Ada Cheli

Mentre si continuava a combattere e morire sui fronti della Prima guerra mondiale, dal 1° al 5 settembre 1918 si tenne a Roma il XV Congresso del Partito Socialista Italiano; quello precedente, convocato per i primi di novembre del 1917, era stato vietato dal governo, con duplice decreto del Prefetto di Roma. Mancavano due mesi esatti alla fine del terribile conflitto, con il collasso dell’Esercito austro-ungarico e l’offensiva dell’Esercito italiano passata alla storia come la battaglia di Vittorio Veneto, ma in quel settembre ancora non si vedeva la fine dell’infinita strage e gli stessi vertici militari alleati prevedevano, nel migliore dei casi, la conclusione vittoriosa della guerra per la primavera del 1919.
In questo clima si svolse dunque, a porte chiuse, il Congresso nazionale socialista, nonostante l’assenza di dirigenti importanti quali Costantino Lazzari, Giacinto Menotti Serrati e Arturo Vella che si trovavano in carcere per la loro opposizione alla guerra. Celestino Ratti e Filiberto Smorti erano invece al fronte e Giacomo Matteotti “distaccato” in Sicilia. Nicola Bombacci, invece, potè partecipare all’assise: arrestato per “disfattismo” nel gennaio precedente, era stato rilasciato in attesa di processo, per poi essere di nuovo incarcerato il 31 ottobre successivo.
Il Congresso, oltre ad eleggere le nuove cariche dirigenti, doveva sciogliere diversi nodi politici: l’analisi della condotta del Partito nei confronti della guerra e quindi la definizione della linea da tenersi nel perdurante conflitto e nella prospettiva del dopo-guerra, in rapporto alle divergenze emerse fra il Gruppo parlamentare socialista, di prevalente orientamento riformista, e la Direzione del Partito e la redazione del quotidiano «Avanti!», di tendenza “intransigente”.
Il Gruppo parlamentare e l’ala riformista in genere, facente capo a Filippo Turati e Giuseppe Emanuele Modigliani, seppure quest’ultimo con posizioni più attente agli ideali socialisti e meno subordinate al governo, sin dall’inizio della guerra si erano infatti dimostrati – soprattutto dopo la disfatta di Caporetto – disponibili a non sabotare lo sforzo bellico e a sostenere la strenua difesa contro l’avanzata austro-ungarica oltre i confini nazionali, pur confermando l’aspirazione pacifista propria del socialismo. Al contrario, la Frazione intransigente – pur comprendendo anch’essa posizioni diverse – si opponeva ad ogni collaborazione patriottica col governo e, richiamandosi all’internazionalismo proletario e alla rivoluzione russa, riteneva necessario dare impulso all’agitazione socialista nella classe lavoratrice in una prospettiva rivoluzionaria.
Come è stato osservato e come appare evidente dal dibattito durante il Congresso, entrambi i posizionamenti erano soprattutto teorici, mancando del tutto le indicazioni concrete e praticabili che venivano sollecitate da molti delegati e militanti, nonchè dai settori più avanzati della classe lavoratrice. Al centro del confronto congressuale fu piuttosto la critica degli intransigenti nei confronti dell’operato del Gruppo parlamentare che non aveva rispettato le indicazioni più risolute della Direzione del Partito; ossia uno scontro interno conseguente al compromesso sancito all’inizio della guerra con l’ambigua formula del “Non aderire, non sabotare”.
A difendere le posizioni assunte in autonomia dal Gruppo parlamentare vi fu soprattutto l’onorevole livornese G. E. Modigliani che intervenne una novantina di volte, fronteggiando e cercando di rivolgere contro i “massimalisti” le accuse di incoerenza, irrisolutezza e irresponsabilità.
Al quinto giorno, finalmente, si giunse alla votazione dei tre ordini del giorno presentati: quello “intransigente”, a firma del versiliese Luigi Salvatori[1]; quello “centrista”, proposto dal bergamasco Alessandro Tiraboschi che, pur ricalcando quasi integralmente quello di Salvatori, escludeva l’espulsione per quanti non s’adeguavano alle decisioni della Direzione; quello di Modigliani e altri dirigenti, teso a salvaguardare la dissonante posizione del Gruppo parlamentare socialista.
Una prima versione della mozione “intransigente” che, oltre a sconfessare il Gruppo parlamentare, criticava la debolezza della stessa Direzione del Partito, era stata clamorosamente osteggiata da Modigliani che aveva minacciato le sue dimissioni e di tutti i deputati, tanto che venne modificata e resa meno radicale.
I risultati del voto furono inequivocabili, confermando lo spostamento a sinistra del Partito: la mozione Salvatori fu approvata con 14.015 voti (sezioni 433), mentre quella di Tiraboschi[2] ebbe 2.507 voti (sezioni 130) e quella “riformista” di Modigliani 2.505 voti (sezioni 95)[3].
Va comunque osservato che, se riguardo la linea politica tenuta dal Partito nel recente passato, il Congresso si pronunciò in modo negativo, rispetto invece il “che fare” nel presente e per il futuro non produsse alcuna concreta indicazione, nonostante si tornasse a parlare di uno sciopero generale contro la guerra, dopo che nel 1915 e nel 1917 le dirigenze del PSI e della CGdL ne avevano impedito l’attuazione[4].
La sconfitta registrata da Modigliani risultò ancora più significativa per il fatto che la sua mozione non era stata votata dai socialisti della “sua” Livorno, rappresentati dalla giovane socialista sua concittadina, Ada Cheli, che – in rappresentanza dei 140 iscritti della sezione di Livorno – votò per la mozione Salvatori, approvata con larga maggioranza. Modigliani invece potè riversare sulla propria mozione soltanto 29 e 19 voti, rispettivamente delle sezioni di Ardenza e Antignano di cui era delegato.
Nel 1918 Ada era stata eletta nel Comitato federale livornese del Partito socialista e la sua nomina a rappresentante livornese al Congresso risaliva al 26 agosto 1918, a seguito del suo intervento alla riunione tenutasi presso il Circolo socialista, a cui avevano partecipato 50 socialisti, 5 donne della Sezione socialista femminile d’Ardenza e l’on. Modigliani, così come riportato in un’informativa prefettizia:
«Cheli Ada, dopo aver parlato anch’essa del prossimo congresso nazionale socialista presentò un ordine del giorno in cui propose la continuazione della propaganda socialista, una maggiore e più efficace opera di organizzazione fra le classi operaie da costituire la forza suprema per tutti gli eventi del dopo guerra, protesta continua contro gli abusi delle autorità e della Magistratura e protesta fervente contro il decreto Sacchi. Detto ordine del giorno venne approvato all’unanimità. Su proposta dell’on. Modigliani, la Cheli venne nominata all’unanimità rappresentante del partito socialista livornese al prossimo congresso socialista Nazionale a Roma».
E’ presumibile che Cheli fosse stata designata quale delegata pure in considerazione del fatto che era fra le militanti più attive contro la guerra, rappresentando idealmente anche le numerose socialiste e operaie protagoniste delle agitazioni pacifiste a Livorno. Peraltro, al Congresso nazionale, fu una delle pochissime donne delegate[5].
Pur contando sull’appoggio della maggioranza “intransigente” dei compagni livornesi e del segretario federale, Ferruccio Grazzini, al momento del voto la scelta della socialista livornese non fu certo supina a logiche paternalistiche, votando contro la mozione dell’on. Modigliani, che aveva dieci anni di più ed era, oltre che uno dei fondatori del Partito socialista a Livorno nel 1894, un indiscusso esponente del socialismo internazionale[6].
Infatti, in coerenza con le proprie convinzioni, Ada Cheli – con i suoi 140 voti – optò per la mozione Salvatori e, alla luce di quanto sappiamo della sua militanza, tale determinazione non sorprende più di tanto.

UNA SOCIALISTA “DI SVEGLIATA INTELLIGENZA”

Ada Cheli[7] era nata a Livorno il 23 gennaio 1882, figlia di Italo e Giulia Beghi, ed aveva studiato sino alla III classe del Liceo Classico e poi frequentato, come uditrice, il primo anno di Medicina all’Università di Pisa. Da quanto si può dedurre dalle notizie reperite, all’epoca in cui venne “attenzionata” dalla Polizia – nel 1916 – per l’attivismo anti-bellicista, lavorava come «rappresentante di commercio e commessa di negozio». Sempre secondo le informazioni riportate nel suo fascicolo del Casellario politico centrale, viveva da sola in una soffitta in via Ricasoli 18 (l’attuale civico 126)[8].
Al momento della sua prima “schedatura” era stata classificata come «socialista rivoluzionaria», in relazione con Livia Pupeschi di Castelfiorentino, segretaria della Federazione femminile socialista toscana.
Si annotava inoltre: «fa propaganda delle idee che professa specialmente nell’elemento femminile e con discreto profitto. Legge e riceve giornali e stampe sovversive. Ha qualche volta scritto articoli sul giornale “La parola dei socialisti” che si pubblicava in questa città. E’ capace di tenere conferenze e qualcuna ne ha tenuta nelle private riunioni della Sezione socialista […] Prese attiva parte al congresso giovanile socialista che ebbe luogo qui il 20 agosto [1916] e al comizio privato che il 24 corrente mese [settembre 1916] fu qui tenuto nella sede della Federazione, pro Carlo Tresca e dove parlò il Deputato Arturo Caroti».
Nel luglio 1917, aveva seguito la vertenza dei ragazzi avventizi del Cantiere navale per l’aumento di paga. Il 18 giugno 1918 era stata arrestata per disfattismo, presso il Politeama Livornese, in quanto, assieme al segretario della Federazione socialista, Ferruccio Grazzini, avrebbe «tenuto un contegno decisamente ostile e di disprezzo mentre veniva letto il Comunicato Diaz annunciante la resistenza dell’Esercito italiano sul Piave», tanto da essere ritenuta anarchica. Condannata in primo grado a 2 mesi di carcere e Lire 300 di multa, sarebbe stata poi assolta dalla Corte di appello di Lucca, così come il Grazzini, già scagionato per insufficienza di prove («Gazzetta livornese», 2-3 agosto 1918).
Tale denuncia non sarebbe stata l’ultima, in quanto il 7 ottobre seguente, venne denunciata a seguito del corteo spontaneo tenutosi quel giorno a favore dell’armistizio, assieme ai socialisti Pio Carpitelli, Ferruccio Grazzini, Nello Marcaccini, Salvatore Papi e all’anarchico Natale Moretti, tutti per il reato di manifestazione non autorizzata e, per Marcaccini, Moretti e Papi, anche per disfattismo.
Da parte sua, Modigliani criticò i cinque socialisti in quanto si erano mossi senza aspettare le indicazioni del Partito e «non riuscirono altro che a provocare lo sdegno dei cittadini, ed anche delle masse operaie».
Pochi giorni dopo, il 15 ottobre, nel corso di una riunione della Segreteria della Federazione socialista di Livorno, presso la sede sugli Scali del Corso 2, alla presenza di Modigliani che relazionò sul Congresso di Roma, secondo un’informativa del prefetto Gasperini di Livorno al Ministero dell’Interno, «[Salvatore] Papi ebbe parole di biasimo perché la Cheli votò al congresso nazionale l’ordine del giorno degli intransigenti anziché quello dell’on. Modigliani», anche se più probabilmente – come riferisce lo storico Luigi Tomassini – fu proprio Modigliani ad aver «dovuto severamente richiamare la delegata livornese». Non risulta, comunque, che sia stata messa in discussione la sua presenza nella Segreteria.
Secondo quanto riporta la storica Franca Pieroni Bortolotti, Ada Cheli avrebbe quindi partecipato al Convegno socialista di Bologna (22-23 dicembre 1918), come delegata della Sezione femminile socialista di Ardenza, di notoria tendenza massimalista[9].
«Socialista pericolosa», durante il regime fascista viene sorvegliata costantemente in quanto «professa tuttora idee socialiste», conducendo – da quanto si può evincere dalle informazioni disponibili – una vita all’insegna della precarietà: nel 1931 risulta titolare di un’attività commerciale (categoria “Chincaglierie”), in via Vittorio Emanuele 20 (l’attuale via Grande), ed è costretta a cambiare di continuo residenza, presso affittacamere oppure ospite di famiglie[10].
Dopo la Liberazione riprendeva l’impegno politico e nel 1947, allorché venne costituito il Comitato direttivo della Sezione femminile del Partito socialista livornese, fu chiamata a dirigere il settore Stampa e Propaganda: incarico che poté assolvere soltanto per un anno, in quanto deceduta a Livorno l’8 ottobre 1948, a soli sessantasei anni.
Incredibilmente, la memoria della sua militanza – di tutto rispetto – appare esclusa dalla storia del socialismo labronico, forse non perdonandole proprio quell’atto di disobbedienza verso l’on. Modigliani.

NOTE

1. Sull’attività politica, prima socialista massimalista e poi comunista, di Luigi Salvatori (Seravezza 1881 – Marina di Pietrasanta 1946), avvocato, si rimanda all’articolo biografico: https://www.senzatregua.it/2021/07/20/lattivita-politica-di-luigi-salvatori-dirigente-del-movimento-operaio-in-versilia/

2. Sull’intensa e lunga militanza socialista di Alessandro Antonio Luigi Tiraboschi (Bergamo 1873 – 1965), avvocato, si rimanda alla sua scheda biografica sul portale on-line L’anagrafe dei sovversivi bergamaschi 1903-1943, dell’Archivio di Stato di Bergamo (http://asb.midainformatica.it/eGallery/main.htm).

3. Questi sono i dati presenti nel Resoconto stenografico del XV Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano, Milano, Libreria Editrice «Avanti!», 1919. Leggermente discrepanti le cifre riportate in dettaglio sull’Almanacco socialista italiano 1919, pubblicato dalla medesima casa editrice: Salvatori (438 sezioni, 13.748 voti), Modigliani (96 sezioni, 2.667 voti), Tiraboschi (134 sezioni, 2.655 voti), più 680 astenuti della sezione milanese.

4. Inoltre, nonostante l’approvazione della mozione intransigente, inclusa la clausola finale che impegnava il Gruppo parlamentare ad attenersi all’indirizzo deciso dalla Direzione del Partito, ne venne comunque “sanato” il comportamento passato e, solo pochi mesi dopo, il Gruppo parlamentare tornò a muoversi in modo dissonante. Di fatto, quindi, il Congresso eluse le questioni di fondo riducendosi ad uno scambio polemico di accuse e contro-accuse su singole contingenze, senza entrare sul terreno della condotta che il Partito doveva portare avanti nel paese, all’interno della classe e a livello internazionale, come la situazione bellica imponeva.

5. Le altre erano Cristina Bacci (Ravenna), Ester Garbaccio (Novara), Rita Maierotti (Bari), Vittoria Rastelli (Forlì), Nella Valli (Reggio Emilia) ed Elvira Zocca (Torino).

6. Va comunque annotato che Modigliani era stato eletto al Parlamento nell’ottobre 1913, quale deputato nel Collegio bolognese di Budrio-Molinella con 5.408 voti, mentre a Livorno ne aveva ottenuti soltanto 3.142, nei rispettivi ballottaggi.

7. All’anagrafe di Livorno risulta registrata come Ada Cesarina, mentre negli incartamenti di polizia figura con i nomi di Ada Maria Cesira.

8. Secondo la classica visione sessista emergente dalle schedature poliziesche delle militanti politiche, fra le annotazioni riportate nel fascicolo troviamo la seguente descrizione fisica: «corporatura grossa; espressione fisionomica maschile; abbigliamento abituale decente; segni speciali viso piuttosto maschile, piatto non bello». Inoltre, si riferiva che «nell’opinione pubblica riscuote cattiva fama essendo donna di liberi costumi», con due amanti (padre e figlio), ossia Ferruccio e Astro Grazzini, e veniva indicata come «di svegliata intelligenza» ma «fanatica delle sue idee» (ACS, CPC, Busta 1281, [Cheli Ada Maria Cesira])

9. Da un gruppo di giovani lavoratrici d’Ardenza, già impegnate nella locale Sezione giovanile socialista, nell’agosto 1916 era stata costituita un’attiva Sezione femminile socialista, animata dalle sorelle Balardi (Bianca, Santuzza ed Ebra), la cui prima segretaria fu Iris Contini. Dopo lo scioglimento della Sezione – anche a seguito della scissione comunista – il Gruppo femminile socialista d’Ardenza fu ricostituito nel maggio 1922 (notizie riguardanti la Sezione si trovano sul giornale «La Difesa delle Lavoratrici»).

10. Nel 1933 risulta abitare in via della Madonna, seguono poi cambi di residenza sino al 1937 in via Pola, via Fiorenza, via Maggi, via Ricasoli, via Garibaldi e via Malenchini.

 




Da tecnico cinematografico a partigiano

L’8 settembre 1943 l’annuncio dell’armistizio colse il Paese impreparato e in uno stato di profonda confusione. Pietro Badoglio, nel suo messaggio radiofonico, comunicò la cessazione delle ostilità con gli angloamericani, ma non fornì ulteriori indicazioni, lasciando nell’incertezza le forze armate e la popolazione civile. Le truppe italiane si trovarono allo sbando, prive di una strategia comune: molte furono disarmate dai tedeschi, altre cercarono di resistere, altre ancora si dispersero nel caos.

 

 

La Germania, fino a quel momento alleata, reagì con durezza occupando militarmente gran parte del territorio e instaurando un regime di controllo diretto. Nel giro di pochi giorni l’Italia si ritrovò divisa in due: il Sud controllato dagli Alleati e il Centro-nord in mano ai nazifascisti con un popolo spaesato, incerto se dover scegliere di collaborare o resistere. L’armistizio invece di rappresentare la fine della guerra segnò dunque l’inizio di una nuova fase, ancor più dolorosa e incerta, fatta di fame e di bombardamenti, di violenze e di soprusi.

Anche in Versilia la proclamazione dell’armistizio venne accolta con sentimenti contrastanti da parte degli antifascisti locali. Tra gli oppositori del regime non era presente una strategia condivisa su come affrontare la situazione, vi erano coloro che propendevano per un atteggiamento attendista e altri che invece sostenevano la necessità di dover intervenire immediatamente. Tra i più accesi oppositori al fascismo dominava la volontà di voler sfruttare il momento d’incertezza per assestare un colpo alle forze occupanti e sperare in un’insurrezione generale da parte della popolazione, mentre tra le fazioni moderate regnava l’indecisione, dettata dall’incapacità di prevedere l’evolversi degli eventi e dall’ormai ventennale inattività politica dovuta alla soppressione dei partiti.

Il comunicato di Badoglio aveva portato numerosi giovani e soldati dell’ormai disciolto esercito a ritirarsi sulle Apuane in attesa di conoscere l’evolversi della situazione. Sebbene fossero alimentati da una notevole determinazione i primi combattenti versiliesi dovettero ben presto riconoscere che la volontà e gli uomini non erano di per sé sufficienti per fronteggiare un nemico numericamente e tecnologicamente superiore. A parte qualche fucile trovato in cantina e qualche arma sottratta alle caserme i primi combattenti non disponevano di armamenti necessari per combattere i nazifascisti. Era dunque vitale per la nascente Resistenza versiliese riuscire ad incrementare il numero di equipaggiamenti bellici[1].

In questo momento della storia entra in scena il protagonista del nostro racconto, il ventinovenne Manfredo Bertini, nome di battaglia Maber. Nel 1943 Manfredo era ormai un affermato tecnico cinematografico che aveva curato la fotografia di numerosi film dell’epoca come Pioggia d’estate (1937), Ragazza che dorme (1941) e Il Re d’Inghilterra non paga (1941)[2]. Grazie a questa professione era stato esentato dal servizio militare e non aveva preso parte al conflitto. Nel corso del Ventennio Manfredo non aveva aderito a nessun gruppo clandestino e non aveva evidenziato un particolare interesse nei confronti della politica, limitandosi a concentrare l’attenzione sulla sua carriera di tecnico cinematografico. Nonostante ciò, dopo l’8 settembre Manfredo fu fra i primi a prender parte alla neonata Resistenza versiliese, non tanto per un’affinità con gli ideali comunisti quanto semmai per la comune avversione nei confronti di un nemico che opprimeva la popolazione e ne limitava la libertà.

 

 

Il lavoro che svolgeva gli aveva permesso di restare ai margini della guerra oltre a garantirgli ottimi guadagni che lo avevano messo al riparo dalle difficoltà economiche generalmente legate al conflitto, ma malgrado ciò, decise di sposare la causa della Resistenza e di accettare i rischi che questa comportava. Coloro che ebbero la fortuna di conoscerlo lo ricordano unanimemente come un uomo solare e spiritoso, capace di infondere fiducia e speranza alle persone che lo circondavano. Oltre ad essere un individuo particolarmente carismatico Maber era anche dotato di una notevole intelligenza e di una rapidità di pensiero che gli consentivano di risolvere situazioni all’apparenza insolubili.

 

I titoli di coda del film “Cenerentola e il signor Bonaventura”

 

Per ovviare alla situazione di stallo creatasi dopo l’8 settembre Manfredo propose agli esponenti della Resistenza versiliese di inviare una persona oltre le linee nemiche per stringere un contatto con gli Alleati, segnalare la propria presenza agli angloamericani, e richiederli i rifornimenti necessari per combattere gli occupanti. Manfredo per questa missione, denominata Operazione Gedeone, propose sua cognata, Vera Vassalle, una ventitreenne viareggina, persona fidata e capace, dalle profonde convinzioni antifasciste. La decisione di affidare l’incarico ad una ragazza poteva sembrare un azzardo, ma era invece motivata dalla considerazione che difficilmente avrebbe attirato le attenzioni dei nemici; inoltre ad avvalorare ulteriormente questo ragionamento contribuiva anche l’andamento claudicante di Vera, dovuto alla poliomielite che l’aveva colpita nell’infanzia. Partita da Viareggio il 14 settembre 1943, affrontò un estenuante viaggio durato due settimane, al termine del quale riuscì a varcare la linea del fronte e raggiungere gli americani a Montella, un piccolo comune montano in provincia di Avellino. Informati delle sue intenzioni, i militari la misero immediatamente in contatto con la sede dell’OSS (Office of Strategic Services) situata a Napoli. Una volta giunta nel capoluogo campano fu addestrata all’utilizzo delle telecomunicazioni e alla conoscenza dei sistemi informativi.

Terminato il periodo di formazione la giovane fu segretamente sbarcata nei pressi di Orbetello, nel gennaio 1944, da dove risalì fino a Viareggio, portando con sé l’attrezzatura necessaria per trasmettere e ricevere i messaggi degli Alleati. L’operazione si concluse positivamente e Vera riuscì a giungere nella sua città natale il 19 gennaio 1944[3].

 

Vera Vassalle

 

Ma non fu semplice riuscire subito ad attivare le comunicazioni con gli Alleati. Il radiotelegrafista affiancato ai combattenti toscani aveva smarrito i piani di comunicazione rendendo quindi impossibile qualsiasi contatto con gli angloamericani. Nonostante questo intoppo, i partigiani non interruppero però la loro attività e riuscirono a rendersi protagonisti di alcune azioni di disturbo ai danni delle forze occupanti e ad organizzare il primo rifornimento nella notte del 18 febbraio. Per l’occasione Maber coniò l’espressione “per chi non crede”, il segnale convenuto per dare il via all’iniziativa; il messaggio oltre a rappresentare l’avvio dell’operazione voleva anche rappresentare un invito a coloro che per paura o incertezza non avevano ancora sposato la causa. L’aviolancio si concluse con successo e i partigiani nascosti sulle Apuane riuscirono a raccogliere complessivamente diciassette bidoni carichi di materiali fondamentali per la lotta ai nazifascisti[4].

Radio “Rosa” divenne operativa solamente nel marzo 1944 con l’arrivo di Mario Robello, il tecnico inviato dagli Alleati con i nuovi piani di comunicazione. Nel corso della sua attività la stazione non limitò la propria azione al sostegno della Resistenza versiliese, ma estese il suo supporto anche all’assistenza degli altri gruppi sparsi per la regione, rappresentando un utile legame tra gli angloamericani e le unità impossibilitate a ricevere o fornire notizie. Nel corso della sua attività Radio “Rosa” organizzò numerosi rifornimenti e tenne costantemente aggiornati gli Alleati sugli spostamenti nemici.

Il primo rifornimento del 18 febbraio non passò inosservato attirando le attenzioni dei fascisti locali che organizzarono un rastrellamento nella zona: diversi componenti della formazione partigiana furono arrestati compreso Maber fermato presso l’abitazione del padre la mattina del 5 marzo, ma che riuscì a scappare con uno stratagemma. Prima di essere portato in caserma Manfredo chiese di poter utilizzare il bagno, uno dei militi entrò nella stanza e vedendo una minuscola finestrella dalla quale ipotizzò che fosse impossibile passare gli accordò il permesso. E una volta nel bagno Maber, grazie al suo fisico minuto, riuscì a passare da quell’angusto pertugio facendo perdere le sue tracce[5].

Il giorno dopo fece recapitare a suo padre un sarcastico messaggio che riassume meglio di tante altre parole la figura di Manfredo, capace di scherzare perfino in un frangente drammatico come quello:

Caro vecchio padre volevo mandarti una serratura nuova per sostituire quella rotta per colpa mia, ma fino ad ora me ne è mancato il tempo. Se tu per caso avessi modo di rivedere quei signori che vennero a cercarmi la mattina del cinque, avrei caro che tu cercassi di giustificarmi presso di loro per quella mia brutta maniera di andarmene senza salutarli. In ogni modo appena potrò di nuovo vederli, mi scuserò personalmente a voce e li persuaderò di tutte le mie buone intenzioni[6].

 

Il biglietto inviato al padre

 

Durante il periodo di clandestinità Manfredo venne nascosto nell’abitazione delle sorelle Anna e Maria Barsella,  che contribuirono enormemente alla lotta al nazifascismo rendendo la loro casa il quartier generale della Resistenza viareggina, un luogo dove poter occultare armi e documenti compromettenti e dove poter organizzare gli incontri con gli esponenti delle altre formazioni toscane. Pur non potendosi mostrare pubblicamente, Maber continuò a coordinare la lotta ai nazifascisti e a rappresentare un importante legame con gli Alleati e gli altri gruppi di ribelli.

Tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate si registrò un raffreddamento nei contatti tra i combattenti versiliesi e gli angloamericani: il numero degli aviolanci diminuì e gli Alleati divennero più vaghi nelle comunicazioni. Per ravvivare il legame Maber ritenne necessario un incontro analogamente a quanto aveva fatto Vera qualche mese prima e insieme all’amico Gaetano De Stefanis partirono a bordo di una motocicletta alla volta del sud Italia. Lungo il tragitto vennero fermati ad un posto di blocco e avevano addosso ogni genere di materiale sensibile, come mappe e documenti, ma nonostante la sfortunata circostanza Maber riuscì miracolosamente a salvarsi anche in questa situazione, iniziando a pronunciare una sequela di parolacce che alle orecchie dei tedeschi non avevano alcun significato, ma che inspiegabilmente riuscirono a dare il tempo a quest’ultimo di potersi appartare e gettare il materiale compromettente prima che procedessero alla perquisizione[7].

Una volta entrati in contatto con gli Alleati Manfredo e Gaetano vennero indirizzati presso gli uffici dell’OSS. Visti gli ottimi risultati raggiunti in Versilia gli angloamericani decisero di sfruttare le capacità acquisite negli ultimi mesi e incaricarono loro di creare un altro centro d’informazione nel nord Italia che li tenesse informati sugli spostamenti dei nazisti (Missione Balilla). Nell’agosto 1944 i due partigiani vennero paracadutati nel piacentino, più precisamente nella zona intorno a Pecorara dove operava la Divisone “Piacenza” di Giustizia e Libertà, comandata da Fausto Cossu. Nei primi mesi ci fu l’invio di numerosi messaggi dal quartier generale della Sanese e furono organizzati gli aviolanci con l’arrivo dei fusti di metallo paracadutati dal cielo.

 

Alcuni componenti della Divisione “Piacenza”

 

La situazione precipitò quando agli inizi di ottobre Manfredo fu ferito mentre viaggiava su un’auto nel tratto di strada che da Pecorara porta a Pianello. Le circostanze dell’infortunio rimangono ancora poco chiare: non sappiamo se è stato colpito dai nazifascisti o addirittura dai compagni partigiani perché sembra si trovasse su un’automobile tedesca. Il fatto è che Maber venne colpito al braccio sinistro e la ferita purtroppo si rivelò più grave del previsto, peggiorando di giorno in giorno e procurandogli un dolore continuo. Fu quindi trasferito in casa di una cugina di Fanny Zambarbieri, Caterina Politi, e curato dal Dott. Ricci Oddi, un medico partigiano[8].

 

Manfredo insieme al dott. Ricci Oddi

 

Costretto a letto dalla dolorosa ferita riceveva ogni giorno le visite di Fanny e dell’amica Pia Bertani, alle quali chiedeva spesso di cantargli Firenze sogna di Cesare Cesarini. Da Manfredo si recavano sovente anche i comandanti partigiani per parlare di questioni organizzative, in quel caso le due ragazze si allontanavano dall’abitazione. Andavano a visitarlo anche il Dott. Ricci Oddi e un’infermiera, una ragazza di Pianello Val Tidone che pare gli somministrasse anche della morfina quando lui non riusciva più a resistere al dolore. Con il passare dei giorni, però, la ferita non migliorava costringendolo a ricorrere sempre più spesso alle iniezioni di morfina per alleviare il dolore. All’epoca gli antibiotici erano pressoché inesistenti e la ferita era probabilmente infetta[9].

Agli inizi di novembre arrivarono notizie allarmanti riguardo un massiccio concentramento di forze tedesche a Castel San Giovanni. I partigiani della Divisione Piacenza furono costretti a sciogliere le formazioni e fuggire nei vicini boschi, ed anche Maber nella notte tra il 23 e il 24 novembre insieme ad alcun compagni si incamminò per raggiungere il comando situato alla Sanese portandosi dietro il maggior numero di armi. Ma la ferita non era migliorata e Manfredo febbricitante faticava a stare dietro ai propri compagni. Arrivati alla Sanese chiese agli altri partigiani di installare l’antenna della radio su di un alto castagno e riprovò insistentemente a contattare gli Alleati senza riuscire a ricevere nessuna risposta[10].

Probabilmente è in questo momento che Manfredo maturò la decisione di abbandonare definitivamente il gruppo. Tallonati dai nazisti e privi di qualsiasi sostegno, gli uomini della “Piacenza” avevano ormai le ore contate e Maber si sentiva un peso perché la sua presenza rallentava la loro fuga. L’abbandono degli Alleati e il martellamento incessante dell’artiglieria nemica lo convinsero sempre più della scelta meditata in quei giorni, e dopo l’ennesima richiesta di aiuto agli angloamericani caduta nel vuoto, si allontanò con una scusa e si fece esplodere con una granata. Ai compagni non restò che comporne i resti mortali e dargli sepoltura sotto ad un albero, nei pressi della cascina, avvolgendolo nel telo del paracadute con cui era atterrato nel Piacentino appena un paio di mesi prima.

Prima di togliersi la vita Manfredo aveva scritto ai suoi compagni una lettera d’addio:

“Date le mie condizioni di salute, veramente pessime, a seguito della ferita ricevuta tre mesi orsono, sentendomi incapace a proseguire con mezzi propri, anche per la fatica sostenuta durante la giornata di oggi e di ieri, sono costretto a fare quello che sono in procinto di compiere per consentire agli altri componenti la missione di mettersi in salvo e continuare il lavoro. Sono certo infatti che la fatica che li attende sarà tale da non consentire la cura del sottoscritto; e sono certo d’altra parte, dati anche i rapporti di parentela e di stretta amicizia che mi legano con icomponenti la Missione Balilla I e Balilla II, che per nessuna altra ragione al mondo, diversa da quella che io stesso sto per procurare, i detti componenti abbandonerebbero il sottoscritto. Giuro di fronte a Dio che la mia di stanotte non è una fuga e questo desidero sappia mio figlio. Groppo 24 novembre 1944 Manfredo Bertini”[11]

Nonostante si sia distinto nel corso della Guerra di Liberazione e sia stato insignito della medaglia d’oro al valor militare, dopo la sua scomparsa la figura di Manfredo Bertini non è stata ampiamente celebrata.  Il suo ricordo affiora sporadicamente nella toponomastica della provincia di Lucca e Massa, senza però lasciare un segno indelebile o destare l’attenzione dei passanti[12]. Il tributo più significativo lo troviamo a Montecarlo, il paese natale di Manfredo, dove nel 1975 è stata affissa una targa sulla facciata dell’abitazione nella quale era cresciuto[13]. Un ulteriore riferimento alla sua memoria si incontra sul lungomare di Viareggio, dove sorge lo stabilimento Maber, donato nel secondo dopoguerra dal Comune alla vedova, come gesto di riconoscenza per la scomparsa del marito.

 

Targa posta sulla facciata dell’abitazione dove nacque Manfredo

 

Più recentemente il ricordo di Manfredo è riemerso nel 2011, in occasione del Festival del Cinema di Viareggio, nel corso del quale sono stati proposti al pubblico alcuni fotogrammi di Pioggia d’estate, l’inedito film girato nel 1937 da Mario Monicelli, a cui aveva collaborato. Il tutto è stato reso possibile grazie alla ricerca del regista Riccardo Mazzoni, che è riuscito a rinvenire il materiale nell’archivio di Andrea Bertini, il figlio di Manfredo[14].

 

 

[1]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”: Resistenza e Alleati, Vangelista, Milano 1987, pp. 32-33.

[2]      https://www.imdb.com/it/name/nm1068683/.

[3]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, A.N.P.I. Versilia, Viareggio 1983, pp. 58-60.

[4]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp. 77-78.

[5]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., pp. 81-85.

[6]      Messaggio inviato da Manfredo Bertini al padre, citato in L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp. 82-83.

[7]      F. Bergamini, G. Bimbi, Antifascismo e Resistenza in Versilia, cit., pp. 110-112.

[8]      L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., p. 137.

[9]      Intervista a Giovanna Fanny Zambarbieri, https://www.youtube.com/watch?v=xR2vujiKFoY.

[10]    L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., pp.154-157.

[11]    Lettera d’addio di Manfredo Bertini, citata in L. Guccione, Missioni “Rosa” – “Balilla”, cit., p. 163.

[12]    Abbiamo una via dedicata a Manfredo Bertini a Viareggio, Camaiore, Lucca e una piazza a San Salvatore, frazione del comune di Montecarlo.

[13]    L’abitazione dove Maber è cresciuto si trova in via Cerruglio.

[14]    https://www.iltirreno.it/versilia/cronaca/2011/10/11/news/cosi-ho-ritrovato-i-fotogrammi-di-pioggia-d-estate-1.2737038.

 

Articolo pubblicato nel settembre 2025




IL CANDIDATO DEL FASCISMO AGRARIO MAREMMANO

Profilandosi ormai chiaramente la minaccia fascista, i socialisti, non solo non presero nessuna misura per fronteggiarla, ma col loro atteggiamento tendevano a impedire che ci si organizzasse a difesa. Il fascismo era infatti considerato dai dirigenti socialisti come un fenomeno di mera provocazione, tendente a far intervenire, contro le masse, le forze repressive dello stato borghese. «Non accettare la provocazione» fu fino all’ultimo la parola d’ordine dei dirigenti socialisti. Come se di fronte a bande armate che bastonavano e uccidevano, bruciavano le sedi delle organizzazioni operaie e scioglievano con la forza le amministrazioni socialiste, fosse possibile restarsene passivi, per non fare il gioco dei «provocatori». Istintivamente le masse sentivano che bisognava far qualcosa…”.
(L. Bianciardi, C. Cassola, I minatori della Maremma)

La recentissima pubblicazione del libro di Franco Dominici e Silvio Antonini, Gino Aldi Mai. Il Candidato agrario. Tra il Biennio rosso e l’avvento del Fascismo nella Maremma e nella Tuscia (1919-1924), edito da Effigi, col patrocinio dell’Istituto Storico Grossetano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, conferma la rilevanza del cosiddetto squadrismo agrario nella genesi politico-militare dei Fasci di combattimento e, in seguito, nella restaurazione economica-sociale delle campagne durante il regime fascista.
Dalla Lomellina al Molinellese, dal Polesine di Matteotti alle Puglie di Di Vittorio, il fascismo mussoliniano potè insediarsi, trovare finanziamenti e svilupparsi in territori in cui il padronato agrario, per lo più latifondista, aveva già una lunga “tradizione” di controllo e dominio della manodopera bracciantile e, più in generale, delle lavoratrici e dei lavoratori agricoli subordinati, attraverso l’impiego di propri “uomini” a cui erano demandati quei metodi violenti che non sempre potevano essere assicurati dai pur zelanti Carabinieri.
Secondo le zone, si trattava di piccoli eserciti privati formati occasionalmente da “guardie campestri”, sovrastanti, fattori, “caporali”, “factotum”, braccianti ingaggiati come crumiri, disoccupati assoldati alla giornata… che richiamavano i “bravi” di manzoniana memoria.
A loro era demandato il compito di fronteggiare proteste, scioperi ed occupazioni di terre, ma sovente erano anche la “longa manus” dei proprietari terrieri per “regolare conti” ed intimidazioni fuori dall’ambito lavorativo.

Foto della Squadra d’azione laziale, 1920, tratta da “Squadristi” di Franzinelli.

Le prime squadre fasciste s’inserirono quindi su questo terreno conflittuale, fornendo giovani votati alla violenza ed ex-combattenti per contrastare le Leghe – sia “rosse” che “bianche” – dei lavoratori della terra, compiere spedizioni punitive nei paesi non sottomessi, perpetrare persecuzioni individuali ed esecuzioni “mirate”.
L’intesa era nel reciproco interesse delle parti: i possidenti terrieri, per la tutela dei propri interessi e privilegi, potevano contare su una più efficiente guardia privata, operante come una forza politica, mentre i Fasci usufruivano di legittimazione e ingente sostegno economico, estendendo così la loro influenza, a spese del sindacalismo di classe e dell’associazionismo popolare.
Grazie alla disponibilità di camion e altri veicoli – ma in alcune zone anche di cavalli – lo squadrismo “tricolorato introdusse la tattica della “guerra di movimento”, ma risulta evidente la continuità funzionale con i pre-esistenti “mazzieri dell’Agraria”, così come appare evidente in alcune foto delle prime squadre fasciste nella campagne. Ai bastoni e alle doppiette da caccia si aggiungevano le armi da guerra, ma non vi erano ancora divise paramilitari ed elmetti e le rare camicie nere erano quelle “da fatica” allora normalmente usate dai contadini nel lavoro dei campi.
La situazione della Maremma, sia Toscana che Laziale, conferma perfettamente tale dinamica, seppure a fianco dell’importante realtà agricola vi erano non meno importanti insediamenti industriali e minerari che talvolta – come in Val di Cecina – vedevano un analogo “feudalesimo industriale”.

Non di meno, lo squadrismo «tricolorato» dovette fare i conti col forte radicamento socialista, anarchico e sindacalista, ricorrendo – con la connivenza delle forze dell’ordine e dei comandi militari – a metodi terroristici; basti pensare alla Strage di Roccastrada che nel luglio 1921 anticipò le rappresaglie nazi-fasciste “10 per 1”.
La compiacenza della forza pubblica anche nell’assalto fascista a Grosseto venne confermata da una testimonianza, pubblicata sul quotidiano anarchico «Umanità nova» del 6 luglio 1921, che riferì «dei reali carabinieri allineati fare il presentatarm allo stato maggiore fascista».
La biografia di Gino Aldi Mai, ricco proprietario terriero grossetano, prima liberale e poi decisamente fascista, che rivestì importanti cariche pubbliche e istituzionali (sindaco, podestà, senatore…), al centro del saggio degli storici Dominici e Antonini, appare in effetti paradigmatica per comprendere l’involuzione, dal paternalismo alla reazione, della borghesia agraria non solo in in Maremma, ma simile nel resto della Toscana e del Lazio, così come nella Valle Padana e nel Meridione.
Le “patriottiche motivazioni ideali” di tale passaggio al Fascismo, ebbero il loro riscontro durante il regime quando, come scrive Franco Dominici: «Il padrone tornava a essere tale a tutti gli effetti e delegava il fattore, o agente agrario. I vecchi usi e prestazioni di tipo medievale erano adesso codificati dalla legge; i mezzadri dovevano consegnare nuovamente al padrone gli animali da cortile, le uova, la legna e quelle che diventeranno le “massaie rurali” saranno obbligate a prestarsi ai servizi padronali. Le leggi sugli infortuni agrari vennero abrogate, così come la mutua dei “rossi” il patronato dei “bianchi”; la divisione degli utili dei dei diversi prodotti (latte, suini, monta, castagne, ma anche prodotti come tabacco, barbabietola e pomodori), precedentemente a favore dei mezzadri, fu riportata dalle leggi fasciste al 50% fra le due parti. Il colono tornava a condizioni di vita più misere, a un lavoro con minori certezza, alle angherie dei fattori ed a una dieta alimentare più povera».
La lettura del libro offre anche l’occasione di riflettere su come, prima sui giornali di destra e nei rapporti di polizia e in seguito nella narrazione epica dello squadrismo, il clima di guerra civile instaurato dagli «schiavisti agrari» (seconda una nota definizione dannunziana) venne mistificato come un’eroica e disinteressata battaglia per salvare l’Italia dal bolscevismo e dall’anarchia, con la conseguente glorificazione dei pochi “martiri fascisti” a fronte di migliaia di vittime, perlopiù inermi, della classe lavoratrice e la criminalizzazione di quanti impugnarono le armi per la difesa delle libertà sociali.
I necrologi commemorativi dei fascisti rimasti uccisi nel grossetano e nel viterbese, citati nel libro, forniscono un esempio dello stilema retorico utilizzato per trasformare gli aggressori in vittime e gli oppositori in criminali.
Lo squadrista ventunenne Rino Daus che, da Siena, era giunto a Grosseto per espugnare militarmente il rosso capoluogo maremmano, veniva quindi definito come un «giovinetto» che morendo avrebbe invocato «Italia! Mamma!», mentre Giovanni Migliori, «tutto dedito alla casa e la lavoro», fu ucciso in un’imboscata da «una bieca figura di comunista» a Giuncarico. Giovanni Dessy, fondatore del Fascio di Orbetello, cadde in una sparatoria con alcuni malviventi, ma la sua morte fu il pretesto per rappresaglie contro i “rossi”. Il fascista grossetano Ivo Saletti rimase ucciso al ritorno da una spedizione punitiva a Roccastrada, probabilmente colpito da un colpo partito accidentalmente da un camerata che si trovava a bordo del medesimo camion, causando per ritorsione l’eccidio indiscriminato di dieci inermi paesani. Invece, lo squadrista grossetano Andrea Agnelli, mortalmente accoltellato da uno sconosciuto e la cui uccisione fu subito attribuita «a odio di parte», a distanza di tempo fu escluso dal martirologio fascista. Nello stigmatizzare l’uccisione del fascista viterbese Amoroso Melito venne invece sottolineato il fatto che era un mutilato, ma tale condizione non gli aveva impedito di «prendere parte a parecchie spedizioni punitive».
Un ventennio dopo lo stesso schema sarebbe stato ripreso dalla propaganda della Repubblica sociale contro i partigiani: i «ragazzi di Salò», vittime dei «banditi», ed ancora oggi viene riproposto nel tentativo di riscrivere la storia, dimenticando anche Roccastrada.




LA COPPA MONTENERO-CIANO

La prima edizione della Coppa Montenero si svolse il 25 settembre 1921. La manifestazione, che nel proprio comitato organizzativo non contava ancora personalità politiche, nacque dall’intuizione di un gruppo di circa quindici livornesi legati al mondo giornalistico e all’aristocrazia cittadina[1]. L’esito di questa prima edizione fu alquanto modesto, con la partecipazione alla gara di sole otto auto[2].
Nel 1922 la gara fu anticipata di un mese, a fine agosto, per cercare di aumentare l’adesione dei piloti e il prestigio della competizione. La mossa non portò al risultato sperato e l’evento rimase una manifestazione dalla valenza prettamente regionale. Una differenza in questo secondo anno, rispetto alla prima edizione, fu comunque il notevole aumento di interesse da parte di alcune delle maggiori personalità del mondo politico e industriale cittadino[3]. Come membri del comitato d’onore figurarono infatti Salvatore Orlando, Guido Donegani e Costanzo Ciano, capitani d’industria locali che avevano agevolato e sostenuto nei mesi precedenti l’ascesa politica del Fascio livornese, completatasi proprio ad inizio agosto del 1922, a poche settimane dalla gara, con la conquista violenta del comune e il conseguente allontanamento del sindaco socialista Mondolfi[4].
Fu a partire da questa edizione che Costanzo Ciano, dall’anno successivo presidente del Comitato d’onore, intuì le potenzialità propagandistiche dell’evento e capì quanto avrebbe potuto giovare in termini di rilevanza se avesse fatto “sua” la competizione aumentandone il prestigio nazionale e divenendone l’uomo copertina.
Un cambiamento importante si concretizzò proprio nel 1923, in seguito alla costituzione, in primavera, della sezione livornese dell’Auto Moto Club[5]. Quest’ultima, a causa delle problematiche economiche riscontrate dal comitato esecutivo nelle prime due edizioni, assunse le redini organizzative dell’evento[6]. Vi fu così un miglioramento dell’intero complesso organizzativo e un conseguente primo interessamento da parte delle principali testate sportive italiane.
La svolta definitiva della Coppa Montenero si ebbe con la quinta edizione, quella del 1925, evento che riuscì ad attirare il doppio dei piloti rispetto alle quattro edizioni precedenti e ad ottenere contestualmente una maggiore copertura giornalistica sulla stampa nazionale e locale. In particolar modo proprio le due principali testate locali, «Il Telegrafo» e «La Gazzetta Livornese», controllate da Costanzo Ciano[7], seguirono con un minuzioso coinvolgimento quotidiano tutte le giornate d’avvicinamento e quelle successive di celebrazione dell’evento con articoli e approfondimenti[8].
Questo importante cambiamento fu dettato in primo luogo dal ruolo centrale che Emanuele Tron assunse nell’organizzazione. Tron fu prima membro di primaria importanza dell’Auto Moto Club Livorno (sin dalla sua prima fondazione), poi ne divenne presidente e, successivamente, con il pieno sostegno di Costanzo Ciano, fu scelto per gestire in solitaria il coordinamento dell’evento motoristico[9]. Oltre alle funzioni esercitate nel mondo dei motori, sin dall’avvento del fascismo a Livorno si ritagliò un ruolo di primo ordine anche all’interno della vita politica cittadina. Membro del direttorio del Fascio locale dal maggio 1921[10], non si limitò ad una mera rappresentanza politica, partecipando attivamente ai mesi di violenze e tensioni che culminarono con gli eventi dell’agosto 1922[11] . Nel dicembre del 1925, a pochi mesi dal gran successo dalla quinta edizione della Coppa Montenero, fu nominato inoltre segretario politico del Fascio di Livorno. Anche grazie ai risultati ottenuti nel mondo dei motori, nel 1932 venne chiamato inoltre a presiedere l’U.S. Livorno[12]. Durante gli anni della sua presidenza fu edificato il nuovo stadio intitolato ad Edda Ciano Mussolini[14].
Un importante cambiamento che mutò parzialmente la formula delle gare sul circuito del Montenero avvenne a ridosso della settima edizione dell’evento, quando fu introdotta la Coppa Ciano dedicata proprio al presidente del comitato d’onore Costanzo[15]. Per i primi due anni la Coppa Ciano fu assegnata da una corsa separata, organizzata in concomitanza a quella con cui si conferiva la Coppa Montenero. Le cose cambiarono a partire dal 1929, quando la Coppa Ciano e la Coppa Montenero divennero un’unica gara. Il trofeo del vincitore della Montenero continuò poi ad essere conferito come Coppa Ciano fino all’ultima edizione della manifestazione, svoltasi prima dello scoppio della guerra. Con la trasformazione della Coppa Montenero in Coppa Ciano si completò definitivamente quel progetto di controllo sulla kermesse che Costanzo Ciano aveva iniziato a plasmare sin dalle prime edizioni della competizione.
Di edizione in edizione si susseguirono numerosi ospiti illustri, tra i quali spiccarono autorità politiche di primaria importanza e illustri uomini di sport, che affiancavano pubblicamente Ciano e i suoi familiari durante l’intera giornata della manifestazione. Ciano non si fece però mai rubare la scena, muovendosi sempre con estrema accortezza per restare negli anni il volto dell’evento. Ogni quotidiano, locale e non, impegnato a seguire la parte sportiva della competizione riservò infatti sempre, parallelamente alla cronaca delle gare, un ampio spazio di approfondimento a Ciano e al suo ruolo. «Il Telegrafo», che era ancora sotto il suo controllo, offrì quasi ad ogni edizione della Montenero un resoconto specifico di ogni spostamento in città di Ciano nei giorni di svolgimento delle varie gare, come se le azioni compiute in quelle ore dal “Ganascia” fossero di pari importanza agli esiti sportivi di quello che avveniva tra le monoposto in pista. L’associazione diretta del nome Ciano con l’evento, il più importante della città non solo in ambito sportivo e capace di attirare già da diverse edizioni l’interesse di tutta Italia, fu quindi fondamentale nel sublimare ulteriormente il potere dell’ex militare su Livorno, suo feudo personale, e nell’alimentare di conseguenza nella popolazione livornese il culto della sua personalità.
Dopo quasi un decennio in cui la competizione si consolidò come uno degli appuntamenti motoristici più importanti dell’intero panorama nazionale, nel 1937 vi fu un cambiamento che rese l’evento ancora più rilevante. Questa edizione fu la più importante della storia della competizione, segnata dallo spostamento del Gran Premio d’Italia dal circuito di Monza al tracciato livornese[16]. La decisione di trasferire la gara automobilistica più importante d’Italia a Livorno, un riconoscimento per il comitato organizzativo con ancora a capo Emanuele Tron, arrivò grazie alla forte influenza della famiglia Ciano, estremamente volenterosa di esibire all’interno delle proprie mura cittadine un evento di estrema importanza, ma soprattutto grazie alla decisione delle principali autorità del mondo automobilistico italiano di allontanarsi dal circuito di Monza che era ormai divenuto territorio di totale dominio delle auto tedesche. Ciononostante la competizione non perse i legami con la sua storia recente e le precedenti edizioni, mantenendo anche per questa edizione speciale il titolo di Coppa Ciano. La gara non portò però il risultato atteso: a vincere fu una monoposto Mercedes-Benz, ragione per cui a partire dall’anno seguente il Gran Premio d’Italia fu trasferito nuovamente a Monza.
L’ultima edizione del Gran Premio del Montenero-Coppa Ciano, negli anni del fascismo, si svolse nell’estate del 1939, a pochi giorni dallo scoppio della guerra, che negli anni successivi impedì l’organizzazione delle più importanti gare in tutta Europa. A caratterizzare quest’ultima edizione fu il fatto che ebbe luogo a poche settimane dalla dipartita di Costanzo Ciano e fu quindi dedicata alla sua memoria[17]. La gara automobilistica, il cui prestigio era cresciuto enormemente nel corso del Ventennio fascista, nel dopoguerra non avrebbe più raggiunto i fasti delle edizioni degli anni Venti e Trenta. La sua rilevanza si affievolì dunque in modo simbolico con la morte della principale figura legata alla competizione.
Ciò che ci restituisce l’evoluzione della manifestazione, nel corso di nemmeno due decenni, è principalmente l’utilizzo strumentale che ne fece Ciano. Egli si servì dell’evento, con l’aiuto di uomini a lui fedeli come Tron, come strumento di promozione politica e per accrescere la propria autorevolezza a livello locale e nazionale.

 

Questo articolo è un estratto della tesi dell’Autore Livorno e il mondo dello sport durante il fascismo. Il caso labronico negli anni del regime (relatore prof. Gianluca Fulvetti), discussa presso il Dipartimento di Civiltà Forme del Sapere dell’Università di Pisa nell’Anno Accademico 2023/2024.

 

Note

  1. Cfr. M. Mazzoni, Lampi sul Tirreno. Le moto e l’auto sul Circuito di Montenero a Livorno, Consiglio regionale della Toscana. Comune di Livorno, Livorno 2006, p. 37; Le gare automobilistiche per la Coppa Montenero, “Gazzetta Livornese”, 22 settembre 1921.
  2. Cfr. La corsa automobilistica per la Coppa Montenero. La vittoria di Corrado Lotti, “Gazzetta Livornese”, 26 settembre 1921.
  3. Cfr. http://www.circuitodelmontenero.it/2/images/1922_pub_004.jpg.
  4. Cfr. T. Abse, Sovversivi e fascisti a Livorno (1918-1922): la lotta politica e sociale in una città industriale della Toscana, Franco Angeli, Milano 1991, p. 225-245; M. Tredici, Umberto Mondolfi, il sindaco rosso. L’amministrazione socialista a Livorno 1920-1922), Media Print Editore, Livorno 2022.
  5. Secondo tempo della “Montenero”, Rivista ufficiale del Reale Automobile Club d’Italia, 29 agosto 1937; La prima marcia turistica auto-moto-ciclistica, “Il Telegrafo”, 15 giugno 1923.
  6. I preparativi per la terza Coppa Montenero, “Gazzetta Livornese”, 3 luglio 1923.
  7. A. Viani, Il Telegrafo di Giovanni Ansaldo 1936-1943, Belforte, Livorno 1998, pp. 24-25.
  8. La V Coppa Montenero, “Il Telegrafo”, 3 agosto 1925; Il meraviglioso successo della V Coppa Montenero, ivi, 11 agosto 1925; La V Coppa Montenero. Il successo della competizione organizzata dall’Auto Moto Club Livorno, ivi, 12 agosto 1925; Al fiorentino Emilio Materassi su Itala la V Coppa Montenero, ivi, 17 agosto 1925; L’attività dell’Auto Moto Club Livorno. Per lo sport e per Livorno, ivi, 31 agosto 1925.
  9. L’indiscutibile successo della IV Coppa Montenero, ivi, 21 agosto 1924; Un’altra bella affermazione dell’Auto Moto Club Livorno, ivi, 26 agosto 1924.
  10. R. Cecchini, Livorno nel ventennio fascista, Editrice l’informazione, Livorno 2005, p. 20.
  11. N. Badaloni, F. Pieroni Bortolotti, Movimento operaio e lotta politica a Livorno: 1900-1926, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 138-139.
  12. P. Ceccotti, Il fascismo a Livorno: dalla nascita alla prima amministrazione podestarile, Ibiskos Editrice, Empoli 2006, p. 166.
  13. Il comm. Tron nominato Presidente della Sezione calcistica della “Livorno Sportiva, “Il Telegrafo”, 1° luglio 1932.
  14. I. Bianchi, Lo stadio di Livorno, in «Liburni Civitas», A. VIII, N. I, Belforte, 1935, pp. 4-18.
  15. Le grandi manifestazioni dell’Automobile Club di Livorno, ivi, 3 marzo 1927.
  16. Il XV Gran Premio d’Italia a Livorno, ivi, 26 agosto 1937.
  17. In memoria dell’eroe, ivi, 31 luglio 1939.

Articolo pubblicato nel giugno 2025.




AGOSTO 1917. LIVORNO IN GUERRA. L’AFFONDAMENTO DELL’UMBERTO I

A Livorno, in piazza Luigi Orlando (Porta a Mare), all’ingresso di quello che fu il Cantiere Navale Orlando, è visibile una lapide che, con retorica patriottica, ricorda 14 operai del Cantiere caduti «sulle trionfate alture o nei gorghi del nostro mare aperti da nemica insidia» durante il Primo conflitto mondiale.
Tra questi lavoratori del Cantiere morti in guerra, ben cinque perirono nello stesso evento bellico, ossia l’affondamento della nave Umberto I su cui erano imbarcati, avvenuto il 14 agosto 1917; i loro nomi, non sempre riportati correttamente, erano: Gino Magherini, Sergio Magrini, Gino Nencini, Oscar Ratti e Vincenzo Spinelli.
Tra i 26 marinai dell’Umberto I morti in tale frangente vi erano anche altri due livornesi, Antonio Ammagliati e Pilade Coscetti, di cui si ignora l’occupazione civile[1].
Questa è la ricostruzione sommaria – sulla base delle informazioni disponibili – di quel tragico quanto misconosciuto affondamento, ma anche di quanto avvenne al Cantiere Navale appena ne giunse notizia.

L’Umberto I

L’Umberto I era stata una nave passeggeri di lusso, costruita nei cantieri scozzesi Mc Millan & Sons di Dumbarton per conto della società genovese “Rocco Piaggio e Figli”: varata il 15 agosto 1878, venne intitolata al nuovo re d’Italia, appena salito al trono.
La nave con scafo in ferro e rivestimenti esterni in legno, lunga 109,72 metri e con una stazza lorda di 2746 tonnellate, aveva una propulsione mista, ossia a vela e motore, e poteva raggiungere la considerevole velocità di 13/14 nodi. Destinata al trasporto passeggeri sulle rotte per il Sud America (Genova- Montevideo-Buenos Aires e Genova-Rio della Plata); disponeva di due ponti e tre classi: prima, per circa 90 passeggeri in lussuose cabine ubicate a poppa; seconda, con cabine per 80 passeggeri a centro nave; terza, a prua, per 800-870 emigranti. L’equipaggio, invece, contava 80 uomini.
Dopo il passaggio di proprietà, nel 1885, alla Navigazione Generale Italiana, il piroscafo aveva continuato a trasportare passeggeri verso il Sud America, con un viaggio che durava una ventina di giorni.
Nell’ottobre del 1887, a seguito dei gravi danni riportati incagliandosi nei pressi dell’isola di Ponza, dovette essere rimorchiata sino a La Spezia dove venne sottoposta a lavori di riparazione protrattisi per tre mesi.
Nel 1890 il piroscafo fu noleggiato per il trasferimento del 4º Reggimento di Fanteria a Cagliari.
A partire dal 1894 l’Umberto I venne trasferito dalle linee oceaniche a quelle mediterranee per l’Egitto prestandovi servizio sino al 1896 quando fu requisito dalla Regia Marina durante la guerra d’Etiopia per essere adibito a nave ospedale, dislocata nel porto di Massaua.
Al termine della campagna d’Africa, tornò alla navigazione civile sulla linea celere Napoli – Palermo – Tunisi.
Nel 1908, alle dipendenze del Ministero dell’Interno, venne impiegata per portare soccorso a Messina dopo il devastante terremoto.
La nave, ormai usurata, nel 1910 venne venduta alla Società Nazionale di Servizi Marittimi che la utilizzò come nave da carico.
Nel 1913 fu quindi acquistata all’armatore G. Orlando ed immatricolata nel compartimento di Livorno.
Nel 1915, allo scoppio della Prima guerra mondiale, fu di nuovo requisita dalla Marina militare che la convertì al ruolo di incrociatore ausiliario, con un armamento costituito da un cannone da 120/40 mm. e due da 76/40 mm., collocati a prua e a poppa della nave.
Il suo impiego fu principalmente quello di scorta per i convogli, anche se – secondo alcuni fonti – avrebbe pure operato come trasporto truppe.
La sua ultima missione fu comunque col compito di scorta: salpato da Genova, alle ore 8.30 del 14 agosto 1917, l’Umberto I era alla testa di un convoglio con destinazione Gibilterra composto da sette piroscafi, tre italiani e quattro norvegesi.
É presumibile che, dato che attraverso Gibilterra giungevano i rifornimenti di carbone, alimentari e di materie prime provenienti dai paesi alleati, i sette mercantili, dopo aver scaricato a Genova stavano tornando indietro, fossero pressoché vuoti; per questo motivo, l’Umberto I appariva come l’obiettivo più importante.
Alle 18.30 mentre stava navigando all’altezza di Albenga, a circa 800 metri a est dell’Isola Gallinara, fu raggiunto da due siluri lanciati dal sommergibile tedesco UC 35 [talvolta confuso col sommergibile U 35] al comando di Hans Paul Korsch. I siluri colpirono lo scafo a poppa, all’altezza della paratia divisorio fra la stiva n. 3 e la sala macchine, distruggendo le scialuppe collocate nella zona poppiera ed il locale del radiotelegrafo; nonostante le sette paratie stagne, in pochi minuti seguì l’affondamento, causando la morte di 26 uomini su un totale di 80 membri dell’equipaggio (41 civili “militarizzati” e 39 militari). La maggior parte delle vittime rimase bloccata sottocoperta, senza avere il tempo di salire sul ponte, e in particolare non ebbe scampo il personale addetto alla sala macchine.
Tra questi, sicuramente, vi erano gli operai militarizzati del Cantiere dato che le loro qualifiche erano rispettivamente: capo meccanico di 1ª classe (Spinelli), 2° capo elettricista (Magherini), capo macchinista (Ratti), fuochista scelto (Nencini), macchinista marittimo (Magrini).
Gli altri due livornesi periti nell’affondamento, il marinaio Ammagliati e il marinaio scelto Coscetti, erano invece – presumibilmente – a tutti gli effetti arruolati nella Marina militare.
Secondo alcune fonti, mentre la nave stava affondando, l’elica ancora in funzione avrebbe fatto altre vittime tra i naufraghi in mare ed invano, il comandante Ernesto Astarita avrebbe tentato di scendere sottocoperta, tra le fiamme, per fermare le macchine, perdendovi la vita. Si salvò, invece, il tenente di vascello Cesare Pagani, anch’egli livornese, decorato con Medaglia d’argento al valor militare.
Il personale dei rimorchiatori e i pescatori di Albenga, per l’opera di soccorso prestata, vennero proposti per una riconoscimento civile al valore di marina. Al comandante militare Pagani e al tenente commissario di bordo Ruspini fu conferita la medaglia d’argento al valore militare, al radiotelegrafista Coen la medaglia di bronzo così come alla memoria del capitano di macchina Oscar Ratti, mentre al comandante Astarita fu attribuita la croce di guerra.
Il relitto dell’Umberto I si trova ancora dove affondò; adagiato, sul lato di babordo, su un fondale sabbioso a 50 metri di profondità; le immersioni subacquee hanno rivelato una grande spaccatura, causato dal siluramento, che divide lo scafo in due tronconi, avvolto dai resti di innumerevoli reti da pesca.

L’UC 35

Sin dalla primavera del 1915, un consistente numero di sommergibili tedeschi vennero inviati, via mare e – smontati – via terra, alle basi adriatiche di Pola e Cattaro per operare nel Mediterraneo, sotto la bandiera da guerra asburgica e alle dipendenze del comando supremo della flotta austro-ungarica. Grazie a tale inquadramento piratesco i sommergibili tedeschi poterono attaccare anche le navi italiane, ancor prima della dichiarazione italiana di guerra alla Germania imperale (28 agosto 1916), rimanendo inseriti nella flotta austro-ungarica pure dopo la dichiarazione di belligeranza.
Fra i 45 sommergibili della Kaiserliche Marine operanti da Pola e Cattaro vi era l’UC 35, un sommergibile posamine costiero del tipo UC II, dal 14 giugno 1917 posto sotto il comando dell’Oberleutnant zur See Hans Paul Korsch, decorato con la Croce di Ferro di prima e seconda classe.
L’UC 35 era stato varato nel 1916 nei cantieri Blohm & Voss di Amburgo: lungo 50,4 metri e con un dislocamento di 427 ton. (509 sotto la superficie), poteva immergersi sino a 50 metri sotto la superficie ed aveva un equipaggio di 26 uomini.
Oltre a 18 mine tipo UC200, disponeva di 7 siluri e, in coperta, di un cannone da 88 mm e una mitragliatrice. Dopo che il piccolo convoglio alleato venne avvistato vicino ad Albenga, lo attaccò in immersione lanciando due siluri da prua, riuscendo poi a dileguarsi.
L’Umberto I era il suo 27° obiettivo colpito (fra cui 16 nave italiane), operando nel Mar Ionio, nel Canale di Sicilia, nel Mar Tirreno e in quello Ligure. Altre 26 unità – di varia nazionalità – furono successivamente attaccate dall’UC 35 per un totale di 48 navi affondate (71.084 ton.) e 5 danneggiate (16.706 ton.), prima d’essere a sua volta individuato il 16 maggio 1918 a sud-ovest della Sardegna e affondato dal pattugliatore francese Ailly a colpi di cannone. Dell’equipaggio, vi furono solo cinque marinai superstiti, mentre gli altri 21 sommergibilisti, tra cui il comandante Korsch, perirono in mare.

Morire di guerra e di lavoro

La notizia dell’affondamento, seppure non riportata sui giornali sottoposti a censura militare, era comunque subito arrivata e circolata a Livorno, presumibilmente perché la nave era di proprietà dei Fratelli Orlando, oppure attraverso i livornesi superstiti.
Infatti, il 16 agosto 1917 gli operai del Cantiere Navale, attraverso la Commissione interna, richiesero ed ottennero di astenersi dal lavoro nel turno pomeridiano, in segno di lutto sia per la morte avvenuta due giorni prima del compagno Angelo Ciopi, operaio sessantaduenne, vittima del lavoro, che per la tragica fine degli ex-compagni “militarizzati” sull’Umberto I, vittime della guerra.
Per tragico paradosso, durante il conflitto, nel Cantiere Navale di Livorno, dove gli operai “esonerati” dall’arruolamento erano comunque sottoposti a disciplina militare, furono costruiti anche sette sommergibili per la Regia Marina italiana.
La Direzione del Cantiere, onde evitare un’agitazione interna, aveva infatti acconsentito alla partecipazione delle maestranze – già entrate in sciopero in altre occasioni – al funerale dell’operaio Ciopi, svoltosi nella serata del 16 agosto con la partecipazione degli aderenti alla Federazione metallurgica (FIOM). Tenendo conto del sottinteso significato politico che veniva ad assumere il funerale, il Prefetto predispose, preventivamente, «un largo servizio di vigilanza per garantire l’ordine pubblico» . La stampa locale, da parte sua, riferì in cronaca del funerale dell’operaio, ovviamente senza alcun riferimento ai morti in mare dell’Umberto I.
Pochi giorni prima, il papa Benedetto XV aveva rivolto «ai Capi dei popoli belligeranti» l’appello alla pace, noto per il riferimento alla «inutile strage».

Nota

  1. L’elenco completo delle vittime si trova, a cura di Silvia Musi, nel portale di storia Pietri Grande Guerra. Storie di uomini e donne nella Prima guerra mondiale (https://pietrigrandeguerra.it/wp-content/uploads/2012/04/Elenco-caduti-UMBERTO-I-1.pdf).



PISA 1944, IL RITORNO DEL GATTOPARDO

Dall’incrocio di archivi pubblici e privati, il racconto di come, nel caso emblematico di Pisa, poté imporsi quella continuità di uomini e apparati che segnò il dopoguerra[1].

Per vent’anni aveva vissuto in esilio a Roma, sognando ogni giorno il grande ritorno. Con la Liberazione il momento era arrivato. In una provincia devastata dalla guerra, c’era chi invocava l’avvento di un ordine nuovo. Lui no: già settantenne, ma in ottima forma, lui voleva chiudere in fretta non solo la “parentesi fascista”, ma anche quella partigiana.
Così tornò a Pisa l’ex Ministro Arnaldo Dello Sbarba nell’anno di grazia 1944. Agendo da regista tra Roma, la “sua” Pisa e l’ancor più “sua” Volterra, strinse la giovane forza dei CLN in una morsa di poteri convergenti: prefetti, partiti moderati, governo Bonomi, tribunale, stampa. Ecco come fece e chi lo aiutò.

Collesalvetti, 31 agosto 1944: il CLN di Pisa tiene la sua ultima riunione clandestina. I nazisti abbandonano la linea dell’Arno, dopodomani si entra in città. Tutti i ponti sono stati fatti saltare, la guerra ha fatto migliaia di vittime. Ma in quest’ultima seduta si respira l’aria dei giorni grandi. Vanno nominati gli uomini che la rivoluzione democratica insedierà ai vertici di tutti gli enti pubblici, dal comune agli ospedali, dalla Cassa di Risparmio alla polizia municipale. Come sindaco viene proposto Italo Bargagna, commissario politico della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia”; come questore Alberto Bargagna, comandante della stessa Brigata Garibaldi; come prefetto il comunista Armando Monasterio. Su ogni nomina il CLN dovrà fare i conti con il governatore militare alleato. E mette le mani avanti: “Si delibera di mandare una relazione al governo di Roma allo scopo di evitare la nomina di Dello Sbarba a prefetto di Pisa”[2].

Da giorni circolano voci in proposito. A Roma il governo del CLN è guidato da Ivanoe Bonomi, che ha resuscitato un “Partito democratico del Lavoro” (PDL) raccogliendo vecchi notabili del prefascismo. Per Claudio Pavone “partito trasformista per eccellenza”[3]. Si sa che Bonomi, nell’Italia già liberata, sta sostituendo i “prefetti del CLN” con funzionari di carriera o con compagni del suo stesso partito. A Roma ha nominato prefetto Giovanni Persico, suo braccio destro.
Si sa che Arnaldo Dello Sbarba è tra i cofondatori di questo PDL: “A Roma, prima del 25 Luglio – racconta lui stesso – io mi tenevo in contatto con alcuni dei principali esponenti dell’antifascismo”[4]. Si sa che nella Siena appena liberata è stato lo stesso CLN a proporre a Dello Sbarba di fare il commissario dell’ospedale di Santa Maria della Scala. Lui ha declinato l’invito: gli interessa tornare a casa. A Volterra. E poi a Pisa.


Anni ’20, Arnaldo Dello Sbarba, (secondo da destra) ministro del governo Facta, in una cerimonia a Roma

L’ex ministro conta su protezioni altolocate. Come quella di Adalberto Berruti, potente capo di gabinetto al Ministero dell’interno (che il presidente Bonomi ha tenuto per sé). Berruti è stato prefetto di Pisa dal 1941 al 1943: “In quel periodo – scriverà Berruti – ebbi occasione di conoscere l’on. Arnaldo Dello Sbarba e di avere con lui, in parecchie circostanze, colloqui e scambi di vedute. Ebbi così modo di apprezzare l’elevatezza di pensiero e di sentimento dell’on. Dello Sbarba. Dopo il 25 luglio 1943 fu tra i miei più validi collaboratori nella liquidazione del fascismo pisano”[5]. I due non si erano più persi di vista. Appena lasciata Pisa, Berruti aveva ricontattato Arnaldo: “Eccellenza, le mando da Roma il mio saluto. Conservo di Lei il miglior ricordo e mi auguro di incontrarla presto”. Come dire: si tenga pronto[6].
Berruti è un piemontese la cui antipatia verso i fascisti è pari al suo rigore istituzionale[7]. Diventato capo di gabinetto, Berruti ha voce in capitolo sulla nomina dei prefetti. Pisa gli sta particolarmente a cuore. Vi destina quindi un suo uomo di fiducia: Vincenzo Peruzzo. Anche la vita di Peruzzo si era già incrociata con quella di Arnaldo Dello Sbarba. Peruzzo era stato dal 1921 al 1922 al Gabinetto per le pensioni di guerra nel governo in cui Arnaldo era ministro del lavoro. La carriera di Peruzzo aveva attraversato il fascismo. Per otto anni aveva addirittura lavorato per l’ufficio stampa di Mussolini. Il suo rapporto col regime si era guastato con la guerra: “Per noi – scrive nella sua autobiografia – si sarebbe comunque conclusa con una disfatta: soggiogati dai tedeschi vincitori, o vinti dagli alleati”[8].

Vincenzo Peruzzo arriva a Pisa il 7 settembre 1944: è “il primo prefetto dopo la Liberazione”. Scosso dalle drammatiche condizioni della città, Peruzzo se ne prende cura con una dedizione che la gente ammira. Con la politica però è diverso: ha rapporti difficili col sindaco Bargagna, consulta il meno possibile i CLN, appena può sostituisce i sindaci nominati dalla Resistenza, soprattutto se comunisti. Ai politici preferisce i tecnici. “Ma i tecnici da lui nominati – scrive Carla Forti nel suo saggio su Pisa nel dopoguerra – sono immancabilmente o rappresentanti dei poteri forti, o funzionari pubblici in carica nel precedente ventennio”[9].

Peruzzo lega subito con Arnaldo. Già il 5 ottobre – ignorando i desiderata del CLN – lo nomina commissario della Cassa di Risparmio di Pisa. “Dopo i primi sondaggi con le autorità locali e con le persone più autorevoli dell’ambiente pisano – racconta Peruzzo – mi parve di aver scelto l’uomo adatto al posto importante”.
Secondo passo. Nel novembre il prefetto nomina la giunta provinciale. “Dopo opportuni sondaggi”, Peruzzo designa come presidente il democristiano Aldo Fascetti e, tra gli assessori, l’avvocato Gino Sossi. Sossi è cognato di Arnaldo Dello Sbarba, nonché suo socio in affari e in politica.
Terzo passo. Il 23 novembre Peruzzo istituisce la “Commissione provinciale istruttoria per l’epurazione” composta dal presidente del Tribunale Tito Cangini, dal magistrato Giovanni Miele e dal matematico Leonida Tonelli. Anche Tito Cangini è legato ad Arnaldo Dello Sbarba: è stato giudice al tribunale di Volterra e presidente della locale Cassa di Risparmio[10]. In entrambi gli ambiti Arnaldo è di casa. La commissione per l’epurazione, scrive Carla Forti, “giudicherà da non punirsi quasi tutti i sospesi dal servizio”. In perfetta assonanza col prefetto che, preso in consegna dagli alleati il campo di prigionia per ex fascisti di Coltano, lo svuoterà a tempo di record dei 32.000 internati “con la liberazione – scrive ancora Forti – di quasi tutti i prigionieri”[11].

Come se non bastasse, all’inizio del 1945 il prefetto Peruzzo nomina Arnaldo Dello Sbarba anche presidente del neo-istituito “Comitato provinciale per la ricostruzione”, con l’incarico di fare “la ricognizione dei danni e le opportune proposte da sottoporre al governo per chiedere aiuti adeguati”. Il comitato ha un ruolo vitale per la ripresa economica e sociale della provincia pisana. Ma è anche uno schiaffo al sindaco Bargagna, che “senza un preventivo concerto tra noi – dice Peruzzo – aveva pure pensato di costituire una commissione”. Per Peruzzo, però, è dal prefetto e non dal Comune che devono passare le relazioni con Roma.

L’incarico per la ricostruzione offre ad Arnaldo Dello Sbarba la possibilità di dire la sua sulle scelte della città. Lo fa grazie a compiacenti interviste sul «Tirreno» diretto dal suo vecchio amico Athos Gastone Banti. Banti nel 1924 dirigeva a Firenze il «Nuovo Giornale» e aveva tentato di promuovere la candidatura di Dello Sbarba nel “Listone” fascista con una intensa campagna di stampa. Arnaldo lo compensò con due assegni da 5.000 lire firmati dal direttore della Solvay di Rosignano, generosa finanziatrice della sua carriera politica. Adesso, sul «Tirreno» di Livorno, Dello Sbarba può vantarsi della sua intimità col ministro dei Lavori Pubblici Meuccio Ruini, suo compagno di partito: “Sono mesi che io faccio la spola tra Pisa e Roma!”[12].

Oltre a Pisa c’è Volterra. Arnaldo la considera città “sua”. Ma Volterra è il baluardo della 23a Brigata bis Garibaldi “G. Boscaglia” e i partigiani pretendono l’epurazione radicale degli ex fascisti. A Volterra è forte il Partito d’azione, il più determinato a chiedere un cambio netto di classe dirigente. Presidente del CLN è l’intellettuale azionista Umberto Borgna, innovatore nell’arte dell’alabastro. Azionisti sono Giovanni Salghetti Drioli, dirigente del CLN nell’ufficio tecnico del Comune, e lo scrittore Carlo Cassola, direttore del settimanale «Volterra Libera». Membri del CLN nel giorno della liberazione sono anche il socialista Amedeo Meini, i comunisti Mario Giustarini e Fernando Frattini e il democristiano Aldo Tozzi. Ma il personale disponibile scarseggia. Così nella Giunta comunale ricorrono gli stessi nomi, ma a parti scambiate: Meini sindaco e Borgna vice, oltre a due comunisti e due socialisti come assessori e un agrario “apolitico” come unica concessione agli Alleati. In città si sono concentrati gli uomini della Brigata Garibaldi. E il governatore alleato Clive Robinson ha in linea di massima avvallato le nomine del CLN.
La più importante delle quali è il consiglio di amministrazione del grande ospedale psichiatrico che, con oltre 4.500 pazienti e centinaia di sanitari, è il maggior datore di lavoro della città. Presidente è Mario Basile del Partito d’azione (anche direttore del carcere), membri sono Amedeo Meini (anche sindaco), Mario Giustarini e Aldo Tozzi (anche assessori comunali) e Alfredo Zoppi (anche presidente della bonifica)[13].

Arnaldo Dello Sbarba considera però l’ospedale psichiatrico una propria creatura. Per diversi anni aveva infatti presieduto la “Congregazione di carità”, ente giuridico dell’istituto, in un sodalizio sempre più stretto col geniale direttore Luigi Scabia, che aveva fatto del “Frenocomio di San Girolamo” un modello d’avanguardia della psichiatria europea[14]. Da allora Scabia era diventato l’appassionato sostenitore dell’ascesa politica di Arnaldo e Arnaldo lo strenuo difensore di Scabia dagli attacchi dei fascisti. Arnaldo considerava insomma gli amministratori nominati dal CLN come spine nel fianco. E si era messo in moto.

Il 13 novembre 1944, i partiti liberale, democristiano e demo-laburista volterrani inviano una lettera di fuoco al prefetto e al questore di Pisa. Attaccano violentemente il CLN volterrano, invocano “il ritorno alla normalità” e denunciano, nell’ordine: “arbìtri (incitamento alla rivolta, detenzione abusiva di armi, minacce ecc.), accentramento di cariche, illegalità della costituzione del CDA dell’Ospedale psichiatrico”[15].
Detto, fatto. Il 23 novembre il prefetto Vincenzo Peruzzo dispone lo scioglimento del CDA e nomina un commissario prefettizio “fino alla ricostituzione dell’ordinaria rappresentanza”[16] .
La reazione del CLN volterrano è immediata. Dietro l’azione – mette a verbale il 26 novembre – c’è un ristretto gruppo “risultato chiaramente far capo ad Arnaldo Dello Sbarba, che viene aspramente giudicato per la slealtà”. I commissariamenti – ricorda il CLN – li usavano i fascisti contro Scabia. Lo stesso sistema è ora invocato da “ben individuati gruppetti reazionari e fascistoidi” a colpi di ”anonima delazione e intrighi di corridoio”[17]. Il CLN di Volterra chiede l’immediato ritiro del commissario e un incontro urgente col Prefetto.

Ma prima che la delegazione guidata da Borgna e Meini riesca a farsi ricevere dal Prefetto, un’altra tegola “sbarbiana” cade sulla testa del CLN volterrano. Il 3 dicembre 1944 l’avvocato Arnaldo Frattini, membro comunista del CLN provinciale, porta da Pisa la notizia di “una probabile ammissione dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba in seno al CLN provinciale” in rappresentanza del Partito demo-laburista. Per i volterrani è il colmo. In una seduta straordinaria in cui i democristiani sono “assenti perché non invitati”, vista la loro posizione sull’ospedale psichiatrico, comunisti, socialisti e azionisti redigono “una relazione sulla figura morale e politica del Dello Sbarba, stilata dai presenti in base a documentazioni potute raccogliere e firmata dal presidente Borgna“, da inviare ai CLN provinciale, regionale e nazionale, nonché agli organi periferici e centrali dei partiti della sinistra[18].

La relazione è durissima. “Il Dello Sbarba – accusa Borgna – che ama presentarsi come ex deputato antifascista, sin dalle origini del fascismo collaborò con questo, riuscendo ad esservi ammesso dopo il 1935”.
A prova della compromissione di Arnaldo, Borgna cita la sua candidatura nel 1921 come capolista del “Blocco nazionale” di Giolitti, che comprendeva anche i fascisti. “Dura ancora nella memoria del popolo di Volterra – scrive – il ricordo della triste giornata di violenze esperite dalle squadre del fascio volterrano il 7 Maggio 1921 dopo il comizio elettorale tenuto al teatro Persio Flacco dal Dello Sbarba, nel quale egli rivolse infiammate parole ai fascisti”.
Quella giornata fu un vero shock per la città. Quel giorno, scriverà un testimone oculare, l’alabastraio socialista Arnaldo Fratini, “Arnaldo Dello Sbarba scese l’ultimo gradino della sua carriera politica. Durante il corteo che si svolse per le vie della città, i fascisti al suo seguito distribuirono diversi pattoni a chi, al loro passaggio, non si toglieva il cappello. Giunti all’altezza della trattoria di Balosce, di fronte al Cinema Centrale, vi entrarono spaccando tutto e picchiando tutti coloro che vi si trovavano”[19].
Nella risposta a quello che con disprezzo chiamò “Libello Borgna”, Arnaldo minimizzerà il ruolo dei fascisti quel giorno. Ma la cronaca pubblicata dal «Corazziere», giornale monarchico e conservatore cittadino, conferma che tra gli oratori ufficiali in teatro ci fu anche “il fascista signor Davino Volterrani”, che il corteo si svolse “tra canti e inni patriottici” e che di seguito il PSI affisse un manifesto che diceva: “Chi vota per Arnaldo Dello Sbarba vota per il fascismo contro il socialismo”[20].
Questo per il passato. Sul presente, Borgna cita il commissariamento dell’ospedale psichiatrico, provocato da Dello Sbarba con “l’intensa opera disgregatrice e diffamatoria che ha svolto presso la Prefettura di Pisa dove purtroppo le sue parole sembrano ancora trovare credito”. La relazione si conclude con l’appello al CLN provinciale “di respingere la richiesta d’ammissione nel suo seno dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba”.

Arnaldo viene avvertito della relazione Borgna prima a voce da Tito Cangini, poi per lettera da Mario Piccioli, rappresentante del PDL nel CLN pisano: “Ottenni il rinvio della discussione. È opportuno che Lei prepari una esauriente risposta”. La risposta non arriva subito. Prima arrivano, firmate dai segretari volterrani di DC, PLI e PDL, tre lettere di protesta per le “violente accuse contro l’avv. Arnaldo Dello Sbarba”. Le tre lettere sono opera di una stessa mano: tra le carte private di Arnaldo se ne trova la minuta scritta con la sua inconfondibile calligrafia[21].

Il 27 dicembre arriva finalmente l’autodifesa di Arnaldo Dello Sbarba: “È venuta l’ora di gridare basta!” scrive l’accusato. “Il libello Borgna non è che la continuazione di quella caccia all’uomo, di marca squisitamente fascista, di cui sono vittima da vent’anni”[22]. Nella sua abile autodifesa Arnaldo sfrutta il vantaggio che ha, su avversari che conoscono poco della sua vera vita, per dire mezze verità – e pure qualche non verità – senza tema di smentita.
La tessera fascista ad esempio non la nega, ma la minimizza: “La conferì Ettore Muti a tutti gli ex combattenti” e lui, che non l’aveva chiesta, l’accettò. Ma “anche con quella bella tessera le diffidenze contro di me non cessarono”. E soprattutto: “nessuno mi ha mai visto né in montura, né in adunate, né in collaborazioni dirette o indirette”[23].
Arnaldo elenca invece con precisione “le persecuzioni fasciste” che ha patito: la devastazione di casa e l’ufficio sul Lungarno a Pisa; l’assedio a sua madre a Volterra; il divieto di esercitare la professione nella città della Torre pendente; l’incendio di un suo rifugio a Pietrasanta; l’aggressione degli squadristi della “banda Buffarini” alla stazione di Pisa; l’esilio a Roma; la vigilanza di polizia subita dal 1925 al 1929; il mandato di cattura spiccato dal prefetto repubblichino Adami nell’ottobre 1943 e infine la latitanza nella campagna senese.
Tutto vero. Ma sulle cruciali elezioni politiche del 1924, che segnarono la rottura del fascismo pisano con l’ex ministro, Arnaldo è molto più reticente. Scrive che i fascisti intransigenti gli impedirono “di far parte di quella lista di minoranza che la legge elettorale consentiva per i NON ADERENTI AL FASCISMO” (il maiuscolo è suo). E qui mente.
Gli archivi documentano tutt’altra verità. Raccontano cioè i tentativi da lui fatti per oltre un anno di ottenere una candidatura non di minoranza, ma direttamente nel “Listone” di Mussolini, con l’appoggio dello stesso Duce e del suo braccio destro Cesare Rossi, che elogiava “il suo contributo di affiancatore del movimento fascista in varie sue fasi”[24]. L’adesione a una lista di minoranza Arnaldo Dello Sbarba la considerò solo per qualche ora, il giorno in cui la sua candidatura coi fascisti saltò. Tentazione fugace e subito accantonata. A sera assicurò a Mussolini il suo pubblico appello a votare comunque la lista fascista come “mio disinteressato aiuto alla forte battaglia che Tu combatti con pugno sicuro”[25].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Sugli anni dell’esilio romano di Arnaldo, il CLN e l’opinione pubblica pisana erano ancora meno informati. L’odio fascista per Dello Sbarba era infatti concentrato a Pisa. A Roma poteva invece frequentare i palazzi del potere e diventare un avvocato d’affari di successo, salvo fare attenzione a mantenersi “indifferente” verso il regime, come segnalavano nel 1927 le autorità romane di polizia che lo sorvegliavano[26].
A proposito d’affari, dalle ricerche svolte presso l’Archivio centrale dello Stato di Roma sono emerse delle carte davvero sorprendenti. Nel 1926 Arnaldo Dello Sbarba entra in società addirittura con Marcello Piacentini, l’architetto di Mussolini, e Angelo Rossellini, grande impresario edile (e padre del futuro regista Roberto). I tre si uniscono nell’A.P.I.S. “Anonima Per le Industrie Stabili”, allo scopo di riedificare completamente l’area tra Piazza Barberini e Piazza S. Bernardo[27]. Per alcuni anni Arnaldo ha il suo studio di avvocato nella sede dell’A.P.I.S. in via S. Niccolò da Tolentino, in area Barberini. Piacentini – che presiede la società – si occupa di progettazione, Rossellini di costruzioni e Arnaldo di finanza, cioè di reperire i capitali necessari per realizzare le opere.
In questo Arnaldo ci sapeva fare, era versatile, efficiente, instancabile. Da ex Ministro al lavoro e alla previdenza sociale sapeva come attrarre gli investimenti dei grandi istituti di previdenza, delle banche pubbliche e para-pubbliche, delle assicurazioni sociali. Quello di Arnaldo era un ruolo chiave per Piacentini, diventato l’architetto prediletto dal Duce proprio per l’abilità con cui riusciva a portare a termine progetti smisurati.
Partiti i lavori nel 1926, Mussolini visitò il cantiere nel settembre del 1930 e – racconta Paolo Nicoloso nella sua biografia di Piacentini – ne rimase compiaciuto. Definì la nuova via Barberini “un’arteria di grande respiro”, ammirò “le linee architettoniche dei palazzi (…) e il nuovo cinematografo” che era stato da poco inaugurato e fu per l’epoca un’opera avveniristica[28].
Nel 1934 l’A.P.I.S. aveva già concluso la sua missione e Arnaldo ne era potuto uscire “con qualche cosa alla mano – scrisse al fratello Bruno – che vedrò come impiegare utilmente”[29].

Anni ’30, Arnaldo Dello Sbarba avvocato d’affari a Roma

Ma perfino a Pisa Arnaldo Dello Sbarba riuscì a operare nonostante l’esilio. San Giuliano Terme è un borgo termale appena fuori Pisa. Il 20 giugno del 1923, nello studio dell’avvocato Gino Sossi sul Lungarno Mediceo, venne fondata la società anonima “Regie Terme di San Giuliano” e firmato il contratto di gestione dei bagni per sessant’anni, un canone basso e l’impegno di forti investimenti. “Il perno della compagine societaria – scrive Mirella Scardozzi nella sua storia dei “Bagni di Pisa” – non era un imprenditore nel senso comune del termine, ma un personaggio politico di notevole rilievo locale e nazionale, l’avvocato Arnaldo Dello Sbarba”[30]. Come sappiamo, Sossi era cognato di Arnaldo e della società era socio anche il fratello Bruno.
Da Ministro alla previdenza, Arnaldo si era occupato intensamente di termalismo e per le “Regie Terme” il suo risiedere a Roma si rivelò vitale. Quando la crisi del 1929 farà crollare il turismo termale di lusso, sarà infatti grazie alle convenzioni con la Cassa Nazionale delle Assicurazioni Sociali che Arnaldo riuscirà a tappare i buchi nel bilancio. E quando neppure questo basterà, e le “Regie Terme”, a un passo dal fallimento, verranno accusate di inadempienza negli investimenti, sarà proprio all’Istituto Nazionale Fascista per la Previdenza Sociale che Arnaldo riuscirà a vendere sia la società che gli stabilimenti – e non in una, ma in ben tre cessioni frazionate, l’ultima nel luglio 1939. Grazie a questo, scrive Mirella Scardozzi, “i 16 anni di vita della società non si rivelarono per i suoi azionisti così negativi come farebbero pensare i bilanci sempre in rosso”.

Ma torniamo al dicembre 1944 e al “libello Borgna”. Non fu la diatriba sul suo passato a far vincere Arnaldo Dello Sbarba, ma due semplici argomentazioni giuridiche della sua autodifesa. E cioè: primo, le regole istitutive dei CLN non prevedono “il diritto di sindacazione politica sulle persone delegate dai rispettivi partiti a rappresentarle”. E, secondo: il “Libello Borgna” è nullo, poiché approvato escludendo a priori una parte del CLN. Sulla questione il CLN provinciale vota infine il 29 dicembre 1944: “A maggioranza di voti si ammette l’on. Dello Sbarba in seno al CLN di Pisa”[31].
La decisione fa probabilmente parte di un unico pacchetto. Il giorno prima infatti era stato chiuso anche il conflitto sull’ospedale psichiatrico. Il prefetto Vincenzo Peruzzo era salito a Volterra e aveva negoziato col CLN un nuovo consiglio di amministrazione. Del vecchio erano rimasti in due, il presidente Mario Basile e Mario Giustarini. Tutti gli altri erano nuovi: l’ingegner Giovanni Salghetti Drioli, Emilio Vanni e un colonnello, Piero Ricci. La composizione era gradita al Prefetto, il commissario fu ritirato[32].
La questione politica invece restò aperta. Il CLN volterrano venne tartassato per mesi di domande dal CLN nazionale e dal governo Bonomi. Se la sua composizione fosse regolare, perché a Volterra PLI e PDL non fossero ammessi, quando e da chi fosse stato approvato il “Libello Borgna” e così via. I volterrani da accusatori erano diventati imputati[33].

La situazione precipita nell’aprile 1945. Il 10 il CLN di Volterra, a conclusione di una vasta raccolta di informazioni, vuole finalmente deliberare sull’epurazione degli ex fascisti. E comincia dall’assemblea dei soci della Cassa di Risparmio di Volterra. I democristiani propongono di delegare il compito alla Cassa stessa, ma la sinistra fa muro: “non è logico che gli epurandi possano decidere sulla loro stessa epurazione!”. La lista viene approvata, contiene 14 nomi, su 6 la DC vota contro. Ci sono cognomi che contano: Ciapetti, Guidi, Lagorio, Inghirami, Ginori. C’è anche Arnaldo Dello Sbarba – quella è la sua “banca di casa”. È un azzardo.
Il giorno dopo Borgna e compagni vengono convocati d’urgenza dal Governatore alleato. Si tratta delle misure contro gli ex fascisti. La seduta è drammatica. Riferendosi ad arresti di fascisti in zona, il governatore dice che “non si può trattenere una persona verso la quale non vi siano denunce specifiche”. Borgna ribatte: “i maggiormente responsabili ed in special modo i sovvenzionatori ed i sostenitori del fascismo” hanno sempre agito nell’ombra. Coi criteri del Governatore “non potranno mai essere arrestati né colpiti“. Il Governatore non cede. Cede il CLN, riservandosi di raccogliere denunce più circonstanziate e intanto di spiegare alla popolazione “la ragione dei mancati arresti”[34].
Ma non basta. In base a due successive circolari del CLN provinciale, il CLN di Volterra prima è costretto ad accogliere il PLI, poi a fare marcia indietro sull’epurazione. Va delegata agli enti interessati: proprio quel che pochi giorni prima era stato giudicato “illogico”.
Alla fine – ed è il 24 aprile, proprio alla vigilia della Liberazione – Umberto Borgna si dimette dal CLN. Si dimettono anche Amedeo Meini, il sindaco, e Mario Basile, il presidente dell’ospedale. Formalmente perché l’ennesima circolare da Pisa vieta il cumulo delle cariche.
Ma la realtà è diversa. Umberto Borgna mette a verbale una sua emozionata dichiarazione. “Lascio il CLN con molto dolore – dice Borgna – non voglio né posso continuare la lotta sleale fatta di questioni personali, di piccole, grette ambizioni. Non sono uomo politico. Rimpiango il lungo e snervante periodo della lotta clandestina. Lo rimpiango per quello spirito di fraternità che tutti ci animava”. Ribadisce che per lui, azionista, i CLN sono “la base della futura politica italiana, la più pura espressione del popolo antifascista, del popolo italiano di domani”. Un popolo “che ha veramente sofferto e che è buono e deve essere aiutato, amato, sorretto nella dura lotta di ricostruzione materiale e morale”.
Quella di Borgna non è però una rinuncia: “Ho altre responsabilità cittadine – dichiara – alle quali debbo doverosamente portare tutto il mio massimo contributo”. Intende innanzitutto la giunta comunale, di cui è il vicesindaco. La scelta è lungimirante. Sarà infatti proprio attraverso le istituzioni cittadine che, negli anni a venire, potranno fruttificare le istanze antifasciste, con il partigiano comunista Mario Giustarini sindaco amatissimo di Volterra per ben 34 anni, dal 1946 al 1980[35].

Anni ’50, Arnaldo Dello Sbarba a Pisa

Ma nell’aprile del 1945 nemmeno l’uscita di Borgna basta a calmare le acque attorno al CLN volterrano. Tra il maggio e il giugno 1945 Tito Cangini, presidente del tribunale di Pisa, accusa «Volterra Libera» di parlare di “magistratura reazionaria”. Cangini respinge “le ingiurie di questo fogliuccio volterrano” e annuncia querele contro “il professor Cassola” se non viene sconfessato. A luglio il CLN provinciale sconfessa Cassola e “deplora l’attacco di Volterra Libera contro la magistratura”[36].
La guerra a mezzo stampa contro «Volterra Libera» e il CLN riprende in agosto con l’uscita del «Il Porcellino», quindicinale ispirato, finanziato e in parte scritto da Arnaldo Dello Sbarba. Nelle carte private di Arnaldo si trovano lunghi manoscritti su presunte malversazioni del “trio Borgna-Meini-Salghetti”. Uno è indirizzato al prefetto Peruzzo. Non si sa se gliel’abbia spedito[37].
In parallelo l’ascesa di Arnaldo Dello Sbarba continua. Il 25 novembre 1945 viene designato a Roma nella “Commissione di studio per la riorganizzazione dello Stato”, organo della “Consulta nazionale” che fa da parlamento provvisorio. Lì ritrova l’amico prefetto Adalberto Berruti, che per la commissione lavora.
Il 18 aprile 1946 Arnaldo passa da commissario a presidente regolarmente eletto della Cassa di Risparmio di Pisa. Lo rimarrà fino alla fine del 1951. Di qui alla sua morte (1958) diventerà anche presidente dell’ACI, della Croce Rossa, del Gioco del Ponte, degli Istituti riuniti di ricovero ed educazione di Pisa, della Domus Galileiana, del Credito Agrario[38].

Il 2 giugno 1946 viene proclamata la Repubblica. I CLN vengono sciolti, ma la loro esperienza si è logorata da tempo. In seguito al conflitto su epurazione e ruolo dei CLN, tra il dicembre 1944 e il giugno 1945 ha governato a Roma per sette mesi un “Bonomi ter” da cui socialisti e Partito d’azione sono rimasti polemicamente fuori. Sono gli stessi sette mesi in cui si è consumata la resa di conti tra Arnaldo Dello Sbarba e il CLN volterrano.
Siamo all’epilogo. Il 31 luglio 1946 il prefetto Adalberto Berruti lascia il Ministero degli interni. Due mesi dopo anche il prefetto Vincenzo Peruzzo lascia Pisa. Arnaldo gli dedica un pubblico saluto: “Fu il prefetto che fece concorde la nostra discordia“. Missione compiuta.

NOTE

[1] Per questo articolo sono stati consultati i seguenti archivi: Archivio della Biblioteca Guarnacci di Volterra, Fondo A. Dello Sbarba, (d’ora in poi BGV/FAdS); Archivio storico postunitario del comune di Volterra, Fascicolo CLN-Verbali delle adunanze (d’ora in poi ASCV-Postunitario); Archivio di Stato di Pisa, Fondo Comitato di Liberazione Nazionale (d’ora in poi ASPi/CLN); Archivio centrale dello Stato di Roma, Fondo Dello Sbarba Arnaldo (d’ora in poi ACS/FAdS); Ivi, Casellario Politico Centrale, b. 1695 Dello Sbarba Arnaldo, (d’ora in poi ACS/CPC); Archivi privati di famiglia (d’ora in poi AP/AdS). Ringrazio la forte squadra di amici di Volterra per l’infaticabile aiuto: Danilo Cucini, Gian Paolo Debidda e Giovanni Tamburini dell’ANPI; Silvia Trovato, archivista del comune e Elena Dello Sbarba, custode delle memorie familiari.

[2]      ASPi/CLN, Verbale 31 agosto 1944.

[3]      Cfr. C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. In particolare i cap. 2 e 3. Sullo sfondo storico: C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Borignhieri, 1991. Sulla continuità dello Stato e degli apparati militari: D. Conti, Gli uomini di Mussolini: prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana, Torino, Einaudi, 2017.

[4]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, prot. 1000/2-A, 30 dicembre 1944.

[5]      BGV/FAdS, Memoria di Adalberto Berruti per Arnaldo Dello Sbarba, 6 giugno 1948.

[6]      BGV/FAdS, Cartolina di  Adalberto Berruti, 22 agosto 1943.

[7]      Cfr. L’ombra del potere. Biografie di capi di gabinetto e degli uffici legislativi, a cura di G. Tosatti, Società per gli studi di storia delle istituzioni, 2016,  pp. 33-35.

[8]      Per tutte le citazioni del prefetto Peruzzo cfr. Vincenzo Peruzzo, ricordi del primo prefetto di Pisa dopo la Liberazione, a cura di C. Forti, Pisa, Pacini, 2012.

[9]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, Milano, F. Angeli, 2007, pp. 100-112.

[10]      Cfr. Cangini Tito, in Dizionario di Volterra, a cura di L. Lagorio, Pisa, Pacini, 1984, pp. 926-927.

[11]      Cfr. C. Forti, Dopoguerra in provincia, microstorie pisane e lucchesi, 1944-1948, cit., pp. 72-79. Nel saggio sono riportati i seguenti dati: Il campo di Coltano passò all’amministrazione italiana il 28 agosto 1945. Ospitava 32.229 internati. Il 27 settembre 1945 cominciarono gli interrogatori, che si conclusero il 29 ottobre. Circa 30.000 internati furono subito liberati e 2.700 trattenuti, ma parecchi fuggirono o, trasferiti in un campo presso Arezzo, furono presto liberati. 313 furono prelevati dalle Questure competenti, 45 ufficiali dell’esercito furono trasferiti al Forte Boccea a Roma e 187 ufficiali di Marina al campo di Narni.

[12]      Cfr. Il Tirreno, 25 maggio 1945.

[13]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza del 14 luglio 1944, n. 7. Il “Libro dei verbali del CLN di Volterra, dal 9 luglio 1944 al 4 settembre 1945” è stato conservato da Luigi Riondino e donato all’Archivio del Comune di Volterra il 9 luglio 2024, in occasione dell’80° anniversario della Liberazione della città.

[14]      Cfr. V. Fiorino, Le officine della follia, Il frenocomio di Volterra, Pisa, ETS, 2011.

[15]      BGV/FAdS, Lettera Dc, PLI e PDL del 13 novembre 1944.

[16]      ASPi, Gabinetto del prefetto, Decreto 6973, div. 2/2, del 23 novembre 1944.

[17]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 26 novembre 1944, n. 17.

[18]      ASPi/CLN, b. 1 f. 5, Attività e posizione politica dell’avv. Arnaldo Dello Sbarba, Memoriale del 4 dicembre 1944 del CLN volterrano al CPLN e p.c. al CTLN.

[19]      AP/AdS, A. Fratini, Appunti per una storia del socialismo volterrano, esemplare originale dattiloscritto dell’autore, pp. 58-59.

[20]      Cfr. «Il Corazziere», nn. 1° e 14 maggio 1921.

[21]      BGV/FAdS, Lettere del 23 dicembre 1944 della Dc, del PLI e del PDL e minuta manoscritta non datata.

[22]      ASPi/CLN, “È venuta l’ora di gridare basta!”, cit.

[23]      In BGV/FAdS: Arnaldo Dello Sbarba torna sulla vicenda in una autobiografia in terza persona scritta nel 1948: “Venuto segretario del partito fascista Ettore Muti, il quale dichiarò che la rivoluzione fascista era finita e bisognava rientrare nella costituzionalità e nella legalità, fece appello all’associazione combattenti a collaborare con la di lui opera; molti amici della provincia di Pisa fecero premura all’onorevole Dello Sbarba, ex combattente iscritto, di esaminare se non fosse dovere civico e patriottico di non estraniarsi dall’assecondare il richiamo del Muti. Si recarono a Roma per avere un colloquio con Muti ed avutolo per due volte a distanza in una sala dell’hotel Moderno, Muti confermò le promesse dichiarando che se queste non si fossero verificate egli avrebbe lasciato la sua carica. Scongiurò i combattenti di non fare un secondo Aventino. Allora fu deciso di accogliere l’invito tanto quanto bastava per rendere possibile un’eventuale futura collaborazione per cui fu accettata la tessera. Ma rimasero nell’attesa. Questa tessera è rimasta lettera morta, l’onorevole Dello Sbarba e gli altri rimasero in disparte e in silenzio, delusi ed umiliati di essere stati così ingenui da credere non a Muti, il quale in realtà se ne andò, ma alla possibilità che il fascismo si trasformasse”.

[24]      BGV/FAdS, Lettera di Cesare Rossi al senatore Ginori Conti del 9 dicembre 1923.

[25]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo Dello Sbarba a Benito Mussolini del 20 febbraio 1924. Sulle lotte interne al fascismo pisano e la tentata candidatura di Arnaldo Dello Sbarba nel “Listone” fascista del 1924, cfr. R. Dello Sbarba, Arnaldo Dello Sbarba: anatomia di una caduta, in «ToscanaNovecento», portale di storia contemporanea. https://www.toscananovecento.it/custom_type/arnaldo-dello-sbarba-anatomia-duna-caduta/?print=print

[26]      Cfr ACS/CPC, Segnalazione del 7 luglio 1927 del Prefetto di Roma Paolo D’Ancona al Ministero dell’Interno, Direzione generale di P.S., Divisione affari generali e riservati: “Pregioimi comunicare che l’ex deputato Dello Sbarba avv. Arnaldo abitante in via Viminale 43 e con studio in via Pie’ di Marmo 18, da vari anni non risulta che esplichi alcuna attività politica e serba regolare condotta. Nei riguardi dell’attuale regime fascista dimostrasi indifferente”.

[27]      Cfr. ACS, Guida Monaci, Guida commerciale, scientifica e artistica della città di Roma, aa. dal 1926 al 1946.

[28]      Cfr. P. Nicoloso, Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia, Udine, Gaspari, 2018, pp. 121-122.

[29]      BGV/FAdS, Lettera di Arnaldo al fratello Bruno Dello Sbarba del 16 aprile 1933.

[30]      Cfr. M. Scardozzi, Un paese intorno alle terme, da Bagni di Pisa a San Giuliano Terme, 1742-1935, Pisa, ETS, 2014.

[31]      ASPi/CLN, Verbale della seduta del 29 dicembre 1944.

[32]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 28 dicembre 1944, n. 20.

[33]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN, CCLN, CLN Volterra, Gabinetto governo Bonomi, Uffici centrali e periferici di PLI e PDL, tra il 1° gennaio e il 30 marzo 1945.

[34]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 11 aprile 1945, n. 21.

[35]      ASCV-Postunitario, CLN-Verbali delle adunanze, Adunanza 24.04.45, n. 32. Su Mario Giustarini si v. M. Bacchiet, Giustarini Mario, in Dizionario biografico online delle comuniste e dei comunisti della provincia di Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Istituto di storia sociale, della Resistenza e dell’età contemporanea. https://www.bfscollezionidigitali.org/entita/16112-giustarini-mario?i=10

[36]      ASPi/CLN, Corrispondenza tra CPLN e Tito Cangini dal 15 maggio 1945 al 29 luglio 1945.

[37]      BGV/FAdS, diverse memorie stilate da Arnaldo Dello Sbarba tra il 1944 e il 1945, tra cui un intero “Blocco di appunti”.

[38]          Cfr. E. Dello Sbarba e S. Trovato, Inventario dell’archivio di Arnaldo Dello Sbarba, «Rassegna volterrana», a. 90, 2013.




L’odissea della famiglia Nasibù

Ad oltre vent’anni dall’ultima impresa coloniale compiuta da un paese europeo, il 3 ottobre 1935 le armate italiane invasero l’Etiopia, violando l’indipendenza dell’unico stato africano riuscito a scampare al colonialismo europeo di fine Ottocento e inizio Novecento. Intenzionato a voler raggiungere un successo che gli avrebbe garantito di poter accrescere il consenso interno ed affermare internazionalmente l’immagine del paese, Mussolini mise in piedi un apparato bellico che non aveva precedenti nella storia dell’espansionismo occidentale: nel corso del conflitto venne inviato in Etiopia oltre mezzo milione di soldati coadiuvati nella loro azione dalla presenza di numerosi mezzi motorizzati e dal sostegno dell’aviazione e dell’artiglieria. Malgrado l’evidente vantaggio nei confronti dell’avversario gli italiani riuscirono a rendersi protagonisti di terribili episodi, come l’utilizzo di armi internazionalmente proibite come l’iprite o di deliberate violenze nei confronti dei civili. Nel giro di sette mesi l’esercito dell’imperatore Hailé Selassié venne annientato dalla travolgente superiorità delle forze messe in campo da Mussolini; grazie a tale vantaggio gli uomini guidati da Badoglio riuscirono a sconfiggere l’esercito etiope dopo una serie di battaglie campali che si combatterono nella prima metà del 1936[1].

Con l’ingresso ad Addis Abeba il 5 maggio 1936 e la successiva proclamazione dell’impero, il regime dichiarò ufficialmente concluso il conflitto italo-etiopico. La fuga dell’imperatore e l’entrata dell’esercito italiano nella capitale avevano fornito a Mussolini la possibilità di poter dichiarare formalmente conclusa la guerra. Tuttavia la fine delle ostilità era lontana, sia perché erano ancora presenti nel paese numerosi soldati sopravvissuti al conflitto, sia perché ampie porzioni del territorio rimanevano ancora inesplorate considerata la celerità con la quale Badoglio e Graziani avevano proceduto verso Addis Abeba. Tale incertezza non si limitò al periodo immediatamente successivo alla conquista, ma si protrasse per l’intero arco della presenza italiana in Etiopia fino all’abbandono della colonia nel 1941[2].

Fra i militari etiopi il degiac[3] Nasibù Zamanuel, comandante in capo delle forze armate del fronte sud, fu certamente il generale che si distinse maggiormente nel corso del conflitto. Rispetto agli altri graduati di rango elevato il degiac era stato l’unico fra i generali ad esser stato nominato da Hailé Selassié per le sue capacità militari e per le doti che aveva evidenziato nel corso della sua carriera politica come console ad Asmara, Governatore di Addis Abeba e direttore del Ministero della guerra. Pur disponendo di un numero inferiore di soldati e di armamenti obsoleti, Nasibù riuscì a tener testa alle truppe guidate da Rodolfo Graziani, responsabile italiano delle operazioni sul fronte sud. Oltre allo svantaggio numerico e tecnologico il generale dovette fronteggiare le modalità di combattimento adottate dal comandante italiano che prima di compiere un’avanzata era solito bombardare le posizioni nemiche per poi irrorarle di iprite, ma, nonostante ciò, gli uomini guidati da Nasibù Zamanuel riuscirono a rallentare l’avanzata delle truppe italiane.

A pochi giorni dalla conclusione del conflitto, il generale raggiunse l’imperatore a Gibuti per accompagnarlo nel suo esilio europeo. Sfortunatamente nel corso della guerra i gas utilizzati da Graziani avevano causato danni irreparabili ai polmoni di Nasibù, che si spense in una clinica svizzera il 16 ottobre 1936. Poco prima di morire il degiac recò l’ultimo servigio ad Hailé Selassié, preparando il famoso discorso che l’imperatore tenne alla Società delle Nazioni per denunciare l’aggressione fascista ad uno stato indipendente: “Rappresentanti del mondo, sono venuto a Ginevra per adempiere, presso di voi, al più ingrato fra i doveri di un capo di Stato. Quale risposta dovrò riferire al mio Popolo?”[4].

 

Atzede Babitcheff e il degiac Nasibù Zamanuel pochi mesi dopo il loro matrimonio

 

La notizia della scomparsa raggiunse la famiglia che era rimasta in Etiopia. La perdita del capofamiglia gettò nello sconforto i suoi cari, aumentando l’incertezza che ormai da tempo accompagnava la loro esistenza. Malgrado il lutto la vedova Atzede Babitcheff reagì con sorprendente lucidità e con una forte dose di coraggio; intimorita dalle inquietanti notizie riguardanti le violenze compiute ai danni dei civili, decise di giocare d’anticipo e di chiedere a Graziani il trasferimento in Italia della famiglia. Oltre alla paura per le potenziali ripercussioni che i figli avrebbero potuto subire, in quanto membri di una famiglia che si era apertamente opposta all’invasione, Atzede era spinta dalla volontà di voler garantire loro un’adeguata educazione e un ambiente consono alla loro crescita. Graziani acconsentì favorevolmente alla proposta, ben lieto di poter allontanare dalla colonia una famiglia che un giorno avrebbe potuto congiurare contro l’Italia o costituire un punto di appoggio per i ribelli, ed approvò perfino la richiesta di Atzede di poter ricevere mensilmente i soldi provenienti dall’affitto della residenza familiare, che sarebbero risultati fondamentali per il pagamento dell’istruzione dei figli[5].

 

Atzede Babitcheff insieme alle figlie Martha e Amaretch

 

Il trasferimento in Italia dei Nasibù non rappresentò però un caso isolato, ma fu l’anticipazione di un fenomeno che nei mesi successivi avrebbe assunto dimensioni maggiori. Inseguito all’attentato compiuto nel febbraio 1937 ai danni di Graziani, divenuto nel frattempo la principale carica presente in colonia, vennero deportati nella penisola circa 400 etiopi appartenenti alla nobiltà e alla classe dirigente. Le autorità coloniali decisero di allontanare dal paese gli elementi ritenuti politicamente più pericolosi con l’intento di fiaccare la lotta armata privandola del potenziale sostegno delle figure più eminenti del paese. Deportati dal marzo 1937 i confinati vennero inizialmente trasferiti nell’isola dell’Asinara (Sassari) per poi essere successivamente destinati in altre località della penisola a seconda del loro livello di pericolosità: gli “irriducibili” vennero condotti a Longobucco (Cosenza) dove furono soggetti ad un regime detentivo più duro e severo, mentre coloro che erano considerati maggiormente collaborativi vennero trasferiti a Tivoli e Mercogliano (Avellino), in cui poterono usufruire di un trattamento meno rigido. Generalmente la presenza in Italia dei confinati non si estese a lungo e la maggioranza di essi poté rientrare in patria dall’estate del 1938, eccetto gli etiopi considerati pericolosi che tornarono nel loro paese solamente alla fine del 1943[6].

Per diverse ragioni la storia della famiglia Nasibù non può essere accostata alla vicenda degli altri confinati presenti in Italia, rappresentando semmai una singolare anomalia. In primo luogo, il trasferimento in Italia dei familiari del defunto degiac non fu un’imposizione delle autorità coloniali, ma fu una decisione seguita alla proposta di Atzede Babitcheff di voler allontanare i propri figli dalla spirale di violenza che aveva invaso il paese. In secondo luogo, rispetto agli altri confinati, i Nasibù vennero trasferiti da un luogo all’altro del paese senza che vi fosse un’apparente motivazione dietro a tali spostamenti, ma piuttosto la volontà di voler infierire su un gruppo di persone ormai divenute innocue. Nel corso di otto anni la famiglia affrontò numerosi spostamenti che la portarono nelle più disparate località, dal caos di Napoli alla pace delle Dolomiti, dal capoluogo toscano alla campagna aretina, giungendo persino per qualche breve periodo a Tripoli e Rodi.

Il 5 dicembre 1936 la famiglia salpò da Gibuti in direzione dell’Italia[7]. A bordo della nave ebbero modo di familiarizzare con alcuni aspetti che avrebbero caratterizzato il loro confino, come la presenza degli agenti di sicurezza che ironicamente chiamavano “angeli custodi” e l’impossibilità di potersi avvicinare ai passeggeri italiani. Dopo poco più di una settimana di viaggio giunsero a Napoli dove vennero sistemati in un appartamento sul lungomare di via Caracciolo. La permanenza nel capoluogo campano non durò a lungo visto che dopo appena due mesi la famiglia venne inspiegabilmente trasferita in Libia, per poi essere nuovamente riportata in Italia.

 

I figli di Nasibù fotografati a Napoli. Da sinistra: in alto un amichetto italiano e Fassil; in basso Amaretch, Brahanou e Martha

 

Amaretch, Brahanou e Martha affacciati sul balcone dell’appartamento in via Caracciolo a Napoli

 

Nei primi tre anni di confino i Nasibù vennero spostati in rapida sequenza da un luogo all’altro, subendo complessivamente sette trasferimenti (Napoli – Tripoli – Napoli- Rodi – Napoli – Tripoli – Vigo di Fassa)[8].

Alla fine dell’estate del 1940 la famiglia ottenne l’autorizzazione per essere trasferita da Vigo di Fassa a Firenze. Arrivati nel capoluogo toscano poterono ricongiungersi con lo zio Vittorio, che nel frattempo era giunto in Toscana con qualche mese d’anticipo, trovando ospitalità presso i Solari, e grazie all’aiuto di questa nobile famiglia fiorentina trovarono una sistemazione in un appartamento di via Borgo Pinti 92. Poco dopo il loro arrivo a Firenze iniziarono i primi segnali dell’entrata in guerra, come il coprifuoco e il razionamento dei beni alimentari[9].

Dopo che la famiglia trovò sistemazione, Atzede si premurò di garantire ai propri figli la possibilità di poter proseguire gli studi: Martha e la sorella vennero iscritte all’internato del Sacro Cuore, che già avevano avuto modo di frequentare durante il confino napoletano, mentre Fassil venne ammesso per il tempo necessario a sostenere gli esami di riparazione come esterno al collegio Cicognini di Prato, dopo esser stato rifiutato dal Liceo Michelangelo di Firenze per motivi razziali. Secondo quanto affermato da Martha, durante la breve presenza al Cicognini, il fratello fu protagonista di un episodio che rischiò di compromettere ulteriormente la già precaria posizione della famiglia: chiamato in modo irriguardoso e volontariamente discriminatorio da parte di un professore, il giovane etiope aggredì fisicamente quest’ultimo incappando in una denuncia e nell’espulsione dalla scuola. Fortunatamente l’incidente non provocò nessun provvedimento, risolvendosi con il richiamo da parte del Federale di Firenze affinché un caso del genere non si ripetesse[10].

L’istruzione dei figli era per la signora Atzede di primaria importanza e lungo tutta la loro tormentata permanenza nella penisola – dal 1936 fino al 1945 – si impegnò costantemente nella ricerca di scuole che accettassero i propri figli: «La mamma, ovunque si andasse, ci iscriveva a nuove scuole». Ma a causa delle leggi razziali tale intenzione si rivelò particolarmente difficoltosa, se non impossibile da realizzare nelle scuole pubbliche, mentre Atzede riuscì a far ricevere un’educazione ai propri figli negli istituti religiosi. È probabile che in questo caso il regime chiudesse un occhio, e come ipotizzato da alcuni studiosi, il Pontificio collegio etiopico e padre Gaudenzio Barlassina, un missionario italiano che aveva operato in Etiopia per diversi anni, si fossero impegnati in favore della famiglia e avessero contattato le scuole religiose per favorire la loro iscrizione.

Il 5 maggio 1941, cinque anni dopo l’ingresso di Badoglio ad Addis Abeba, l’imperatore Hailé Selassié poté ritornare nella capitale dopo aver sconfitto, grazie al supporto degli inglesi, le ultime forze italiane presenti sul territorio. La perdita dell’Etiopia determinò un generale allentamento delle misure restrittive nei confronti di tutti i confinati etiopi presenti nella penisola: Atzede, ad esempio, doveva recarsi a segnalare la propria presenza in Questura solamente una volta alla settimana, mentre i confinati considerati più pericolosi iniziarono ad avere maggior libertà di movimento[11]. Ma il caos seguito all’allontanamento degli italiani comportò l’interruzione del pagamento degli affitti delle case appartenute al defunto degiac, denaro destinato al pagamento delle rette delle scuole che Amaretch, Martha, Fassil e Brahanou frequentavano. Così Atzede si trovò costretta a dover fronteggiare una situazione complicata: prima decise di vendere i pochi gioielli che ancora possedeva, dopodiché scelse di iscrivere i figli a scuole meno costose, le ragazze iniziarono ad andare dalle suore di Santa Reparata, mentre i ragazzi frequentarono il Collegio Cavour[12].

Malgrado questi accorgimenti la situazione economica non migliorava e dopo varie sollecitazioni di Atzede, il 14 novembre 1941, il Ministero dell’Africa Italiana (MAI) approvò lo stanziamento di 2.000 lire mensili per il sostentamento dei Nasibù, ma era una cifra ancora troppo bassa per la sopravvivenza di una numerosa famiglia costretta a dover fare i conti con il caroprezzi dovuto alla guerra. Più il conflitto si prolungava e maggiori divenivano le difficoltà che erano costretti ad affrontare, ma Atzede non si diede per vinta e continuò a scrivere alle più alte cariche fasciste, finché un giorno il Prefetto di Firenze si attivò in loro favore facendo salire il sussidio mensile a 4.000 lire. E non appena la signora Babitcheff poté ritirare il denaro lo stanziò immediatamente all’istruzione dei propri figli iscrivendo i ragazzi al collegio Domengi Rossi e le ragazze al Sacro Cuore[13].

Nell’estate del 1942 l’intensificarsi dei bombardamenti portò Atzede ad optare per un temporaneo trasferimento della famiglia nella campagna toscana. Analogamente a molti italiani che abitavano in importanti città della penisola, i Nasibù decisero di abbandonare Firenze e di sfollare a San Giustino, un piccolo paese nella provincia di Arezzo. Il cambio di località si rivelò ideale, catapultando la famiglia in uno scenario ancora lontano dagli effetti della guerra. Se nel capoluogo toscano il passaggio degli aerei era sinonimo di bombardamenti e di terrore, nella campagna aretina la loro comparsa provocava l’effetto opposto, costituendo una fonte di curiosità e di divertimento per la popolazione del piccolo borgo. Al rombo dei motori gli abitanti erano soliti precipitarsi fuori dalle loro abitazioni ipotizzando verso quali mete fossero diretti, mentre i più piccoli, affascinati da quegli oggetti di metallo che sfrecciavano fra le nuvole, esplodevano in grida d’emozione e canti sfrenati. Nel periodo di permanenza nel piccolo paese i Nasibù poterono constatare che, rispetto alle grandi realtà urbane come Firenze e Napoli, nelle campagne la popolazione era caratterizzata da una maggiore spontaneità e dall’assenza di pregiudizi: gli abitanti del borgo aiutarono in diverse occasioni i nuovi arrivati, mentre i ragazzi non faticarono a crearsi una rete di amicizie, inserendosi rapidamente tra i loro coetanei[14].

Sebbene la vita a San Giustino procedesse tranquillamente e non fosse ancora turbata dalla presenza della guerra, l’istruzione continuò a ricoprire per Atzede un ruolo cruciale, rappresentando il motivo principale dei loro spostamenti, cosicché i Nasibù tornarono dopo pochi mesi ad abitare in quell’appartamento di via Borgo Pinti a Firenze. Il secondo soggiorno fiorentino, dalla fine del 1942 all’autunno dell’anno successivo, rappresentò uno dei periodi più complicati della loro permanenza in Italia, a causa della fame e degli stenti che la famiglia era ormai costretta a subire giornalmente. In questa situazione Atzede mise da parte l’educazione dei figli e pose naturalmente al primo posto il loro sostentamento e il loro benessere fisico. Agli inizi del 1943 la vedova riuscì ad ottenere dal Prefetto di Firenze il trasferimento per la seconda volta nelle Dolomiti, luogo indubbiamente più tranquillo per la crescita spensierata dei ragazzi lontano dai venti di guerra e soprattutto luogo in cui non si pativa la fame.

Alla notizia della liberazione di Roma (4 giugno 1944) Atzede con i propri figli partirono immediatamente verso Firenze, certi che di lì a poco anche il capoluogo toscano sarebbe stato liberato.

Giunti a Firenze, dopo un viaggio non privo di incidenti con il convoglio costretto a fermarsi a causa dei bombardamenti, i Nasibù ebbero la sorpresa di trovare il loro appartamento di via Borgo Pinti occupato da famiglie di sfollati. Privi di un’abitazione vennero indirizzati verso una casa in via Atto Vannucci, vicino all’attuale Stazione ferroviaria in via dello Statuto. L’appartamento era ampio e spazioso, ma dopo pochi giorni dalla loro sistemazione scoprirono che il quartiere era in gran parte abbandonato per la presenza nelle vicinanze di un deposito di munizioni, obbiettivo di possibili bombardamenti. Colta dal panico la famiglia si rifugiò nella casa degli amici Solari in via del Sole.

Dopo la liberazione di Firenze i Nasibù si spostarono a Roma intenzionati a far ritorno in Etiopia. L’arrivo nella capitale sancì la conclusione delle loro tribolazioni, “finalmente la vita si riprendeva i suoi diritti sulla morte, la gioia sulla tristezza, l’entusiasmo sull’afflizione. Liberi da ogni tipo di vigilanza, liberi di vivere come ci piaceva, eravamo sommersi dall’eccitazione[15]. In un turbinio di emozioni la famiglia passò nel giro di pochi giorni dalle sirene che preannunciavano i bombardamenti alla possibilità di poter essere ricevuta dal principe Umberto di Savoia e da papa Pio XII.

Dopo un breve periodo a Roma gli etiopi vennero trasportati insieme ad altri rifugiati al campo di concentramento di Bari, da dove salparono nel gennaio 1945 in direzione di Port Said. E dopo una breve permanenza in Egitto la famiglia intraprese l’ultima tappa del viaggio giungendo ad Addis Abeba nell’aprile 1945, otto anni dopo la partenza da Gibuti.

Con la sua scelta coraggiosa Atzede era riuscita a proteggere i suoi figli e in qualche modo a far sì che non interrompessero il loro percorso di crescita sul piano dell’istruzione.

 

Note:

[1] Cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. La conquista dell’Impero, Laterza, Roma-Bari 1979.

[2] Cfr. M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1935-1941, Laterza, Roma-Bari 2008.

[3] Titolo nobiliare etiope corrispondente a quello di conte.

[4] Citato in A. Del Boca, Il negus. Vita e morte dell’ultimo re dei re, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 179.

[5] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 13-14.

[6] Cfr. P. Borruso, L’Africa al confino. La deportazione etiopica in Italia (1937-39), Lacaita, Manduria-Bari 2004.

[7] Il gruppo era composto da undici elementi, la vedova Atzede, i cinque figli Fassil, Amaretch, Brahanou, Martha e Theodros, il nonno materno Ivan e i suoi figli Haregue, Helena e Vittorio ed infine la governante Enkoyé.

[8] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, cit., pp.146-147.

[9] Ivi, p. 184.

[10] Ivi, pp. 185-187.

[11] G. Ferraro, Una liberazione “diversa” e le lettere “amhariche” degli anni di confino dei deportati etiopi, in «Rivista Calabrese di Storia del ‘900», n. 2, 2013, pp. 240-242.

[12] M. Nasibù, Memorie di una principessa etiope, cit., pp. 189-190.

[13] Ivi, pp. 195-196.

[14] Ivi, pp. 197-201.

[15] Ivi, p. 222.

 

Articolo pubblicato nel maggio 2025.




Resistenze, femminile plurale – 50 partigiane toscane

 

 

🔸Batazzi Messina

Messina Batazzi

🔸Benetti Osmana

Osmana Benetti

🔸Benveduti Turziani Eleonora (detta Noretta)

Eleonora Benveduti Turziani

🔸Borghigiani Aida

Aida Borghigiani

🔸Cecchi Lina

Lina Cecchi

🔸Cecchi Liliana

Liliana Cecchi

🔸Cerquetti Virginia

Virginia Cerquetti

🔸Cipolli Primetta

Primetta Cipolli

🔸Cremoni Erminia

Erminia Cremoni

🔸Crociani Angiola“Giangia”

Angiola Crociani

🔸Cutini Lea

Lea Cutini

🔸de Jacquier de Rosée Gabrielle-Marie

Gabriella de Rosée

🔸Del Freo Assunta

Assunta Del Freo

🔸Enriques Agnoletti Anna Maria

Anna Maria Enriques Agnoletti

🔸Fantini Alberta

Alberta Fantini

🔸Fiorineschi Fiorenza

Fiorenza Fiorineschi

🔸Fondi Anna

Anna Fonti

🔸Gattavecchi Valchiria

Valchiria Gattavecchi

🔸Gereschi Livia

Livia Gereschi

🔸Giugni Ofelia

Giugni Ofelia

🔸Gori Mariella

Mariella Gori

🔸Guaita Maria Luigia

Maria Luigia Guaita

🔸Lenzini Cristina

Cristina Lenzini

Cristina Lenzini

🔸Lorenzoni Maria Assunta (detta Tina)

Tina Lorenzoni

🔸Machetti Cordara “Lucciola”

Cordara Machetti

🔸Marchetti Nara

Nara Marchetti

🔸Maria Moriconi

Maria Moriconi

🔸Marrocchesi Natalina

Natalina Marrocchesi

🔸Martini Anna

Anna Martini

🔸Martini Tosca

Tosca Martini

🔸Mattei Teresa

Teresa Mattei

🔸Menconi Mercede

Mercede Menconi

🔸Modesti Rossana

Rossana Modesti

🔸Montemaggi Walma

Walma Montemaggi

🔸Pannocchia Ubaldina

Ubaldina Pannocchia

🔸Parenti Norma

Norma Parenti

🔸Parracciani Wanda

Wanda Parracciani

🔸Pelliccia Walkiria

Walkiria Pelliccia

🔸Pillitteri Guelfi Giuseppina (detta Unica)

Giuseppina Pillitteri

🔸Rola Francesca

Francesca Rola

🔸Rossi Modesta

Modesta Rossi

🔸Sandroni Bruna

Bruna Sandroni

🔸Seghettini Laura

Laura Seghettini

🔸Talluri Bruna

Bruna Talluri

🔸Toniolo Teresa

Teresa Toniolo

🔸Tozzi Lina

Lina Tozzi

🔸Valsuani Emilia

Emilia Valsuani

🔸Vannucchi Suor Cecilia

Suor Cecilia Vannucchi

🔸Vassalle Vera

Vera Vassalle