sono molto più scettico di allora sull’idea di un apprendimento scolastico per skills. E anzi sono convinto che quel che accadeva a Casa Giubileo non fosse solo “metodo induttivo”, ma anche e soprattutto approccio empatico, potenza dei “miti” narrati, efficacia comunicativa dei monumenti (i ragazzi chiedevano sempre se quelli erano i buchi dei proiettili…), rafforzata dal carattere straordinario dell’esperienza vissuta (fare scuola nei boschi, lontano dall’ordinarietà della classe etc.). Resta intatta la meraviglia di quei momenti: e sarebbe interessante sapere oggi, a più di vent’anni di distanza, che cosa per le ragazze e i ragazzi di allora è rimasto della didattica di Casa Giubileo.

Al di là delle esperienze con le scuole, l’attività di quegli anni all’Istituto si concentrò molto sulla produzione di fonti orali. Già Vittorio ne aveva iniziato una raccolta su VHS, con interviste formalizzate condotte nella sede stessa dell’ISRS. Continuammo utilizzando formati audio digitali, con diverse campagne che tentavano non solo di fissare le testimonianze dei partigiani più noti, ma anche di restituire il punto di vista di testimoni dell’epoca fino ad allora rimasti nell’ombra, e portatori magari di racconti per così dire meno ortodossi (il punto di vista contadino, ad esempio, non sempre così nettamente schierato con i partigiani). Bisogna ricordare che quegli anni ’90, aperti dal celebre libro di Claudio Pavone (Una guerra civile, Bollati Boringhieri, 1991), cercavano di rendere più ampia e complessa l’immagine della Resistenza rispetto alle visioni “militanti” e alla storiografia più ortodossa. Era finita la guerra fredda, e non eravamo ancora entrati in quella nuova stagione di polemiche che sarebbe stata in seguito alimentata dai libri di Pansa e da alcuni tratti dell’ideologia della nuova destra. Sembrava possibile sfuggire alla dimensione sacra e monumentale della memoria resistenziale, e sottoporla allo scrutinio di una indagine storico-antropologica più profonda, senza per questo offrire strumenti al revisionismo più strumentale. Ciò implicava ad esempio  dare maggior risalto al ruolo dei civili, come negli studi sugli eccidi nazifascisti del ’44 e sulle loro memorie che spesso si presentavano “divise” e irriducibili alla versione ufficiale; ragionare (come Pavone stesso  invitava a fare) sulla dimensione di una violenza diffusa che non stava solo da una parte e che finiva per contagiare anche le “vittime”; approfondire le divisioni e le contraddizioni interne alla stessa componente partigiana, facendo emergere crepe nella narrazione monumentale che (per ragioni prevalentemente pratiche) era stata disegnata a fine guerra dalle relazioni delle brigate.  Pochi ricordano che in quel periodo furono proprio gli istituti storici della Resistenza ad aprire nuovi filoni di studi sulle rappresaglie antifasciste dell’immediato dopoguerra o sulle violenze del confine orientale (incluse le “foibe”): temi in precedenza tabù perché colonizzati dalla propaganda dell’estrema destra, e che ben presto sarebbero tornati ad esserlo. Accenno a questi aspetti solo per ricordare l’estrema fecondità di quella fase, e soprattutto per testimoniare quanto Vittorio Meoni fosse interessato e aperto verso questi sviluppi. Proprio lui che incarnava la monumentalità della Resistenza, il motto – se vogliamo – per cui “la Resistenza non si tocca”, era il primo a guardare con attenzione ai nuovi paradigmi sia interpretativi sia celebrativi che si stavano profilando.  “Vecchi arnesi”, scherzava commentando sospetti e tabù di molti della sua generazione. Me ne sono forse accorto tardi, ma il suo atteggiamento verso i più giovani era da autentico maestro: una guida discreta, consapevole che le cose che si imparano davvero sono quelle cui si arriva da soli.

Fabio Dei