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Calcio Sovietico in Toscana

Gli studi che dimostrano il valore del calcio nella ricerca storica sono molti. Augé ha evidenziato il valore antropologico del football e come esso permetta un’identificazione o un’opposizione all’altro. In alcune partite svoltesi in Toscana, l’altro è stato l’Unione Sovietica.
Il calcio russo ha avuto una storia complessa; osteggiato in origine, divenne strumento pedagogico, propagandistico e diplomatico. Fu uno dei campi nei quali poteva essere dimostrata la supremazia socialista, secondo la Pravda divenne “un mezzo efficace per spezzare il blocco imposto dai capitalisti” e avrebbe permesso di “issare la bandiera sovietica nelle menti e nei cuori del popolo”.
Dunque, è difficile ignorare il valore storico delle manifestazioni sportive che hanno coinvolto squadre sovietiche in Toscana. I sovietici vennero in Italia più volte per trascorrere il periodo invernale; la Toscana metteva a disposizione il Centro Tecnico Federale di Coverciano, dove era possibile studiare le innovazioni tecnico-tattiche dell’Occidente. Erano pochi i Paesi dell’avanguardia calcistica disposti a ospitarli, mentre l’Italia e la Toscana potevano offrire la propria competenza e la presenza di molte amministrazioni amiche. La comparazione della partecipazione, dell’organizzazione, della rilevanza sociale delle partite nel corso dei decenni, ci dicono molto sulla percezione del valore e della solidità delle radici del simbolo comunista tra la
popolazione locale. Nel settembre 1955 la Dinamo Mosca giocò allo stadio Artemio Franchi di Firenze un’amichevole con la Fiorentina. La Dinamo era la squadra del Ministero dell’Interno, tra i suoi dirigenti vi erano uomini della Čeka, la polizia politica. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Dinamo venne mandata in tournée in Inghilterra e per diversi decenni dominò il calcio sovietico. Inoltre, nella rosa dei moscoviti vi era il leggendario portiere Lev Jašin. La città si mobilitò per accogliere i sovietici in un clima di festa. I giocatori comunisti vennero ricevuti a Santa Maria Novella con mazzi di garofani e fecero un Grand Tour della città, concludendo con una cerimonia in Palazzo Vecchio. L’evento non fu prettamente sportivo ed è chiaro che ebbe una rilevanza il peso politico degli ospiti. La partita si disputò davanti a 60.000 persone circa e vide la mitica Fiorentina del ’56 imporsi per 1 a 0.
Assume connotati diversi la partita che la nazionale sovietica giocò nel febbraio del 1979 a Prato. Secondo quanto riportato da La Nazione, l’amichevole fu voluta dalla dirigenza del Prato per attirare l’attenzione dell’amministrazione cittadina e dei pratesi sul club, in un match che ebbe poco da dire sul piano puramente sportivo. Quindi la presenza dell’11 sovietico funse da cassa di risonanza e venne ritenuto funzionale da parte della dirigenza. In quell’occasione i sovietici fecero un allenamento a Castelnuovo dei Sabbioni (Arezzo), dove nel 1978 era stato inaugurato un parco intitolato al partigiano sovietico Bujanov. Nel 1988 l’URSS era in preparazione per i campionati Europei e divise il suo ritiro tra Coverciano e la Garfagnana. Sotto la guida tecnica di Lobanovskij disputò alcune amichevoli per prepararsi alla competizione che la vedrà cadere soltanto in finale. Le amichevoli furono disputate con squadre dilettantistiche in quanto la FIGC mise il veto sugli incontri con squadre professionistiche prima dell’amichevole clou a Bari con la nazionale italiana. Dunque, la squadra del pallone d’oro Blochin si ritrovò a dover giocare a Pontassieve e fare appello per trovare qualche altro avversario disponibile e dotato di campo. Il Firenze Ovest, squadra della provincia fiorentina, propose il suo campo in terra battuta e con grande sorpresa i sovietici accettarono. Per gli abitanti di Brozzi fu l’occasione incredibile di vedere una nazionale maggiore sotto casa ma «La Nazione» descrisse così: “Clamorosa gaffe della FIGC, l’URSS costretta a giocare a Brozzi”.
Per i sovietici la partecipazione a match internazionali fu una testa di ponte per disgelare e rafforzare alcune relazioni diplomatiche; questo è evidente nei primi due incontri in analisi. La partita con la Dinamo di Mosca è anche una celebrazione della fratellanza che lega Firenze a Mosca, più che un evento calcistico sembra l’inizio di un interscambio che avrà luogo e si affievolirà nei decenni successivi. Lo vediamo già con la partita della nazionale a Prato; l’invito ai sovietici è già ormai mirante ad avere effetti solo sul raggio locale ed il rimando al ruolo di polo di riferimento assunto da Mosca dopo la Seconda guerra mondiale è già molto più tenue. Si celebra il passato, lontani dai centri amministrativi principali e si cerca di ottenere il massimo dalla presenza di quella che rimane una nazionale prestigiosa in grado di smuovere ancora gli entusiasmi. A Brozzi invece il ruolo politico dell’URSS, se percepito, è addirittura d’ostacolo. Una nazionale maggiore osteggiata al punto che parrebbe un’ospite sgradita e lasciata all’attenzione di una piccola polisportiva. Dalla pompa magna del 1955 alla gaffe del 1988 era evidente che l’URSS aveva perso la sua partita più importante col blocco capitalista.

Emanuele Federico Russo è laureato in Scienze Storiche presso l’Università di Firenze, docente di scuola secondaria di secondo grado, consulente storico e ricercatore presso l’Istituto storico della Resistenza di Pistoia. Ha collaborato alla pubblicazione de “Il Mito Sovietico nel PCI in Toscana” curato da Andrea Borelli (Pistoia, 2023) e ha pubblicato “Prima guerra mondiale e videogiochi, il caso di Valiant Hearts” per Farestoria (vol. 1, 2023) a cura di Edoardo Lombardi.




La crisi del tessile a Prato

Nel secondo dopoguerra l’industria tessile pratese, dopo la fase della ricostruzione, dovette affrontare, tra il 1949 ed il 1952 circa, una crisi drammatica che si risolse con una profonda modificazione della struttura produttiva, lo smantellamento dei grandi lanifici a ciclo completo e la nascita del distretto industriale. Al superamento della crisi fece seguito un lungo periodo di sviluppo. Tra il 1961 ed il 1981 i principali indicatori economici si mantennero costantemente in crescita: le unità locali, per esempio, che erano 10.700 nel 1971, salirono a 14.700 nel 1981, mentre gli addetti passarono, nello stesso arco di tempo, da 50.000 a 61.000.

Le prime avvisaglie di una nuova crisi, che investì soprattutto il settore del cardato, si manifestarono verso la metà degli anni Ottanta. I suoi effetti furono contenuti grazie allo sviluppo della fase di nobilitazione dei tessuti ed alla possibilità di ricollocare nel terziario parte dei lavoratori rimnasti disoccupati, ma l’inversione del trend positivo era un dato di fatto innegabile: fra il 1981 ed il 1991 i fusi di cardato scesero da 770.000 a 400.000, le unità locali tessili da 14.700 a 10.500 e gli addetti al tessile da 61.100 a 46.200.

La situazione si aggravò negli anni successivi in seguito ad un complesso di cause eterogenee, che per gli industriali erano rappresentate in primo luogo dal costo del lavoro – a loro avviso troppo elevato –, dagli alti oneri sociali, dalla mancanza di infrastrutture adeguate e così via, mentre il sindacato ed il Partito comunista insistevano soprattutto sull’eccessiva frammentazione della struttura produttiva. Valgano al riguardo alcuni dati: a Prato la media dei dipendenti per azienda era pari a 3,7 (e le aziende con più di quindici dipendenti costituivano dunque una minoranza); nel 1999, a parità di fatturato, i lanifici attivi a Biella, il più importante centro laniero italiano, erano cinquanta, nella città toscana cinquecento, molti dei quali strutturati in maniera inadeguata rispetto alle esigenze del mercato. Tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo l’industria tessile locale, già in seria difficoltà, precipitò in una crisi dalla quale non si sarebbe più ripresa: a determinarla furono l’entrata in vigore dell’euro (1999-2002) – che rese impossibile fare assegnamento sulla svalutazione della lira per ridurre i prezzi in moneta estera dei beni esportati e sostenere così le esportazioni – e l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (11 dicembre 2001), dopo un negoziato durato una quindicina di anni. L’entrata in tale organizzazione consentì al gigante asiatico di usufruire di tariffe più vantaggiose per l’export in cambio di dazi minori sull’import (e del rispetto di una serie di impegni poi in larga parte disattesi). I mercati occidentali furono così invasi da una massa di prodotti cinesi a basso costo, e ciò produsse conseguenze pesantissime per il tessile manifatturiero in Italia e quindi anche per il distretto locale.

Alla fine degli anni Novanta i segnali di sofferenza del settore si moltiplicarono: ai primi di marzo del 1999 gli operai pratesi in attesa di riscuotere la cassa integrazione ordinaria erano cinquemila e lo stillicidio delle chiusure e dei licenziamenti appariva inarrestabile. Ai primi di aprile risultavano in attività duecentosettanta filature per conto terzi (nel 1995 le filature erano trecentottanta e nel 1985 quattrocentocinquanta). Negli ultimi quattro anni avevano chiuso i battenti ben sessanta aziende di cardato. La struttura economica di Prato stava insomma subendo una trasformazione irreversibile, caratterizzata da una progressiva riduzione del peso del comparto tessile.
Ma questo non significava che fosse in crisi l’economia cittadina: nel dicembre del 2002, in occasione del tradizionale incontro di fine anno con i giornalisti, il presidente della Provincia, Daniele Mannocci, e l’assessore al lavoro, Fabio Giovagnoli, rilevarono che, pur essendo indiscutibile la gravità della crisi in cui il tessile si dibatteva, nel periodo gennaio-novembre l’occupazione era aumentata di 3.882 unità e che tale aumento si doveva principalmente allo sviluppo di settori diversi da quelli tradizionali. Prato si stava insomma muovendo verso un nuovo assetto produttivo, verso lo stadio postindustriale, contraddistinto dall’incremento delle attività terziarie e dalla diminuzione degli addetti alle attività industriali. In questo quadro, il tessile non poteva certo riconquistare le posizioni perdute. Ne fanno fede alcuni dati resi noti ai primi di giugno del 2023, secondo i quali dal 2001 al 2021 le aziende tessili sono passate a Prato da 4.301 a 1.816 (-57%), mentre il numero degli addetti del comparto è sceso da cinquantamila a trentacinquemila.

Nella primavera del 2000 la crisi che attanagliava il tessile a Prato raggiunse anche il Lanificio Pecci, l’unico che, a quell’epoca, aveva ancora mantenuto il ciclo completo di lavorazione: la vicenda del Pecci può essere considerata come l’emblema di quanto stava allora accadendo in città.
La ditta era all’epoca una società in accomandita semplice con un fatturato di circa ottanta miliardi. A dirigerla era Pierluigi Marrani, affiancato da Enrico Biguzzi, Fabio Faggi, Piergiuseppe Gremmo ed Andrea Bini (che si occupava delle trattative con il governo per le commesse militari). La proprietà reagì alle difficoltà puntando sull’abbattimento dei costi attraverso i licenziamenti: al Pecci erano in forza circa trecento lavoratori ed i licenziamenti, annunciati il 27 aprile all’assemblea degli operai, erano trentacinque, concentrati nei seguenti reparti: filatura a pettine, tessitura, tintoria e rifinizione. Non erano previsti tagli fra gli impiegati. Le motivazioni addotte dall’azienda per giustificare il ridimensionamento erano il progressivo calo degli ordini (in particolare delle commesse militari) e l’onerosità dei costi fissi. L’obiettivo dichiarato era quello di ritrovare quanto prima l’equilibrio di bilancio, ma la mancanza di un preciso piano di rilancio preoccupava molto i lavoratori (il fatto di avere almeno in parte intercettato il malcontento degli operai per i licenziamenti che si profilavano all’orizzonte permise all’Unione libertaria pratese – un sindacato di ispirazione anarchica che aspirava a diffondere fra i lavortatori il concetto di autorganizzazione – di ottenere il 15% dei voti in occasione delle elezioni per il rinnovo della Rsu aziendale svoltesi il 7 febbraio 2000).
Il 24 maggio i lavoratori del Lanificio scioperarono dalle dieci alle undici per riunirsi in assemblea. Al termine della discussione fu approvato un documento in cui si chiedeva di proseguire il dialogo con la direzione che, fino ad allora, era stato infruttuoso (da un incontro svoltosi alcuni giorni prima non erano infatti emerse novità significative, tranne una generica proposta da parte dell’azienda di ridurre i tagli nella filatura a pettine). Non vennero proclamate altre ore di sciopero. Il 18 luglio le parti raggiunsero una soluzione di compromesso per la chiusura della vertenza. L’ipotesi di accordo fu approvata all’unanimità da un’assemblea svoltasi il 21: i lavoratori da porre in mobilità – che da trentacinque si erano ridotti a ventiquattro nel corso delle trattative – sarebbero stati tredici (la maggior parte dei quali “volontari”: nove lavoratori, fra cui alcune donne vicine all’età pensionabile, si erano infatti detti disponibili a lasciare il posto). I tagli si sarebbero concentrati nella tintoria matasse. L’accordo finale, sottoscritto il 27 luglio nella sede dell’Unione industriale pratese (Uip), recepiva in sostanza i termini della bozza di accordo. Esso prevedeva tredici licenziamenti (di cui dieci “volontari”, cioè accettati in cambio di incentivazioni all’esodo). I tagli erano concentrati nei reparti della filatura a pettine e della tintoria matasse, che venne esternalizzata. La proprietà si impegnava infine ad effettuare investimenti nel reparto rifinizione.
Ma il raggiungimento di questo accordo significò per i lavoratori del Pecci soltanto una tregua. Nell’estate del 2001 cominciarono difatti a circolare voci sempre più insistenti di ulteriori tagli al personale: il 25 luglio i sindacati furono informati delle intenzioni dell’azienda nel corso di un incontro svoltosi all’Uip. Verso la metà di settembre, la ditta, che contava allora duecentocinquanta dipendenti e sviluppava un fatturato di cento miliardi, aprì la procedura di mobilità per ben settantatré lavoratori. I tagli riguardavano tutti i reparti, ad eccezione dell’orditura, ed erano così distribuiti: cinquantadue in filatura a pettine (della quale era previsto lo smantellamento, a meno che non si fosse trovato un nuovo socio di minoranza cui affidarne la gestione), cinque in tessitura, due in tintoria, sette in rifinizione ed altrettanti nei servizi generali. La proprietà presentò contestualmente un piano di ristrutturazione che contemplava dieci miliardi di investimenti in due anni e la divisione dell’azienda in due società: una di filati per maglieria diretta da Marrani, ed un’altra, a capo della quale sarebbe andato Filippo Busi, nipote di Alberto Pecci, che, pur non abbandonando il settore tradizionale della drapperia, avrebbe puntato su una linea di tessuti donna di qualità medio-alta.
Le organizzazioni sindacali proclamarono per il 19 settembre un’ora e mezzo di sciopero con assemblee alla fine di ogni turno, dichiarandosi assolutamente contrarie alla chiusura della filatura a pettine. La nuova vertenza era molto più complicata, rispetto a quella conclusasi con l’accordo del 27 luglio 2000, perché, stavolta, pochi fra gli operai in esubero erano in procinto di accedere alla pensione e nella filatura a pettine (che la ditta voleva assolutamente chiudere, giudicandola non più competitiva) erano in forza molte donne, la cui ricollocazione sul mercato del lavoro non sarebbe certo stata semplice. Secondo l’azienda, i tagli erano funzionali alla riconversione su un prodotto per donna di qualità medio alta ed alla necessità di riprendere la produzione di divise militari in Romania, dove era stato aperto da poco un ufficio (le commesse militari, perdute a causa della concorrenza di altri paesi, erano state pari al 15% del fatturato dell’azienda nel biennio precedente). Il sindacato chiedeva che la filatura non cessasse l’attività, una verifica del numero degli esuberi ed infine la riqualificazione ed il riassorbimento in altre ditte dei licenziati.
Il primo incontro fra le parti, svoltosi il 21 settembre, ebbe un esito interlocutorio: la ditta si disse disponibile a cercare di ricollocare le persone che avrebbero perso il posto di lavoro, ma ribadì la volontà di chiudere la filatura. Il mondo della politica si interessò della grave controversia, ma senza ottenere risultati concreti. Il 25 settembre i lavoratori del Pecci scioperarono per un’ora e mezzo e tennero un’assemblea davanti ai cancelli dello stabilimento, confermando la loro recisa opposizione alla chiusura della filatura a pettine. Il 5 ottobre ebbe luogo un nuovo incontro fra l’azienda ed i sindacati, che però non fece registrare alcun passo avanti nella trattativa. In seguito al fallimento di questo incontro, tre giorni dopo gli operai del Pecci si astennero per un’ora e mezzo dal lavoro, tenendo un’altra assemblea fuori dai cancelli della fabbrica.
Le parti tornarono ad incontrarsi il 17 ottobre e la difficile vertenza giunse finalmente ad un punto di svolta. Il giorno successivo il sindacato informò i lavoratori dei termini dell’ipotesi di accordo siglata con la controparte: gli esuberi scendevano da settantatré a trenta ed erano così ripartiti: diciotto in filatura, sei in rifinizione, uno in tintoria e cinque tra gli impiegati. I lavoratori da collocare in mobilità sarebbero stati scelti – in accordo con quanto previsto dalla legge 23 luglio 1991, n. 23 (art. 5) – tenendo conto di tre parametri: il carico familiare, il maggiore o minore grado di anzianità e le esigenze tecnico-produttive ed organizzative. La filatura a pettine non sarebbe rimasta all’interno della fabbrica, ma, conformemente al piano di ristrutturazione aziendale, sarebbe passata, dal 1° gennaio 2002, alla Pecci filati (una nuova azienda, diretta da Marrani, che sarebbe nata dallo scorporo delle attività filati dal Lanificio Pecci). La Pecci filati, più piccola della filatura che faceva parte del vecchio lanificio a ciclo completo, avrebbe lavorato non solo per l’altra azienda prevista dal piano di ristrutturazione (quella specializzata nella produzione di tessuti, di cui avrebbe preso le redini Filippo Busi) ma anche in conto terzi. L’Uip si impegnava formalmente a favorire la ricollocazione degli operai licenziati (quest’ultimo era un forte elemento di novità in quanto a Prato la parte datoriale non aveva mai assunto in precedenza un impegno del genere). Dopo l’approvazione della bozza di accordo da parte dell’assemblea dei lavoratori, l’intesa definitiva fu siglata il 29 ottobre da Marrani per la ditta, da Manuele Marigolli per la Cgil, da Calogero Aronica per la Cisl e da Angelo Colombo per la Uil. Così, in poco più di un anno, tra uscite volontarie e licenziamenti, la proprietà era riuscita a ridurre in modo consistente il numero dei dipendenti, ed anche l’intesa sottoscritta il 29 ottobre poteva dirsi, dal suo punto di vista, soddisfacente dato che, stando a quanto fonti aziendali avevano lasciato trapelare, pur avendo parlato di settantatré esuberi, il vero obiettivo della ditta era quello di ottenerne fra i trantacinque ed i cinquanta.
Ma la serie dei tagli non era finita. Come si è accennato, dal piano di ristrutturazione aziendale del 2001 erano scaturite due ditte, e precisamente la Pecci filati (diretta da Marrani) e la Pecci tessuti (diretta da Busi). Ai primi di dicembre del 2002 quest’ultima informò le organizzazioni sindacali della necessità di ridurre il personale a causa della diminuzione del fatturato. Stavolta gli esuberi erano una ventina e sarebbero stati distribuiti in tutti i reparti, ma, stando alle voci che circolavano, essi si sarebbero concentrati soprattutto in tessitura ed in tintoria. Quanto alla tessitura (anche se negli ultimi anni erano stati acquistati nuovi telai, assunti nuovi tecnici e si era cominciato distinguere la tessitura vera e propria da quella a campioni), sarebbe stato eliminato il turno di notte. La tintoria in rocche era invece destinata alla chiusura: il lavoro scarseggiava e nell’arco di una giornata lavorativa veniva tinto solo qualche chilo di filato, a fronte di una potenzialità di quattromila chili al giorno. I tagli avrebbero forse interessato anche la tintoria in pezze, la rifinizione e gli uffici. Era questa un’altra tappa del processo di disimpegno della proprietà dal settore tessile, in linea con la strategia di diversificazione già avviata negli anni Sessanta con l’acquisto di una quota rilevante della Segnalamento marittimo ed aereo, una ditta che produceva radar per uso militare.
Il processo di ridimensionamento dell’azienda si concluse nel giro di qualche anno col suo smantellamento, reparto dopo reparto. Oggi – anche se la Pecci filati è ancora aperta a Capalle e, con un numero di dipendenti stimabile fra venti e quarantanove, rientra nella classe di fatturato che va dai tredici ai venticinque milioni di euro – la famiglia Pecci ha interessi in vari settori ed il tessile non è più il suo core business. Di particolare rilievo è il ruolo di Alberto Pecci all’interno della El.En., una società per azioni con sede a Calenzano che si occupa della produzione di sistemi laser: Pecci possiede infatti il 10,40% delle azioni e siede in consiglio d’amministrazione. Per avere un’idea dell’importanza di questa azienda, basti pensare che, fondata a Firenze nel 1981, la El.En. è oggi capofila di un gruppo formato da più di trenta imprese sparse in tutto il mondo: al 31 dicembre 2020 il gruppo vantava un fatturato consolidato di circa quattrocentodieci milioni di euro, un utile netto consolidato di venti milioni ed impiegava circa milleseicento dipendenti, di cui settecento in organico alla capogruppo.

 




Il lavoro femminile a Campo Tizzoro

La Società Metallurgica Italiana – Smi – nacque il 14 aprile 1886 a Roma. Già a partire dall’anno seguente iniziarono ad aprire i primi stabilimenti in Toscana e di particolare rilevanza furono quelli della Montagna Pistoiese: Limestre, Mammiano e Campo Tizzoro. La costruzione di quest’ultimo iniziò nel 1910 e divenne operativo a partire dall’anno seguente. Campo Tizzoro, trovandosi in un fondovalle isolato e stretto tra ripidi monti, veniva considerato un posto protetto da possibili attacchi, era inoltre una zona in cui era presente abbondante «manodopera a basso costo, di provenienza rurale e perciò non ancora politicizzata o sindacalizzata».

L’arrivo della Smi sull’Appenino toscano produsse numerosi cambiamenti a livello sia sociale che culturale: migliaia di persone vennero inserite nel lavoro salariato in zone rurali e montane, inoltre, nel 1915, la Smi contribuì alla costruzione della Ferrovia Alto Pistoiese e anche al finanziamento della rete telefoninca sulla montagna. Ciò che caratterizzava gli stabilimenti della Smi nella zona della Montagna era «l’autoritario disciplinamento delle maestranze, la volontà di consolidare nei lavoratori un sentimento di appartenenza all’azienda e di acquietare insubordinazioni», cose che vennero conseguite sia all’interno che all’esterno della fabbrica. Se da una parte la Smi era dunque centro propulsore del miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti e oprattutto degli operai della zona, dall’altra imponeva una presenza quasi autoritaria. A tal proposito, la Società realizzò numerose infrastrutture sociali che avevano lo scopo di pianificare la vita dei dipendenti e della comunità a vari livelli: culturale, ricreativo, sportivo, didattico. A Campo Tizzoro – zona deserta prima dell’avvento dello stabilimento industriale – venne per esempio creato quello che fu battezzato “Villaggio Orlando”, che racchiudeva istituti scolastici, impianti sportivi, ma anche un museo, una biblioteca, una chiesa, oltre a numerosi alloggi per le famiglie. Venivano organizzati corsi serali di scuola elementare per gli operai e le operaie analfabeti, oltre al cinematografo e alla filodrammatica.

Durante la Prima guerra mondiale, la Smi fu la principale fornitrice delle munizioni per l’esercito e la marina, in quel periodo venne inoltre avviata la costruzione del nuovo impianto di Fornaci di Barga, che cominciò a produrre nel giugno 1916. In occasione dei periodi bellici, la Società metallurgica era stata dichiarata «industria ausiliaria», per questa ragione usufruì non solo di agevolazioni nell’approvigionamento di materie prime e di privilegi relativi alla manodopera, ma anche dell’esonero delle maestranze maschili dal servizio militare, cosa che ebbe sicuramente delle conseguenze nella vita delle comunità locali.

Negli anni Venti, la produzione della Smi non fu costante: nel 1926, in seguito a un momento di crisi, recuperò, per poi retrocedere nuovamente con la crisi del ’29, tanto che a Campo Tizzoro le maestranze erano circa 700 nel 1927, mentre nel 1930 passarono a essere solo 126.

Per quel che riguarda il rapporto della fabbrica di Campo Tizzoro con il fascismo, soprattutto nel periodo dalla guerra di Spagna, emerse l’avversione verso il regime, tanto che nel 1943 cominciarono i rallentamenti per sabotare la produzione di munizioni e in seguito la S.A.P. – Squadra di Azione Patriottica – utilizzò le gallerie sotterranee della fabbrica per trafugare viveri, armi e munizioni destinate ai partigiani. Anche a Fornaci si registrano posizioni antifasciste tra gli operai.

Seguì, nel secondo dopoguerra, un momento di crisi e una diminuzione della manodopera, che portò a numerose mobilitazioni e proteste nel pistoiese in opposizione ai licenziamenti. Complice sicuramente anche il clima che si respirava a livello nazionale e internazionale in quegli anni, ci fu un inaspriamento del rapporto tra lavoratori e direzione aziendale, oltre a forti discriminazioni in base all’appartenenza politica: per esempio a Campo Tizzoro i comunisti furono i primi a essere licenziati.

Nel 1976, la Metallurgia Italiana si dotò di una nuova organizzazione finanziaria e le imprese produttive vennero concentrate nel gruppo La Metalli Industriale S.p.A (Lmi), così che la Smi diventò holding di un gruppo industriale metallurgico internazionale.

Una particolarità dell’industria metalmeccanica della zona della Montagna Pistoiese fu la forte presenza femminile, soprattutto a partire dal periodo del primo conflitto mondiale: nel 1918 le donne a Campo Tizzoro rappresentavano il 44,7% della manodopera, ma già da prima della Grande Guerra vi era comunque una partecipazione femminile considerevole all’interno dell’industria. Nonostante il brusco calo dell’occupazione delle donne nel secondo dopoguerra, il ruolo avuto dalle operaie precedentemente aveva permesso loro di creare un rapporto molto stretto con la fabbrica, di conseguenza iniziarono a ottenere ruoli sempre più importanti e maggiori responsabilità all’interno degli stabilimenti.

Fu proprio a Campo Tizzoro che Gabriella Venturi – sindacalista attiva tra fine anni ’60 e inizi 2000 – mosse i primi passi all’interno della fabbrica. Le vicende che hanno caratterizzato la sua vita sono ricostruibili attraverso i pochi documenti di archivio conservati, ma anche grazie alle parole di chi l’ha conosciuta personalmente: amici, compagni e parenti.

Gabriella nacque il 29 dicembre 1942 a Pistoia e visse tutta la vita a Pracchia, in via Fontana, dove, non essendosi mai sposata, abitò con i genitori. Non si ha una data precisa del suo ingresso alla Smi di Campo Tizzoro come operaia, probabilmente ciò avvenne attorno ai diciotto anni. Per quel che riguarda l’istruzione, sappiamo che Gabriella portò a termine il perscorso della scuola media, ma non frequentò mai le superiori, e, presubilmente, prima di iniziare il suo percorso nell’industria metallurgica, svolse qualche lavoro saltuario.

Proveniente da una famiglia profondamente credente, inizialmente s’iscrisse alla Cisl, in quanto sindacato più vicino al mondo cattolico e quindi alla sensibilità con la quale era cresciuta. In seguito avvenne il passaggio dalla Cisl alla Cgil, nei primi anni Settanta, un passaggio che, nelle loro interviste, Renzo Innocenti e Simonetta Bartoletti descrivono come qualcosa che avvenne in maniera naturale e repentina[1]. La nipote Simonetta sottolinea il fatto che la svolta, quindi il passaggio dal sindacato cattolico alla Cgil, all’interno della famiglia di Gabriella aveva avuto un certo peso, quasi come se la donna avesse tradito alcuni ruoli e alcuni valori con i quali era cresciuta. Simonetta racconta che il padre di Gabriella si ritrovò presto a dover fare i conti con la realtà e ad adeguarsi a essa: i tempi erano cambiati e le cose «stavano andando avanti più vivacemente rispetto a quello che lui aveva vissuto». La trasformazione di Gabriella fu radicale: non solo entrò nella Cgil, ma si iscrisse al Partito comunista italiano nel 1974. Oltre a essere iscritta al Pci, la nipote Simonetta riporta che Gabriella, nel 1984, era iscritta anche all’Anpi. Purtroppo non ci sono elementi che permettono di attestare se fosse iscritta anche precedentemente.

Venne licenziata, per motivi non del tutto chiari, dalla Smi di Campo Tizzoro probabilmente nel 1983 o nel 1984, infatti le ultime attestazioni della sua presenza nella fabbrica trovate in archivio risalgono al 27 gennaio 1983, quando venne eletta, come anche precedentemente, nel reparto Nastro[2]. Nei primi anni Ottanta, all’interno della Lmi vennero eliminati migliaia di posti di lavoro, tanto che si passò dai circa 7’000 occupati nel 1980 ai 3’000 nel 1985. Dopodichè la ritroviamo assunta in Cgil il 2 gennaio 1985 e Simonetta Bartoletti afferma che Gabriella è stata la prima donna in Segreteria Confederale, cosa che, purtroppo, non si può confermare attraverso i documenti consultati.

Renzo Innocenti – segretario provinciale quando Gabriella faceva parte della segreteria Fiom – nella sua intervista racconta che il suo primo incontro con Venturi avvenne nel periodo dell’autunno caldo, in occasione di un’occupazione – probabilmente la prima – dell’Istituto tecnico industriale di Pistoia frequentato dallo stesso Renzo. Gabriella, già dipendente della Smi di Campo Tizzoro, arrivò alla scuola con una delegazione. Si tratta di un evento che conferma il fatto che anche a Pistoia il movimento degli studenti aprì un fronte di confronto e unità con gli operai. Innocenti afferma che, fin dall’inizio, Gabriella gli diede l’impressione di essere una combattente, una persona molto concreta, pragmatica, tenace e una donna che emergeva in un mondo di uomini. Del suo animo guerriero si hanno delle attestazioni grazie ai documenti di archivio. A tal proposito, colpisce un evento in particolare: durante le assemblee di fabbrica del 20 ottobre 1971, viene indetto, attraverso il volantino «No! Ai 400 licenziamenti», uno sciopero per il giorno seguente. In quell’occasione, insieme ad alcuni compagni, Gabriella venne accusata di aver organizzato una manifestazione non autorizzata, di aver ostacolato la libera circolazione e di avere usato violenza contro alcune guardie giurate. Per queste ragioni, venne citata a comparire il 21 novembre 1973.

Gabriella aveva inoltre un’attenzione e un legame profondo nei confronti della Montagna Pistoiese, sentiva la necessità di scommettere su un suo ruolo più forte e visibile, in modo tale da contribuire a contrastare la perdita del ruolo industriale e manifatturiero dovuto al ridimensionamento della presenza della Smi, ma voleva anche impedire la chiusura di aziende occupate in altri settori nella zona della Montagna. Nonostante Renzo Innocenti non ricordi che Gabriella abbia mai seguito le lavoratrici a domicilio, in un documento risalente al 21 maggio 1985 e a lei destinato, emerge che la donna era stata nominata come componente della Commissione Comunale per il lavoro a domicilio «per il comune di San Marcello Pistoiese in rappresentanza dei lavoratori».

Il rapporto di Venturi con il movimento femminista è interessante, dal momento che, a partire dal secondo dopoguerra, in Italia ci fu un radicale mutamento all’interno dei sindacati, sia della partecipazione femminile, sia dell’organizzazione delle strutture delle donne. La maggior parte della nuova generazione delle sindacaliste aveva preso parte alle vicende che avevano caratterizzato il loro tempo: avevano beneficiato della scolarizzazione di massa e in molte avevano preso parte al movimento del 1968. Si erano inoltre distanziate e avevano iniziato a guardare con scetticismo alcune posizioni delle loro precorritrici. Dall’intervista di Renzo Innocenti emerge però il fatto che Venturi non sembrerebbe aver mai avuto stretti rapporti con il femminismo, anzi, in diverse occasioni pare abbia criticato alcune posizioni radicali del movimento. Simonetta Bartoletti ricorda che Gabriella era spesso in giro, in diverse occasioni si recava anche all’estero, e più che cercare di trovare un proprio spazio in quanto donna all’interno del sindacato, con i suoi tempi e le sue differenze, sembrava piuttosto voler adeguarsi a uno stile di vita che solitamente caratterizzava la sfera maschile. Era sicuramente molto legata alla famiglia, ma allo stesso tempo era sempre sui fronti, passava poco tempo in casa. Non erano molte le donne disposte a dedicare tutto il loro tempo a un impegno così totalizzante e questo fu sicuramente un elemento che colpiva tutti coloro con i quali si trovava a confrontarsi Gabriella. Nonostante questa presa di distanza dal movimento femminista, Gabriella era comunque consapevole delle difficoltà, delle differenze e delle disparità di genere all’interno del movimento sindacale per i ruoli di responsabilità e di direzione.

Andata in pensione nei primissimi anni 2000, Gabriella si spense nel 2002, ma il suo ricordo è sopravvisuto a lei. Una prova dell’affetto e dell’importanza che ha avuto la donna all’interno del sindacato si ha in occasione della tredicesima edizione di CGIL INCONTRI del 2009, che si svolse tra il 23 giugno e il 5 luglio. L’incontro del 2 luglio con i ragazzi del campo di lavoro Liberarci dalle Spine s’intitolava «….dedicato alla Lella (Gabriella Venturi) “Racconti di lotte al femminile”», coordinato da Maria Cangioli e con la partecipazione di Anna Goretti.

Martina Lopa studia storia all’Università di Firenze, dove sta lavorando a una testi di laurea sulle prime organizzazioni femminili e l’animalismo nell’800, e collabora con la Fondazione Valore Lavoro, per la quale sta curando una mostra sul 70° anniversario della prima Conferenza nazionale della donna lavoratrice svoltasi a Firenze il 23-24 gennaio 1954.




La vicenda amianto alla Breda di Pistoia.

Raccontare la storia dell’amianto e del suo utilizzo in Breda ferroviaria non è possibile senza prima un breve cenno alle origini più antiche. I primi accenni all’utilizzo dell’amianto si trovano negli scritti di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), il quale ricorda gli schiavi impegnati nella produzione degli stoppini per le lampade, che per proteggersi usavano una sorta di mascherina di tela; negli scritti di Marco Polo, poi, in particolare ne «Il Milione», si leggono descrizioni delle sue proprietà ignifughe. Il nome amianto, infatti, significa «incorruttibile» ed è sinonimo di asbesto, «inestinguibile». Già questo ne evidenzia alcune delle caratteristiche fondamentali, che lo resero un materiale ideale per le produzioni industriali. Prodotto in fibre, il suo primo utilizzo nel settore manifatturiero fu nelle tessiture, ma è dal secondo dopoguerra, con l’esplosione dell’industrializzazione, che l’amianto si diffuse in maniera massiva in tanti settori grazie alle sue qualità di coibentazione e isolamento: dalla produzione di navi, aerei e materiale rotabile ferroviario, all’utilizzo nell’industria chimica e alla produzione di energia elettrica.

Nella produzione di materiale rotabile è importante ricostruire la vicenda di Pistoia, con la lunga vertenza che si è tenuta negli anni ’90 alla Breda ferroviaria per il riconoscimento dei benefici pensionistici legati all’amianto e la lunga vicenda penale per l’accertamento delle responsabilità dei dirigenti dell’azienda. La produzione di treni viene avviata a Pistoia nei primi anni del ‘900, con l’acquisto da parte delle «Officine San Giorgio» della carrozzeria di Aiace Trinci. Nel secondo dopoguerra l’azienda verrà poi acquistata dall’IRI, che ne manterrà la proprietà fino al 1968, quando verrà acquistata dalla «Società Breda Ferroviaria», a sua volta proprietà di un altro attore del sistema delle partecipazioni statali, l’«EFIM – Ente Partecipazioni e Finanziamento Industria manifatturiera»[1]. In questi anni si afferma con forza l’utilizzo dell’amianto «a spruzzo» per coibentare le carrozze dei treni.

Valter Bartolini, sindacalista Cgil recentemente scomparso, ha ricordato così quella fase: «Fino al 1979 e poi ancora un po’ a seguire venivano coibentate con l’amianto, cioè venivano sparati almeno 500 chili [di amianto, n.d.a] per carrozza di cui almeno un terzo non si appiccicava… cioè, usavano una specie di lanciafiamme che da una parte schizzava a pressione la colla e dall’altra l’amianto macinato, perché a fibra lunga non andava bene… lo dovevano macinare prima e lo sparavano. Probabilmente tra i 100 e i 150 chili per carrozza rimanevano nell’atmosfera. All’inizio lo facevano in un’area di produzione vagamente isolata… C’era questo telo di nylon e dietro ci spruzzavano le carrozze» (intervista effettuata a Pistoia l’8 novembre 2022).

Dalla metà degli anni ’80 la spruzzatura dell’amianto non sarà più il metodo standard per la coibentazione delle carrozze (seppure almeno fino al 1992 continuino ad essere utilizzati dei componenti in amianto), ma non sarà l’unico utilizzo dell’amianto in fabbrica. Il 1973 è l’anno dell’inaugurazione della nuova sede della Breda a Pistoia, dove sorge tutt’ora, in via Ciliegiole. Costruito con ampio uso di cemento-amianto, lo stabilimento sarà oggetto di una scoibentazione, effettuata nel 1987-’88 in maniera approssimativa: durante l’operazione, la polvere d’amianto cadeva direttamente sui reparti produttivi, causando anche un elevato inquinamento ambientale. Come ha detto Daniele Ferri, ex operaio Breda: «Lavoravano la notte, e noi la mattina si trovava i pezzi di eternit per terra… Mettevano una rete, per le cadute più che altro, ma la polvere girava, il tendone di nylon ‘unn’è che teneva la polvere… Noi ‘un si sapeva nulla, tant’è che la mattina appena si arrivava noi si pigliava la pistola a aria e si soffiava il banco che era pieno di questa polverina bianca…» (intervista effettuata a Pistoia il 1º febbraio 2023).

In questo quadro si inserisce la legge 257/1992 che mette al bando l’amianto in Italia, e che innesca anche in fabbrica la piena consapevolezza della sua pericolosità, non più considerabile come una questione generica di pericolosità delle «polveri», com’era definito fino ad allora. La norma richiedeva un’esposizione minima di almeno 10 anni all’amianto per poter usufruire dei benefici pensionistici, ovvero la possibilità di avere accesso alla pensione prima del tempo. Questa misura sottendeva ad una terribile verità: l’esposizione alla polvere d’amianto poteva, potenzialmente, accorciare il tempo di vita delle persone, delle lavoratrici e dei lavoratori. Ai sensi della normativa l’esposizione era comprovabile in pochi modi: era riconosciuta automaticamente qualora l’azienda fosse soggetta al pagamento dell’assicurazione supplementare dell’INAIL per l’asbestosi oppure in caso di insorgenza di malattie amianto-correlate, mentre, qualora non sussistesse almeno una delle due condizioni precedenti, era obbligatoria una dichiarazione dell’azienda che certificasse i periodi d’esposizione.

Nasce così la vertenza amianto alla Breda, che si lega a doppio filo anche al percorso di smantellamento delle partecipazioni statali che vedrà i lavoratori impegnati nella difesa dello stabilimento dal rischio della chiusura, poi evitata con l’acquisto da parte di Ansaldo di tutto il gruppo Breda da EFIM. Inizialmente, infatti, la direzione aziendale decide di non rilasciare le certificazioni, al fine di evitare possibili implicazioni penali per i dirigenti e il danno di immagine di identificare la Breda come «la fabbrica della morte», oltre a «boicottare» di fatto il prepensionamento di lavoratori in possesso di quelle professionalità necessarie a portare avanti il lavoro. Su queste stesse tematiche, alcuni anni più tardi, la direzione deciderà di inserirsi nel processo civile intentato dai lavoratori contro l’INAIL per vedersi riconoscere un’estensione dell’esposizione. Posizione contro la quale la Segreteria Provinciale della FIOM presentò un esposto in procura nel 1995, atto che segnò l’avvio dell’indagine «Breda» sull’amianto.

La vertenza per il riconoscimento dei benefici si concluderà, dopo numerosi scioperi e manifestazioni, con l’emanazione degli atti di indirizzo da parte del governo D’Alema, ideati dal Ministro Salvi dei Comunisti Italiani nel 2001. Non mancheranno però numerosi strascichi polemici in fabbrica: qui un sindacato autonomo, i CUB, assumerà il ruolo di contestatore della politica del centrosinistra. La critica verte sul fatto che se da una parte il governo aveva avviato i meccanismi che hanno garantito un parziale riconoscimento dei diritti dei lavoratori, mettendo fine al contenzioso nelle aule di Tribunale, dall’altra non seppe o non volle superare il vincolo dei 10 anni minimi di esposizione all’amianto, obiettivo realizzabile visti i numerosi atti parlamentari presentati dallo stesso centrosinistra. È interessante constatare come il malcontento verrà poi raccolto, nel 2004, dall’UGLM, sigla sindacale forte di un rapporto privilegiato con il nuovo esecutivo di centrodestra: questa rivendicherà una possibilità di colloquio riuscendo anche ad ottenere una rappresentanza nelle RSU aziendali, ma nonostante questo canale il Governo procederà poi allo smantellamento delle tutele minime previste dalla legge 257/1992.

Ancora maggior rilievo assume quanto avviene con la conclusione del processo penale, il capitolo pistoiese di quella che lo storico Enrico Bullian ha chiamato la «stagione dei processi». Il processo fu accompagnato da un’animata discussione negli organismi del Comune sulla possibilità di costituirsi parte civile in favore dei lavoratori, che vedrà prevalere il «no» alla costituzione con un voto di misura in Consiglio Comunale. Di grande rilievo fu anche una parallela trattativa sindacale per definire un rimborso per il danno alla salute dei lavoratori, rivolto anche ai familiari interessati, conclusa nel novembre del 2002 e oggetto di dibattito e strumentalizzazione da parte del sindacato autonomo e dell’UGL in fabbrica.

Il 1º giugno del 2004 viene finalmente emessa la sentenza, che scagiona tutti i dirigenti aziendali; negli stessi giorni il Congresso Nazionale della FIOM voterà compattamente per stigmatizzare l’ingiustizia della sentenza. L’esito processuale contraddiceva quanto avvenuto, ad esempio, a Napoli per la Sofer, in una vicenda analoga. Si tratta di un altro capitolo buio di quella «stagione dei processi», che a Porto Marghera e a Sesto San Giovanni, come a Pistoia, ha lasciato le morti senza colpevoli.

Nota
1. La produzione di treni resterà nel sistema delle partecipazioni statali fino al 2013, quando Ansaldobreda verrà venduta ad Hitachi Rail Italy. Negli anni ricordati si afferma la centralità dei lavoratori della fabbrica nella vita politica pistoiese. Proprio nel 1948, durante una manifestazione in solidarietà dei lavoratori della SMI, viene ucciso dalla Celere un lavoratore della «San Giorgio», Ugo Schiano, evento ricordato in un articolo di Stefano Bartolini su ToscanaNovecento: https://www.toscananovecento.it/custom_type/fu-una-mattinata-tremendissima/




Lavoratori di tutto il mondo unitevi

Nella notte fra il 3 e il 4 marzo 2022 il mondo è rimasto con il fiato sospeso alla notizia del bombardamento russo della centrale nucleare di Zaporizhzhia, in Ucraina, una fra le più grandi d’Europa. Un evento che ha suscitato sdegno, timori, ansie e paure apocalittiche, anche sulla scorta della memoria del disastro di Cernobyl del 1986, sempre in Ucraina. Ma una notizia che in Toscana, per la precisione a Pistoia, ha anche risvegliato molti ricordi e senso di vicinanza e solidarietà alla popolazione colpita dalla guerra, che si sono concretizzati in una serie di telefonate e messaggi al segretario provinciale della Camera del lavoro CGIL. Con il corso della storia cambiano gli stati, i confini, i sistemi di traslitterazione dall’alfabeto cirillico a quello latino, ma non erano in pochi a capire subito che si trattava proprio di quella città a lungo gemellata con il sindacato pistoiese e al tempo dell’Unione sovietica nota in Italia con il nome di Zaporojie (o con sue varianti quali Zaparojie, Zaporojki…). Chi si faceva vivo intendeva segnalare le proprie emozioni nel sentire il nome di quel luogo carico di ricordi associato all’immane tragedia della guerra, ricercando al tempo stesso tracce di quella storia e di quella memoria. Tracce che fortunatamente sono ben custodite nell’archivio storico della Camera del lavoro di Pistoia gestito dalla Fondazione Valore Lavoro, dove è conservata un’intera busta titolata proprio Zaporoje URSS, che conserva tutti i documenti del gemellaggio
Si tratta di una vicenda di cui fu promotrice proprio la CGIL locale nel 1969. Era la vigilia dell’Autunno caldo e in Italia già si respirava l’aria delle mobilitazioni degli anni Settanta, mentre nel mondo continuava il processo di decolonizzazione. L’internazionalismo, l’amicizia fra i popoli, l’unità dei lavoratori erano temi molto sentiti. L’occasione fu data da un incontro fortuito fra il Segretario della CGIL di Pistoia Giuliano Lucarelli e la delegazione dei sindacati sovietici, fra cui il Segretario generale Nicolai Romanov, al congresso nazionale della Confederazione a Livorno nel giugno di quell’anno. A seguito di uno scambio reciproco informale di disponibilità ad ospitare delegazioni sindacali, il 19 giugno e il 2 agosto Lucarelli scrisse a Mosca a Romanov per finalizzare l’accordo, allegando una scheda descrittiva sulla provincia di Pistoia con specificati i settori industriali presenti e lasciando la scelta della città da gemellare ai sovietici, dichiarando al contempo la volontà dei pistoiesi di ospitare per primi la delegazione in visita. Lucarelli aggiungeva anche che di recente un sindacalista pistoiese, Angiolo Mungai, si era recato in visita in URSS ospite dei sindacati delle istituzioni di Stato, tornando entusiasta dell’esperienza vissuta[1]. Il 12 agosto da Mosca veniva comunicato che il Consiglio dei sindacati di Zaporoje aveva risposto favorevolmente alla richiesta dei pistoiesi[2]. Ne nasceva uno scambio epistolare tra l’organizzazione di Pistoia e quella di Zaporojie, con il francese usato come lingua franca, che si prolungava per alcuni mesi, con alcuni ritardi nelle risposte dovuti anche, come apprendiamo da una lettera di Lucarelli del 14 aprile 1970, «à l’intense développement des luttes ouvriéres en Italie ces derniers mois».
Alla fine la prima delegazione sovietica da Zaporojie arrivò il 2 luglio 1970. Nel dare notizia della visita a enti locali, associazioni ed aziende del territorio la CGIL fornì anche una descrizione della città gemellata attraverso l’opera sindacale: «La regione di Zaporojié che si estende su un territorio di 27mila kmq con una popolazione di 1 milione e 700mila abitanti, è un importante centro industriale nel Sud dell’Ucraina ai confini con la Crimea. La città omonima, che conta 650mila abitanti, oltre che grande centro industriale è un importante centro culturale e di istruzione altamente qualificato. L’acciaieria di Zaporojié produce 4 milioni e mezzo di tonnellate di acciaio all’anno e oltre 3milioni di tonnellate di laminati e profilati destinati alle industrie ferroviarie, trattoristiche, automobilistiche. Occupa 17mila operai (di cui 6.000 donne) 1.400 ingegneri e tecnici, 500 impiegati. Un altro colosso è la “Zaporojski Transpormaber Zavod”, che produce attrezzature elettriche e soprattutto trasformatori per 50 milioni di Kilovolts-ampere all’anno. La sua manodopera, in larga parte formata da giovani e ragazze, è costituita da 12.000 operai e 2.300 tecnici e impiegati. Anche l’agricoltura è altamente sviluppata. Zaporojié è un importante centro culturale con 135 scuole generali dell’obbligo con 10 anni di frequenza, 10 Istituti Tecnici e Facoltà di Ingegneria, di Medicina, di Pedagogia, di Ricerca scientifica ecc. Nella città vi sono 128 Biblioteche, 30 cinema, studio televisivo, il Palazzo della Cultura ecc.» [3].
Il programma della visita, che si prolungò fino all’11 luglio, non trascurava niente e portava i sovietici a stretto contatto con il territorio. Furono invitati ad incontrare la delegazione gli altri sindacati, CISL e UIL, i partiti PCI, PSI e PSIUP, l’ARCI[4], furono richiesti materiali per organizzare visite alle bellezze artistiche della città all’Ente provinciale per il turismo, si chiese a Renato Risaliti, storico dell’URSS e dell’Europa orientale ed al tempo impegnato anche nella politica locale, di fornire la sua opera di conoscenza linguistica[5] , furono organizzati gli incontri con i comuni e la Provincia e con le aziende del territorio ed anche ì colazioni con le diverse case del popolo, fra cui quella del Teso sulla montagna[6]. Di numerose aziende disponiamo della risposta positiva ad accogliere la delegazione: Arco di Montecatini (confezioni); Unione cooperativa della Valdinievole; Fratelli Capecchi piante[7]. Dal programma sappiamo anche che la delegazione visito la Supercoop di Montecatini, le municipalizzate ad Agliana, la centrale del latte, il centro riconversione rifiuti solidi, lo zoo, l’azienda Franchi, la cooperativa Di Vittorio, l’oleificio cooperativo di Lamporecchio. La SMI rispose freddamente comunicando di aver trasmesso l’invito alla propria Direzione generale[8], poi se ne perdono le tracce. La Breda invece si rifiutò di accogliere la delegazione nel proprio stabilimento, provocando la reazione ferma della CGIL che scrisse all’Intersind accusando la Direzione aziendale di addurre motivi fittizi[9]. Nel saluto alla delegazione, ricevuta in Camera del lavoro, Lucarelli rivendicava le lotte dell’autunno del ’69 che avevano coinvolto numerose categorie anche localmente e rilanciava l’unità internazionale dei lavoratori per la pace e contro il capitalismo e l’imperialismo: «È con questa visione internazionalista e di unità del movimento operaio internazionale , che abbiamo voluto allacciare rapporti fraterni con i rappresentanti dei sindacati di Zaparojié per conoscersi più a fondo, nell’intento di contribuire tutti assieme alla battaglia generale che i lavoratori di tutto il mondo conducono per la pace, contro l’imperialismo, contro le forze totalitarie e fasciste, per l’emancipazione dei lavoratori, la libertà dallo sfruttamento capitalistico»[10].
Nel 1972 fu la volta della visita dei pistoiesi a Zaporoije. Inizialmente doveva svolgersi nel 1971 ma un’improvvisa e grave malattia di Lucarelli – che in seguitò venne a mancare – fece saltare il viaggio. Nonostante la grave perdita del promotore del gemellaggio l’iniziativa andò avanti e la delegazione che si recò in URSS nel 1972 fu composta anche da un rappresentante della CISL, Sauro Gori, su esplicita richiesta dei sovietici di includere gli altri sindacati italiani[11], e fu guidata da Silvano Cotti, nuovo segretario della Camera del lavoro. Il gruppo, composto anche da Duilio Puccianti del consiglio di fabbrica della SMI e da Paolo Innocenti della FILLEA di Montecatini, arrivò in URSS il 30 agosto. La stampa sovietica diede risalto alla visita dei sindacalisti italiani. Oltre ai consueti incontri nelle sedi sindacali, la delegazione fu portata a visitare la diga sul Dnepr, i servizi sociali, la palestra sul ghiaccio, l’acciaieria, le case di riposo, i centri culturali, i gruppi di pionieri, i servizi sanitari, incontrò il sindaco, si recò sul mare d’Azov dove visitò anche un sovchoz e un asilo. Tra le altre, il gruppo visitò anche un’azienda dove venivano prodotti i materiali oleosi per lo stabilimento FIAT di Togliattigrad. Durante la permanenza uno degli italiani, Puccianti, si ammalò e venne ricoverato in una clinica sovietica, dove rimase in osservazione per diversi giorni essendogli stati diagnosticati problemi renali seri che vennero curati in loco. Di conseguenza il Puccianti rientrò in Italia successivamente al resto del gruppo. In una lettera inviata a Pistoia durante la degenza esprimeva una valutazione che racchiudeva tutte le speranze che ancora buona parte degli operai italiani riponevano nell’URSS a quel tempo: «vi dirò che i medici sono sorpresi che nelle attuali condizioni fisiche si possa ancora essere operai metalmeccanici, anche se valutiamo tutta l’attenzione ed il valore che essi danno della persona e dell’uomo, e non come da noi dopo la macchina»[12].
La soddisfazione della delegazione italiana per la visita fu tale che il 30 settembre il Cotti inviò una lettera al sindaco di Pistoia, il comunista Francesco Toni, per invitarlo a prendere in considerazione un gemellaggio anche istituzionale con Zaporojie, rispetto al quale il sindaco della città ucraina aveva già dimostrato a voce un interesse[13].
Negli anni successivi i rapporti fra i sindacati di Zaporoje e quelli di Pistoia andarono avanti. Lo scambio di auguri in occasione del Primo maggio, del nuovo anno ed anche per le feste della Liberazione divenne abituale e furono organizzati nuovi scambi. Nel 1973 i pistoiesi invitarono nuovamente i sovietici per il 1974, questi ultimi si resero disponibili a tornare nel 1975[14]. La seconda visita avvenne nel mese di settembre per esplicita volontà della Camera del lavoro che voleva far partecipare i sindacalisti sovietici alle celebrazioni della Liberazione di Pistoia l’8 settembre. La visita però, inizialmente prevista dal 4 all’11 del mese, all’ultimo momento slittò al 18-25 settembre. Da un appunto manoscritto sappiamo che Sanguinetti dell’ufficio internazionale della CGIL a Roma aveva indicato per quell’occasione di «avere con sindacati sovietici rapporto più vivace aderente alla nuova realtà internazionale. Cile, Portogallo, cosa facciamo…? Porre esigenza che nei rapporti – a livello internazionale – fra CGIL e sindacati sovietici, si esca dal semplice formalismo degli “evviva” e si istauri rapporto più politico, che affronti problemi “nuovi” che emergono nel mondo»[15]. La delegazione era composta da Petr Pavlov, segretario regionale, Victor Kazatchovsky, presidente comitato sindacale dell’azienda Azovcabel, e da Nicolai Medvedkov. Fu organizzata anche una visita a Collodi al Parco di Pinocchio, circostanza che alcuni mesi dopo diede luogo alla donazione al Parco delle edizioni in lingua russa delle Avventure di Pinocchio, a quanto pare molto diffuse in Unione sovietica[16]. Nonostante il ritardo rispetto alle celebrazioni resistenziali, in quell’occasione fu comunque organizzata una visita nel paese di Agliana al monumento dedicato al partigiano sovietico Ivan Baranovskij, nome di battaglia Paolo, combattente della Brigata Bozzi caduto in quella località, una visita alla Breda – che questa volta non si negò – con un incontro con il Consiglio di fabbrica e un incontro con gli operai della Ital Bed in “assemblea permanente” da diversi mesi[17]
La delegazione pistoiese tornò in URSS nel 1978, questa volta composta da Graziano Battiloni della segreteria CGIL, Floriano Frosetti del consiglio di fabbrica Breda e Marcello Vettori del sindacato enti locali[18]. Nel consueto discorso di saluto, oltre ai temi all’ordine del giorno del programma sindacale che venivano sempre richiamati, Battiloni ricordò Baranovsky ed enfatizzò in più occasioni il successo elettorale delle sinistre, e del PCI in particolare, alle elezioni politiche del 1976[19].
Nonostante l’uscita della CGIL dalla Federazione sindacale mondiale (FSM) legata all’URSS in favore dell’adesione alla Confederazione europea dei sindacati (CES) a fine anni Settanta, nel novembre del 1980 una nuova delegazione sovietica giungeva a Pistoia, composta da Juri Vladimirovc Efrenov e Valentin Vassilievic Podporin. Il discorso di saluto di Battiloni era però molto diverso da quegli degli anni Settanta. L’accento si spostava dalle lotte operaie e dalla vicinanza con il paese della rivoluzione del ’17 ai temi della politica internazionale del tempo, assicurando l’azione di contrasto alla guerra fredda e di sostegno alle politiche di disarmo del sindacato italiano, condannando la politica americana in Iran e l’espansionismo israeliano ma sottolineando anche che «gli avvenimenti della Polonia aprono, nella società polacca, importanti possibilità di sviluppo democratico» e che «il sindacato italiano ha espresso, a suo tempo, la contrarietà e il disaccordo per l’intervento sovietico in Afghanistan. Per questo, facciamo un appello perché, attraverso la vostra delegazione sia accelerato il ritiro delle truppe e sia garantito al popolo afghano il diritto a decidere da sé le proprie scelte». Parole forti, che si tentava poi di stemperare richiamando l’amicizia tra gli italiani e il popolo sovietico e la volontà di non rompere il sodalizio anche a fronte di disaccordi su alcune scelte, perché fra amici era lecito rimproverarsi qualcosa[20].
Quella del 1980 fu l’ultima visita. Da lì in poi gli scambi si interrompono. L’archivio tace sui motivi, che tuttavia è lecito ipotizzare vadano ricercati nei mutati rapporti che le parole di Battiloni del 1980 facevano cogliere, nella nuova collocazione internazionale della CGIL ed anche nella situazione particolarissima che l’URSS attraversò nel corso degli anni Ottanta fino alla sua dissoluzione. Tuttavia, almeno per i pistoiesi, sembrava trattarsi di una pausa più che di un addio. Il gemellaggio doveva essersi radicato fra i sindacalisti italiani. Lo testimonia l’ultimo fascicolo della busta d’archivio, titolato 1990 Zaporozhye. Nel clima post ’89 a Pistoia si pensò subito di riallacciare i rapporti di scambio. Ma evidentemente era troppo tardi, il mondo cambiava inesorabilmente, di lì a poco l’URSS cessava di esistere e dei sindacati di Zaporojie si perdevano le tracce. Il fascicolo era destinato a rimanere vuoto, testimone silenzioso di una volontà mai concretizzatasi.
Da quest’ultimo tentativo sono passati più di 30 anni ed è arrivata una centrale nucleare che prima non c’era. Del gemellaggio il ricordo si era affievolito fin quasi a scomparire. Ma non del tutto. La tragica notizia del bombardamento ha spazzato via la polvere che si era depositata su questa vicenda, ed a Pistoia, come già nel 1990, ci si è ricordati della città sulle rive del Dnepr. La Camera del lavoro ha interrogato i propri archivi prendendo spunto da questa amicizia del passato per lanciare un appello pubblico per la pace. Battiloni, ormai anziano, intervistato dai giornali locali ha ricordato con emozione quel tempo e quei viaggi, ed anche i punti di divergenza con i sovietici che erano progressivamente emersi, vivendo con sofferenza i fatti di guerra del presente[21]. Una piccola storia di amicizia internazionale, che continua a scagliarsi contro la grande storia della guerra fra i popoli.
[1] Archivio storico Camera del lavoro CGIL Pistoia, Busta Zaporoje URSS (d’ora in poi ASCGILPT, B. Zaporoje), Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Lucarelli al Segretario generale dei sindacati sovietici 19 giugno 1969; lettera di Lucarelli a Romanov 2 agosto 1969.

[2] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera del 12 agosto 1969 a firma Sergueev, originale in cirillico copiata in traduzione francese.

[3] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, modello di lettera del 1° giugno 1970.

[4] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettere dl 27 giugno 1970.

[5] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettere del 26 giugno 1970.

[6] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, Programma visita delegazione sovietica Zaparoje’ 30 giugno 1970.

[7] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS.

[8] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera della Società metallurgica italiana del 4 giugno 1970.

[9] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Lucarelli del 26 giugno 1970.

[10] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, Saluto del segretario generale della CCdL di Pistoia alla delegazione dei sindacati di Zaparojié nell’URSS.

[11] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Rapporti sindacati Zaporoje URSS, lettera di Nedobyvailo a Lucarelli, originale in francese; lettera di Lucarelli alla CISL del 13 aprile 1971; lettera di Lucarelli al Presidente del consiglio dei sindacati di Zaporojie Nedobyvaile del 4 maggio 1971. ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera del 31 luglio 1972.

[12] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, resoconto manoscritto del viaggio; lettera manoscritta di Puccianti del 7 settembre 1972.

[13] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera di Cotti a Toni del 30 settembre 1972.

[14] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, lettera di Silvano Cotti a Pavel Nedonuyailo e la risposta.

[15] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), appunto manoscritto. Le sottolineature sono nell’originale.

[16] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), lettera del 9 gennaio 1976.

[17] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. 1975 visita delegazione Zaporozhye (URSS), documento Una delegazione dei sindacati sovietici di Zaporojie ospite della nostra provincia.

[18] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, comunicato stampa del 1° agosto 1978.

[19] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc. Zaporojie 1972-1978, discorso di saluto manoscritto.

[20] ASCGILPT, B. Zaporoje, Fasc.1980 Zaporoje URSS delegazione materiale. Documento Battiloni saluto alla delegazione di Zaporoje 24 novembre 1980.

[21] La nazione, 6 marzo 2022; Il giornale di Pistoia e della Valdinievole, 11 marzo 2022.

 

Stefano Bartolini, direttore della Fondazione Valore Lavoro e della rivista “Farestoria”, responsabile degli archivi CGIL Toscana e coordinatore del gruppo dell’AIPH dedicato alla Public History del lavoro. Fa parte della redazione della rivista Il De Martino. Ha pubblicato articoli di approfondimento sulla Public History sulle riviste “Clionet” e “Officina della storia”




Pier Carlo Masini (1923-2023)

A cento anni dalla nascita di Pier Carlo Masini (Cerbaia fraz. di S. Casciano Val di Pesa, 26 marzo 1923 ‒ Firenze, 19 ottobre 1998) si ricorda l’opera di un intellettuale che, tra tutti coloro che si sono occupati degli anarchici e delle radici “eretiche” del primo socialismo, è stato, se non il più importante, di certo uno degli storici più rigorosi e originali del Secondo Novecento. Masini, inoltre, non è stato solo un uomo di pensiero, ma anche un militante antifascista, condannato giovanissimo al Confino politico, vicesindaco di San Casciano Val di Pesa nei primi mesi della Liberazione, impegnato prima nelle fila del PCI poi in quelle dell’anarchismo e infine in quelle del socialismo democratico, oltre che un raffinato uomo di cultura e un bibliofilo competente e appassionato.

La passione per la storia in Masini ha radici lontane. Nell’autunno 1941 s’iscriveva alla facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. Tra i suoi docenti c’erano Giuseppe Maranini, che quell’anno teneva un corso sul costituzionalismo inglese; Pompeo Biondi, che proponeva il tema della sinistra hegeliana; soprattutto, Carlo Morandi, docente di Storia moderna, che svolgeva un corso sulla storia dei partiti politici italiani. Le lezioni di Morandi sono state importanti per la formazione e per l’approccio alla cultura storica del giovane Masini. In quel periodo Morandi era uno fra i più brillanti storici italiani, un innovatore del metodo della ricerca storica. Le sue ricerche sulle forze politiche moderate dell’Italia unita e sulle relazioni diplomatiche che legavano l’Italia all’Europa sin dall’inizio dell’età moderna, così come la sua opera più nota, I partiti politici in Italia dal 1848 al 1924, uscita pochi mesi dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, sono ancora oggi un punto di riferimento per gli studiosi. Tra i suoi allievi vanno ricordati, tra gli altri, Giampiero Carocci, Giuliano Procacci ed Ernesto Ragionieri.
Morandi aveva consigliato a Masini di leggere il libro di Giacomo Perticone, Linee di storia del comunismo, uscito nel 1942 per le edizioni dell’Istituto Studi Politici Internazionali di Milano. Dopo tale lettura, seguiva quella di Linee di storia del socialismo (pubblicato nel 1941), dello stesso Perticone, dove Masini aveva potuto leggere per la prima volta il testo degli appelli contro la guerra dell’internazionalismo socialista di Zimmerwald (1915) e di Kienthal (1916). In questa fase Masini stava vivendo una prima, breve esperienza politica che lo aveva portato dalle iniziali simpatie per il fascismo eterodosso alla scelta antifascista, scelta che aveva causato la sua condanna al Confino di polizia per due anni. Rientrato a Firenze nell’autunno del 1943, fino alla primavera del 1945 aveva studiato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze per preparare la sua tesi di laurea sulla diffusione del saintsimonismo in Toscana, approfondendo nel contempo le caratteristiche storiche e teoriche delle origini del socialismo [1].
Masini_Pier_Carlo_Anarchici_comunistiMasini fa parte a pieno titolo di quella giovane generazione di storici inquieti che, nel pieno della crisi politica, sociale ed economica italiana degli anni della guerra, sulle macerie lasciate dal fascismo e attraverso la sofferta strada della Lotta di liberazione, aveva maturato l’esigenza di ripensare la storia d’Italia attraverso lo studio del movimento operaio e del lavoro, facendola entrare nel panorama scientifico italiano come una nuova disciplina, con lo scopo di andare oltre le vecchie scuole storiografiche moderate, idealistiche e nazional-fasciste. La scelta di Masini non era diversa da quella compiuta anche da altri giovani intellettuali che si avvicinavano allo studio della storia e che nasceva, oltre che da un interesse culturale generale e dal percorso di studi, anche e soprattutto da una scelta di impegno etico politico [2].
L’intreccio tra storia e politica ha caratterizzato, come è stato più volte sottolineato in campo storiografico, la ricerca sulle origini del movimento socialista in Italia, diventando «il terreno prioritario» su cui si affermava «l’impegno della storiografia di sinistra». Si trattava di «una scelta politica precisa, volta a conferire dignità e legittimazione – entro l’ambito dello Stato democratico – al movimento operaio»[3].
Dopo una breve parentesi tra le fila comuniste durante la Resistenza, nell’estate del 1945 Masini sceglieva di schierarsi nel campo libertario. La sua adesione non era di tipo sentimentale. Egli si riconosceva in una definizione di Antonio Labriola, che distingueva con favore, all’interno dell’anarchismo, gli anarchici “ragionanti” dagli altri, precisando in tal senso la sua posizione nel solco del pensiero di Errico Malatesta, Luigi Fabbri, Francesco Saverio Merlino e Camillo Berneri, tracciando, di fatto, i lineamenti di una fisionomia umana e intellettuale che ha tutti i caratteri dell’autoritratto condotto ex post e fissato su carta soprattutto per sé:

Fin dal primo accostarmi all’anarchismo, ai profeti, esteti e poeti dell’anarchia preferii sempre gli anarchici positivi: quelli che sanno coniugare i principi di libertà con quelli dell’associazione e della solidarietà: che partono dall’individuo ma arrivano alla società; che sostengono le proprie ragioni ma che sanno ascoltare anche quelle degli altri e di ogni problema vedono, oltre la faccia visibile e certa, quella invisibile e controversa; che oltre i confini della propria parte ideologica, scoprono l’anarchismo, spesso inconsapevole, che pulsa per forza naturale, in uomini e gruppi di colore diverso, in un’area libertaria più vasta di quella professa e militante; che non si limitano alla protesta ma traducono l’utopia della vetta in proposte, programmi, progetti per cambiare il piano; che sono continuamente irrequieti, autoironici, insoddisfatti, autocritici del loro stesso anarchismo, che lo adoprano non come un metro per misurare e magari condannare gli altri, ma come una lente per leggere meglio in se stessi e nella società[4].

Masini_Pier_Carlo_EresieL’impegno politico di Masini in questi anni sarà totalizzante, coinvolgendolo a tempo pieno nella propaganda orale, nell’organizzazione di convegni e nella redazione di periodici, e facendone in breve uno dei principali leader giovanili del movimento libertario risorto dopo vent’anni di dittatura.
Masini si laureava nell’anno accademico 1945-1946 discutendo con Rodolfo De Mattei la tesi su I riflessi del santsimonismo in Toscana. Il suo interesse per Henri de Saint-Simon nasceva dalle ricerche sulle origini del moderno pensiero socialista e della storia risorgimentale italiana, temi tanto cari al professor Morandi.
Le indagini di Masini sull’Ottocento italiano erano finalizzate non solo a una più precisa ricognizione e messa a punto di momenti significativi dell’identità storico-politica dell’anarchismo italiano, ma anche alla rivisitazione della riflessione teorico-politica di quei momenti della storia italiana dell’800 nei quali si era posto il problema del cambiamento “rivoluzionario” della società. Va in questa direzione il suo saggio Dittatura e rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, in cui analizza il pensiero di Carlo Cattaneo, Giuseppe Ferrari, Giuseppe Montanelli, Carlo Pisacane[5]. In questo lavoro Masini distingueva il doppio significato del termine “dittatura”: quello che si riferisce al ruolo dominante dello Stato piemontese, verso cui la ripulsa dei rivoluzionari ottocenteschi era comune, e quello che intendeva la “dittatura” come possibile momento o forma rivoluzionaria. Su questo punto le posizioni divergevano, generando polemiche. L’osservazione iniziale che, a questo proposito, viene fatta da Masini, è illuminante circa le sue posizioni al contempo storiografiche e politiche:

Fu un’inutile polemica, allora; ma ritorna utile oggi come una nuova vena cristallina che riverberi i suoi riflessi sulle lotte contemporanee e ci illumini una più moderna interpretazione del Risorgimento. Qui considereremo il pensiero di alcuni noti eretici dell’Ottocento, anche per suffragare una tesi che ci è cara: essere l’anarchismo italiano una genuina espressione delle secolari esperienze del nostro popolo, un prodotto della sua più libera tradizione culturale, e non già − se ne persuadano i malevoli per ignoranza − un isolato vaneggiamento d’asceti od un improvviso sproloquio di folla[6].

Il 1946 è stato un anno particolare non solo perché, dopo la fine del conflitto mondiale, si era svolto il referendum istituzionale dal quale era nata l’Italia repubblicana, ma anche perché cadeva il centenario della nascita di Cafiero. Sul piano storiografico l’anniversario era stato anticipato da un articolo di Aldo Romano sulla scoperta, presso l’Archivio di Stato di Napoli, di tre lettere di Friedrich Engels a Cafiero[7]. A guidare la curiosità e gli studi di Masini era stata, in questo periodo, la lettura di un saggio di Carlo Morandi, pubblicato su «Belfagor», dal titolo esemplificativo: Per una storia del socialismo in Italia. Nel suo intervento Morandi sottolineava la necessità, per la nuova storiografia, di avviare un’indagine seria e rigorosa sulla storia del socialismo in Italia abbandonando fini apologetici e polemici. Lo storico scriveva che era necessario non solo studiare gli aspetti teorici della diffusione delle idee del socialismo, la “città del sole”, ma in particolare «raccogliere lo sguardo attento sulla “città dell’uomo”». Era un richiamo esplicito a indagare a fondo, andando alle radici della storia sociale e politica del movimento operaio, nelle città e nelle campagne, fin nelle più piccole località, dove si era espressa l’esperienza ideale e pratica del moderno socialismo in tutte le sue correnti. Nell’articolo, tra i vari argomenti e personaggi, veniva fatto riferimento alle correnti marxiste revisioniste, da Merlino a Mondolfo, alle esperienze bakuniniste della Prima Internazionale e ai suoi personaggi, ma soprattutto alla necessità di “vere biografie storiche” dei leader del movimento. Possiamo immaginare che per il giovane studioso e militante Masini la lettura dell’articolo di Morandi sia stata una sorta di appello all’arruolamento nelle nuove leve della ricerca storica.
Poco tempo dopo la pubblicazione del saggio di Morandi, sul periodico settimanale milanese «Il Libertario», diretto da Mario Mantovani, Masini pubblicava il suo primo lavoro su Cafiero, intitolato Pisacane e Cafiero[8]. In seguito, in occasione del centenario della nascita di Cafiero, sempre su «Il Libertario» Masini pubblicava l’articolo Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse[9], così come, su «Volontà» di Napoli, presentava un altro saggio dedicato al rivoluzionario pugliese, in particolare agli ultimi anni della sua militanza, quella più controversa e drammatica[10].
Masini_Pier_Carlo_1923_1998_ridCome si è detto, in Masini l’intreccio tra l’interesse storico e l’impegno politico in questo periodo è stato fortissimo, dunque non era un caso che la sua prima conferenza pubblica come militante della Federazione anarchica italiana, ma soprattutto come efficace divulgatore della storia ‒ si trattasse di figure legate alle vicende del movimento anarchico o a snodi storici come la formazione dei ceti moderati durante il Risorgimento – fosse significativamente dedicata al tema Carlo Cafiero pioniere del movimento operaio, tenuta il 30 marzo 1947 a Empoli presso la locale Università Popolare.
L’approccio di Masini alla storia in funzione del suo impegno etico politico non era affatto strumentale e ancor meno superficiale. Nella ricostruzione delle vicende del movimento libertario e socialista, infatti, la sua formazione e i suoi studi lo portavano ad utilizzare un metodo rigoroso, filologico e critico, anche quando scriveva per la stampa del movimento o del partito. A questa impostazione Masini rimarrà fedele per tutta la vita lasciandoci una grande eredità culturale e di metodo di cui i suoi scritti ne sono una testimonianza viva.

NOTE:

[1] Per un inquadramento generale della vita intellettuale e politica di P.C. Masini si rimanda ai seguenti volumi: Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci. Atti della giornata di studi sulla figura e l’opera di Pier Carlo Masini, Bergamo, Sala Curò, 16 gennaio 1999, a cura di G. Mangini, Numero monografico di «Bergomum», Bollettino della Civica biblioteca Angelo Mai di Bergamo, 2001; Pier Carlo Masini. Impegno civile e ricerca storica tra anarchismo, socialismo e democrazia, a cura di F. Bertolucci e G. Mangini, Pisa, BFS, 2008.

[1] Cfr. L. Cortesi, Le origini degli studi sul movimento operaio in Italia in ricordo di Pier Carlo Masini, in Pier Carlo Masini. Un profilo a più voci …, cit., pp. 43-53.

[1] Cfr. G. Gozzini, La storiografia del movimento operaio in Italia: tra storia politica e sociale, in La storiografia sull’Italia contemporanea. Atti del convegno in onore di Giorgio Candeloro. Pisa, 9-10 novembre 1989, a cura di C. Cassina, Pisa, Giardini, 1991, pp. 241-276.

[1] Cfr. P.C. Masini, Introduzione in R. Bertolucci, A come anarchia o come Apua: un anarchico a Carrara, Ugo Mazzucchelli, Carrara, FIAP, [1989], p. VI.

[1] Il saggio esce in sei puntate, P.C. Masini, Dittatura e Rivoluzione nei dibattiti del Risorgimento, «Volontà», nn. 1-6 pubblicati dal 1° luglio al 1° dicembre 1947.

[1] Cfr. Id., Dittatura e Rivoluzione …, cit., prima puntata, p. 30.

[1] Cfr. A. Romano, Nuovi documenti per la storia del marxismo, «Rinascita», gennaio-febbraio 1946, pp. 27-28.

[1] Cfr. P.C. Masini, Pisacane e Cafiero, «Il Libertario», 23 luglio 1946, p. 2.

[1] Cfr. Id., Per il Centenario della nascita di Carlo Cafiero (1° settembre 1846-1° settembre 1946). Note sparse, «Libertario» numeri dal 21 agosto al 4 settembre 1946. In questi anni Masini entra in contatto e lo rimarrà per lungo tempo con Luigi Dal Pane, altro autorevole studioso del socialismo italiano, depositario di un importante archivio di documenti, alcuni dei quali da lui utilizzati proprio in occasione del centenario della nascita di Cafiero e pubblicati in un opuscolo illustrato da fotografie d’epoca. Cfr. In memoria di Carlo Cafiero nel primo centenario della nascita (1846-1946), a cura di L. Dal Pane, Ravenna, La Romagna socialista, dicembre 1946.

[1] P.C. Masini, Carlo Cafiero ed una controversia intorno alla sua ultima posizione politica, «Volontà», 1° marzo 1947, pp. 73-83. Cfr., inoltre, (a cura dell’archivista), Il giudizio di Cafiero: commemorando il “Manifesto dei comunisti” (febbraio 1848-febbraio 1948), «Umanità nova», 1° febbraio. 1948, p. 3.

 




Memoria ed eredità del PCI attraverso l’archivio della Federazione pisana.

L’archivio della Federazione pisana del PCI conservato presso la Biblioteca Franco Serantini[1] è stato depositato il 14 gennaio 2021, in occasione del centenario della nascita del Partito, con il trasferimento dei documenti dalla sede politica originaria, situata in via Antonio Fratti di Pisa, dove il fondo verteva in stato di abbandono. L’accordo tra la Biblioteca e l’Associazione Democratici di Sinistra, proprietaria delle carte, è avvenuto sotto forma di “deposito cautelativo”. I documenti che compongono l’archivio costituiscono un patrimonio eterogeneo consistente in materiale a stampa, dattiloscritto, manoscritto, materiale fotografico ecc.; essi coprono un arco temporale che va dalla fine degli anni ’60 – quando gli iscritti al Partito furono poco meno di 22.000 mentre i membri della FGCI quasi 1000[2] – fino allo scioglimento del Partito Comunista Italiano nel 1991.
Il progetto di riordino delle carte svolto dalla Biblioteca nel 2021 si inserisce all’interno di un più ampio contesto di valorizzazione degli archivi del PCI promosso dalla Fondazione Gramsci di Roma[3]. La finalità della Fondazione infatti è proprio quella di creare un portale in cui descrivere il patrimonio documentale prodotto dagli organismi nazionali e dalle varie organizzazioni territoriali del Partito Comunista Italiano[4]; così da formare un apparato informativo unitario in grado di descrivere la sua storia sia a livello locale che nazionale.

Manifestazione Vietnam 1972 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Manifestazione Vietnam 1972 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Per poter comprendere il ruolo del Partito a livello territoriale, basti infatti osservare il contributo che la Federazione ha offerto a Pisa e alla sua provincia nella ricostruzione della vita politica e sociale negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra. I dati statistici prodotti durante il V Congresso provinciale del maggio 1954[5], ad esempio, riportano alla luce una realtà sociale permeata dall’impegno politico nel partito. Infatti, i tesserati a questa data sono 29.820[6], mentre gli iscritti alla FGCI ammontano a 6.743. Numerose sono state anche le iniziative democratiche sostenute dalla Federazione nel contesto provinciale; ancora oggi infatti nella memoria di tanti militanti è vivido il ricordo di quello che è passato alla storia come lo “scioperone” del ’62, quando gli operai della Piaggio manifestarono per ben 75 giorni. Il PCI è anche il partito da cui proviene il primo sindaco della città dopo la Liberazione del 1944; Italo Bargagna sarà inoltre rieletto nel marzo del 1946. Anche gli anni ’70 e ’80 vedono altri esponenti della Federazione a capo dell’Amministrazione comunale, come Vinicio Bernardini – eletto nell’aprile del 1971 e poi nel maggio del 1983 -, Elia Lazzari e Luigi Bulleri.
Ritornando all’archivio, il complesso dei documenti prodotti dal Partito si presentava come un insieme disorganico di carte che recavano scarse indicazioni esplicite per una loro possibile organizzazione strutturale, in quanto si tratta di documenti sedimentati nel tempo con alcune distinzioni di provenienza da uffici o da attività di dirigenti e funzionari della Federazione le cui mansioni venivano definite all’interno della struttura organizzativa del partito. Si è cercato dunque di mantenere questa impostazione, seguendo criteri non arbitrari, bensì suggeriti dall’attività e dalla vita del partito stesso, e rimanendo fedeli all’ordine temporale di sedimentazione dei documenti nel corso degli anni. A questo scopo si è dimostrata di aiuto la relazione redatta nel febbraio ’83 da un membro del Partito, Ciro Sbrana, e presentata alla segreteria della Federazione, dal titolo Per la costituzione dell’archivio della Federazione[7], nella quale si operava una prima suddivisione del materiale conservato fino a quel momento.
L’archivio proveniente dalla sede di via Fratti si caratterizza per la sola presenza di materiale prodotto a partire dalla fine degli anni ’60, mentre purtroppo sono andate perse le carte in parte riferite al periodo del primissimo secondo dopoguerra. Questa assenza è compensata, però, dall’integrazione del patrimonio documentale all’interno del complesso archivistico della Biblioteca grazie, ad esempio, al fondo di proprietà della famiglia Motta-Borri, donato all’Istituto nell’autunno del 2021, che contiene le circolari emesse dal Partito negli anni 1945-49, nonché materiale importante che copre gli un arco temporale che va dall’immediato secondo dopoguerra al primo decennio della Repubblica. Oltre a questo, la Biblioteca possiede un complesso di beni archivistici provenienti da diverse realtà politiche formatesi sul territorio pisano e protagoniste della scena politica cittadina negli anni successivi alla caduta del regime fascista; tra questi vale la pena citare, ad esempio, i materiali relativi al PSI e ad altre forze politiche, così come l’archivio della Democrazia proletaria. I materiali prodotti da queste realtà sono utili ed essenziali ai fini di una analisi approfondita e dettagliata della vita politica in ambito locale.

Regionale Antifascista 8 aprile 1973 Pisa (foto Giacomo Gensini)

Regionale Antifascista 8 aprile 1973 Pisa (foto Giacomo Gensini)

I beni archivistici conservati all’interno dell’Istituto storico Franco Serantini si configurano pressoché come un unicum nel contesto conservativo pisano. Infatti, sebbene sia presente sul territorio La Rete Archivistica della Provincia di Pisa, costituita nel 2001 con l’intento di promuovere una comune gestione dei servizi archivistici al fine di una valorizzazione dei patrimoni comunali della provincia, emerge una quasi totale assenza di materiale riferito alla vita dei movimenti e dei partiti politici. Si registrano solo alcuni casi isolati come quello del fondo personale di Renzo Remorini, operaio della Piaggio e funzionario politico della Federazione del PCI, donato dal figlio alla Biblioteca civica G. Gronchi di Pontedera e contenente documentazione che testimonia l’impegno politico e sociale di un’intera generazione.
In contrasto con la realtà del pisano, nel contesto fiorentino, invece, possiamo ricordare il caso dell’Istituto Gramsci toscano – presso il quale è conservato l’archivio della Federazione fiorentina del PCI – e della Fondazione Filippo Turati, che possiede i fondi della Direzione nazionale del PSDI e del PSI. Allo stesso modo, è dovere ricordare, in territorio livornese, il lavoro di riordino e descrizione archivistica condotto nel 2011 dalla dottoressa Michela Molitierno sul fondo documentario della Federazione livornese del Partito Comunista, conservato presso l’Istoreco di Livorno. Dato il suddetto stato di cose all’interno del contesto toscano, è dunque possibile affermare che la Biblioteca Serantini rappresenta un caso significativo di atipicità e ricchezza in una realtà che fa fatica a fare i conti con il proprio passato.
La ricostruzione della storia dell’Italia repubblicana, di fatto, è resa possibile proprio grazie al supporto documentario in grado di illustrare il ruolo che i diversi partiti politici hanno sviluppato non soltanto nella vita politica, ma anche in quella culturale, economica e sociale del nostro paese[8]. E tra i partiti politici italiani del ‘900, il PCI è uno dei pochi ad aver preservato il patrimonio integrale delle sue carte «strutturandole in un archivio ordinato e preoccupandosi di aprire alla consultazione degli studiosi il proprio archivio storico già dalla fine degli anni ottanta»[9]. Non è da meno il caso dell’archivio della Federazione pisana del PCI, che, nonostante la lacuna antecedente agli anni ’70, si è dimostrato consistente e di considerevole interesse[10], e che attualmente, grazie al lavoro di riordino e organizzazione condotto nel corso del 2021, è liberamente consultabile; inoltre, una sintesi dei suoi contenuti e la gerarchia delle carte sono disponibili in forma digitale (bfscollezionidigitali.org). L’intervento di organizzazione si è strutturato mediante varie e diverse fasi: trattandosi di materiale eterogeneo sedimentato nel corso dei decenni, dapprima si è resa necessaria una razionalizzazione e suddivisione di tutto il patrimonio, attenendosi sempre a criteri oggettivi suggeriti dall’attività e dalla vita del partito stesso. Infatti, la struttura del fondo ha evidenziato fin da subito un totale disordine dato dal fatto che, come emerge dalla relazione del 1983, le carte, dal momento in cui non furono più di utilità alcuna, vennero conservate nel seminterrato della sede politica, senza alcun criterio né modello organizzativo dettato da un vero e proprio funzionario addetto all’archivio. Seguendo sommariamente le poche linee guida suggerite dalla relazione e dalla natura stessa dei documenti, in fase di una prima analisi si è deciso di suddividere il materiale in dieci serie. Ad integrare il materiale prodotto direttamente dalla Federazione pisana sono stati acquisiti, nel frattempo, alcuni archivi come quelli delle sezioni di Fornacette, Santa Croce sull’Arno e Volterra e di militanti come quello di Menotti Bennati.

Berlinguer 1975 PI- Giardino Scotto (Foto Giacomo Gensini)

Berlinguer 1975 PI- Giardino Scotto (Foto Giacomo Gensini)

In una seconda fase, grazie a un’analisi più approfondita, sono state create delle sottoserie, nelle quali sono stati suddivisi ulteriormente i documenti. In seguito a questa prima strutturazione, è stato possibile smistare il materiale all’interno delle serie e sottoserie individuate, e iniziare così la vera e propria fase descrittiva, per la quale sono stati adottati due criteri. Il primo è stato quello che ha permesso di individuare il materiale prodotto dai diversi uffici o dagli atti dei Congressi e dai convegni, così da poter riunire il tutto in fascicoli omogenei; in secondo luogo si è disposto l’ordinamento dei fascicoli secondo un principio cronologico all’interno delle singole serie e sottoserie. Una volta strutturata la gerarchia completa di tutto l’archivio, è iniziata la fase descrittiva, durante la quale i singoli fascicoli sono stati descritti in versione informatizzata utilizzando il software Archiui[11] e rendendoli poi visibili sul sito della biblioteca.
Il lavoro condotto delinea la composita attività politica e culturale del partito. Infatti, la descrizione delle partizioni archivistiche ha evidenziato lo sviluppo dell’attività politica nella successione degli eventi e, contestualmente, la descrizione analitica dei documenti, organizzati in fascicoli, illustra la modalità d’azione degli uffici e delle ramificazioni territoriali del partito.
In conclusione, gli archivi politici rivestono un ruolo di grande importanza per la storia locale e sono fonte inesauribile di conoscenza utile alla salvaguardia della memoria dell’iniziativa politica riguardante un’intera collettività. Oggi più che mai, considerati gli sviluppi storico-politici recenti, occorre confrontarsi con un passato non troppo lontano che influenza la nostra memoria e di conseguenza la nostra stessa identità.

 

NOTA:

1. La Biblioteca Franco Serantini, fondata nel 1979, entra a far parte della rete nazionale degli istituti storici della resistenza nel maggio del 2021, acquisendo la denominazione di Biblioteca Franco Serantini Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea della provincia di Pisa e delineandosi in tal modo come unico istituto storico nella realtà pisana e della provincia.
2. PCI, FGCI. Federazione di Pisa, dal X all’XI congresso provinciale, Pisa, Federazione del PCI (a cura di) 1972.
3. L. Giuva (a cura di), Guida agli archivi della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, 1994.
4. https://www.fondazionegramsci.org/archivi/archivio-pci/.
5. PCI Federazione Comunista Pisana, V Congresso provinciale 14-15-16 maggio. Dati statistici sul partito e sul movimento democratico della provincia, Pisa, Tipografia Editrice Umberto Giardini, Pisa.
6. Nel 1954 la popolazione totale residente nella provincia di Pisa ammonta a 354.724 (di cui 81.140 residenti nel solo comune di Pisa) (dato Istat).
https://ebiblio.istat.it/digibib/Demografia/Movimentostatocivile/UFI0044838Pop1953_1954_1955_circ_amm_com_1956.pdf.
7. Relazione di Ciro Sbrana, Per la costituzione dell’archivio della Federazione, Pisa, 3 febbraio 1983 in Archivio.
8. Cfr, F. Ciacci e F. Trevisan (a cura di), Archivi umbri della Democrazia cristiana, Perugia, Soprintendenza archivistica per l’Umbria, 2001.
9. S. Pons e G. Bosman, Gli archivi del partito comunista italiano, in M. Valentini (a cura di), Gli archivi della politica: atti del convegno. Firenze, 11 aprile 2012, Consiglio regionale della Toscana, 2016, p. 33.
10. Per la ricostruzione delle origini e l’evoluzione storica della Federazione pisana del PCI: A. Marianelli, Eppur si muove! Movimento operaio a Pisa e provincia dall’Unità d’Italia alla dittatura, Pisa, BFS, 2016; 12° congresso della Federazione comunista pisana: materiale per uno studio statistico sul partito a Pisa, Pisa, PCI, 1975; Federazione pisana del PCI [a cura della], Documenti e testimonianze sulla fondazione del P.C.I. in provincia di Pisa, [presentazione a cura di A. Marianelli], Pisa, [1981].
11. Il software Archiui è uno strumento che offre dei tracciati compatibili con gli standard nazionali e internazionali, quali ISAAR, ISAD(g), ICCD, Dublin Core, VIAF, FOAF ecc. Esiste anche la possibilità di esportazione del contenuto in formati di interscambio accessibili a lungo termine, come l’EAD3. Il sistema permette ovviamente anche l’interoperabilità verso SIUSA, SIAS e il SAN.




Il caso di Shangai a Livorno, 1930-2017.

Shangai dal secondo dopoguerra ad oggi

Shangai, nonostante le sue origini, e forse proprio per via di esse, era un quartiere caratterizzato da una forte solidarietà e da un grande senso di appartenenza dei suoi abitanti, fin dai primissimi anni. [1]

In particolare, a partire dagli anni ’70, una marcata coesione sociale ha caratterizzato la sua storia. Le ragioni di questo sono da ricercarsi nelle attività svolte dalla sezione del PCI della zona, dalle suore di San Giuseppe dell’Apparizione, dal parroco locale, Don Biondi: si tratta di realtà che erano riuscite a promuovere attività culturali e ricreative, anche di stampo politico, incentivando cooperazione, una buona convivenza e un senso di comunità tra gli abitanti del quartiere. [2]

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Shangai negli anni Sessanta-Settanta

Una delle esperienze che ha fatto vivere a Shangai uno dei suoi periodi più positivi è stata la creazione del “Punto incontro donna”, voluto dalle donne di quartiere, su proposta della sezione locale del Pci, per avere un luogo dove ritrovarsi. [3] Dalla sua nascita, nel 1985, il quartiere tutto è stato altamente coinvolto in numerosissime iniziative come rassegne teatrali, concerti, corsi di cucito, sfilate di quartiere, feste di carnevale, mercatini, gite di gruppo e molto altro. Nel video prodotto dall’ISTORECO di Livorno[4], in collaborazione con le Scuole Fermi di Shanghai, nel 2020, sono state raccolte le testimonianze di abitanti del luogo che hanno vissuto e gestito in prima persona queste attività. Anche le foto donate da Luana di Dio, anima del “Punto incontro donna”, raccontano una vita di quartiere vivace e culturalmente attiva. Anche nelle due interviste rilasciate, tra il 2020 e il 2022, alla prof.ssa Catia Sonetti, Direttrice dell’ISTORECO di Livorno, Luana di Dio e Manuela Alfaroli hanno rievocato proprio questa storia. A giugno 2022 l’ISTORECO ha organizzato, insieme all’ARCI di Livorno, un’iniziativa molto toccante, in cui sono state esposte diverse fotografie delle varie iniziative portate avanti dal Punto Incontro Donna, e durante cui hanno preso la parola alcune delle donne che sono state, tra il 1985 e il 2017, coinvolte personalmente nella gestione di tali attività. La passione e l’impegno che queste hanno investito per portare avanti idee di cooperazione sociale e solidarietà in un quartiere tra i più poveri di Livorno erano tangibili nei loro ricordi e nelle loro parole. E’ stato molto interessante anche il collegamento online con la scrittrice Claire Hunter, dalla Scozia, che ha illustrato i molti punti in comune tra alcune delle storie raccontate nel suo libro “I fili della vita. Una storia del mondo attraverso la cruna dell’ago” (2020, Bollati Boringhieri) in cui riflette sulla straordinaria importanza del cucito e della sua diffusione e trasversalità a livello sociale, in tutto il mondo e in tutte le culture.

Purtroppo la chiusura del centro donna, avvenuta nel 2017, ha provocato una regressione sociale del rione. I molti, ripetuti, tentativi da parte dell’amministrazione comunale di integrare Shangai col resto della città tramite progetti rigenerativi[5], Bandi ministeriali[6], demolizioni di alcuni dei vecchi blocchi e ricostruzioni di nuovi appartamenti e scuole pubbliche (progetto ancora in corso)[7] si sono rivelati poco risolutivi sia a breve che a lungo termine. Oggi infatti, con la mancanza di associazioni ed altre realtà di quartiere come quelle che hanno operato a Shangai tra il 1970 e il 2017, gli investimenti comunali e i tentativi di de-ghettizzare il quartiere e di reintegrazione dello stesso con il resto della città sono riusciti a raggiungere solo scarsi risultati perché il rione ha via via perso quella coesione sociale interna che lo ha sempre caratterizzato, tramutandosi in parte in una zona di spaccio di droga e di marcato degrado sociale. [8]

Conclusioni

La storia di Shangai dalla sua nascita ad oggi, la traiettoria che ha percorso il quartiere, rispecchia molto bene quanto espresso da David Forgacs in Margini d’Italia. L’esclusione sociale dall’Unità a oggi (2015): si tratta di una delle molte storie di periferie ai margini sociali e geografici delle città italiane, nate, osservate e rappresentate attraverso uno sguardo “esterno”, come un luogo in totale antitesi alla raffinatezza, la ricchezza, la bellezza che invece rappresenta il centro cittadino. E’ interessante vedere come, grazie ad attività, progetti, associazionismo proattivo come quello del “Punto incontro donna” per esempio, si possa quantomeno tentare di ribaltare lo sguardo da cui si osserva il quartiere, insieme alle sue sorti. Anche le immagini che raccontano da dentro quella che era la vita di Shangai e degli “shangaini” in quegli anni sembrano narrare una storia diversa da quella classica di quartiere periferico, popolare, povero e ghettizzato. Esse infatti mostrano storie di persone che partecipavano attivamente alla vita del proprio rione, che contribuivano per quello che era loro possibile al senso di comunità e di sostegno reciproco. Il “Punto Incontro Donna”, così come altre realtà del secondo dopoguerra, volute e dirette dagli abitanti stessi del rione, sono riusciti a creare una vera e propria comunità, a dare vita, a livello culturale e sociale, a uno dei quartieri più popolari e poveri della città.

 La prima parte dell’articolo.

nota:

[1] Susini M., Shangai…,cit., p.23.

[2] Susini M., Shangai…,cit., pp.25-79.

[3] https://iltirreno.gelocal.it/livorno/foto-e-video/2015/03/06/fotogalleria/il-punto-incontro-donna-dishangai- compie-30-anni-1.10992853

[4] Video prodotto da ISTORECO, intitolato “Shangai. Storie e memorie di quartiere” all’interno del progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[5] https://www.comune.livorno.it/_livo/uploads/CdQ%20II%20estratto.pdf

[6] Vedi progetto “La città dei libri sognanti” della Biblioteca Comunale di Livorno https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2021/06/03/news/la-citta-dei-libri-sognanti-alla-biblioteca- stenone-1.40349850

[7] Vedi progetto di riqualificazione anche dei poli scolastici di Shangai https://2017.gonews.it/2015/01/17/quartiere-shangay-inaugurata-la-nuova-scuola-materna-in-via-stenone/

[8] Vedi progetto ISTORECO Livorno “Storie e memorie di Shangai” in

https://www.facebook.com/istitutostorico.livorno/videos/3641411932582974